Recensioni / Le strade sono architetture (ma non solo)

Mai come in questo periodo la strada rivela la sua attualità come spazio pubblico che accoglie la vita e come vuoto che attesta la desolazione di una guerra. Abbiamo ben presenti le immagini delle strade durante la lunga pandemia, prima deserte, ma poi sempre più affollate di cittadini che vogliono muoversi in libertà, vedersi, incontrarsi in sicurezza e per questo richiedono nuove forme di spazio pubblico. Ancora di più, oggi, ci colpiscono le immagini delle strade distrutte delle città ucraine sconvolte dai combattimenti. La strada si conferma scena della vita, della realtà quotidiana e della storia. Sebastiano Serlio aveva disegnato strade diverse per le sue scenografie teatrali: una per la commedia, una seconda per la tragedia.

La strada è al centro del progetto urbano: attraversa tutte le scale, coinvolge discipline diverse, si lega alla forma fisica della città e del territorio e, nello stesso tempo, ci parla della sua forma sociale. In una fase in cui domina l’intervento specialistico, per cui anche la strada si riduce ad un’opera tecnica settoriale che finisce per contribuire alla nostra indifferenza rispetto alla scena urbana, è necessario tornare a guardare la strada nella sua complessità, nel suo spessore. Nel rapporto tra strada, edificio, città, territorio si rivela l’unitarietà del processo progettuale, l’integrazione tra architettura, urbanistica e infrastruttura. È questo il tema che attraversa il bel libro di Roberto Secchi e Leila Bochicchio – L’architettura della strada. Forme Immagini Valori (Quodlibet, 2020) – che con un ricco apparato iconografico indaga, appunto, l’architettura della strada, assumendo la struttura di un atlante “ove vengono presentate le diverse forme nelle quali sono state concepite e talvolta realizzate le strade, con brevi commenti alle figure ed alcuni testi concisi che segnalano i più significativi punti di svolta nella storia dell’architettura di questo artefatto” (p.15).

Secchi e Bochicchio ripercorrono, attraverso l’evolversi della strada, la storia della città, dall’antichità alla contemporaneità. Un lungo e denso percorso che ci sollecita a spingerci oltre, in un passato profondo e in un futuro incerto. Il libro inizia con le strade dell’antichità romana, in primo piano la via Appia e la sua capacità di misurare il territorio, ma anche la potenza dell’intersezione del cardo e del decumano, quasi a sottolineare, fin dall’inizio, la coincidenza tra ingegneria e architettura e l’affermazione di un atto fondativo. Le strade si incrociano e fondano la città, ma forse, se ci spingessimo all’indietro, non troveremmo all’origine la capanna, ma un sentiero, un cammino. Siamo nati fondamentalmente nomadi.

E domani quale sarà il ruolo della strada? Ci attende la desolazione della strada di Cormac McCarthy dove “padre e figlio affrontano il penoso cammino della sopravvivenza lungo ciò che resta delle strade della civiltà trascorsa” (p.43), oppure dobbiamo pensare ad uno sviluppo del modello geopolitico di Parag Khanna, quando rappresenta il mondo come sistema di reti interconnesse? E in questo caso quali forme assumeranno le reti infrastrutturali, come avvolgeranno il pianeta e interagiranno con il cambiamento climatico?

La strada si trasforma in relazione alle tecnologie e alle strutture sociali, ma c’è un punto di svolta che traspare con evidenza: per migliaia di anni le misure e le forme della strada si sono basate sul passo del pedone, sul passaggio di animali e di carri, in tal modo la strada si integrava al tessuto delle città, realizzando un sistema unitario. La separazione tra strada e città avverrà molto più tardi con l’aumento del traffico e soprattutto con l’introduzione degli autoveicoli. Molto di più della rivoluzione industriale, è stato l’ingresso dell’auto a trasformare il piano urbanistico, ponendo le strade al centro dello sviluppo urbano. Rispetto alla lunga storia della città, il passaggio è stato relativamente recente e ha coinciso con l’affermazione della città moderna.

Il processo di razionalizzazione che pervade la città tra rinascimento e illuminismo è determinante per mettere a punto nuovi modelli per le strade. Una intera sezione è dedicata alla trattatistica: dall’Alberti, al Palladio, al Milizia, al Patte. Si definiscono per la strada nuove regole, nuove misure, nuove relazioni con la città. Gli assi stradali sperimentano visioni urbane che rompono il tessuto compatto della città medievale: la strada nuova di Genova diventa un modello, la forma simbolica di un’epoca. Nello spazio rettilineo della strada si realizza la visione prospettica della città corpo, in cui le architetture possono essere collocate, misurate e riconosciute nella sequenza lineare dell’asse stradale. Mai come allora l’architettura ha potuto legarsi così intimamente alla strada. L’invenzione dell’asse stradale è un passaggio importante, sperimentato in città (il piano di Sisto V diventa un paradigma), ma anche nello spazio dei grandi giardini, come a Caserta o Versailles. Gli assi stradali assumono lunghezze via via maggiori fino a disperdere la misura prospettica e aprirsi idealmente all’infinito, ovvero alla grande dimensione della città. “Queste nuove strade – scrivono gli autori – hanno riorganizzato i tessuti urbani spesso a costo di imponenti demolizioni e ne hanno condizionato in toto i successivi sviluppi, hanno attribuito una nuova dimensione alla scala della percezione urbana, modificandone profondamente l’immagine” (p.84). I grandi Boulevard di Parigi sono l’epilogo spettacolare di questa tradizione che segna l’anima della città e si rinnova nel grande asse che dalle Tuileries si allunga ora fino alla Défense.

Tutte le teorie della città moderna trovano nella strada il tema centrale attraverso cui costruire la proposta funzionale e spaziale per nuovi modelli urbani. Il libro è scandito da figure e da movimenti chiave: da Cerdà, Soria y Mata, Hénard, Howard, Le Corbusier, Wright, Taut, Hilberseimer, Moses, fino alla revisione della Carta di Atene da parte del Team 10 e al rapporto Buchanan. Su alcune figure il libro si sofferma particolarmente.

Ildefons Cerdà, in anticipo rispetto all’esplosione del traffico urbano, individua nella rete stradale e nella sua maglia ortogonale il principio organizzatore dell’espansione urbana. A Barcellona la sezione stradale assume dimensioni standard (20 m per il sistema base, 60-80 m per le diagonali), incorpora larghi marciapiedi che assolvono la funzione di fornire alla città e alla residenza uno spazio pubblico continuo e di prossimità. La strada “è pensata come complementare alla casa e ad essa indissolubilmente legata sin dall’origine” (p. 28). La scacchiera stradale costruisce l’isolato (113 m) che diventa il modulo spaziale e fondiario della crescita urbana. La cortina continua delle strade della città tradizionale, cede il passo alla scansione degli isolati. Sarà un modello vincente per tutto l’Ottocento e oltre. La rigidità del modulo è solo apparente, nel tempo si rivelerà sorprendentemente flessibile (al punto di trasformarsi recentemente in un ‘superblock’ di nove isolati per consentire al suo interno la realizzazione di una mobilità sostenibile e pedonale).

Eugène Hénard analizza la strada nel sistema generale della mobilità urbana cui vuole garantire funzionalità ed efficienza e in questa prospettiva entra nel dettaglio disegnando sezioni adeguate e soluzioni per incroci, svincoli, rotonde. Henard coglie la strada nel suo spessore, nel suo rapporto con il sotto, con il terreno che accoglie i sottoservizi. È il primo a staccare la strada dal suolo, segnando così una svolta decisiva per lo sviluppo della città moderna. Le Corbusier ne farà un principio cardine.

“In la Ville Radieuse Le Corbusier raccoglie le sue teorie sulle città (…). Il tema della strada vi svolge un ruolo preminente: nella sua visione la strada ottocentesca è morta” (p.151). La strada si stacca dal terreno, i flussi automobilistici si specializzano e si separano da quelli pedonali, la maglia della scacchiera urbana si amplia raggiungendo i 400 m. Il rapporto edificio-strada viene smantellato: le grandi arterie a scorrimento veloce restano sui bordi, mentre all’interno della maglia gli edifici possono collocarsi indipendentemente e assumere una pluralità di forme. Il distacco dal suolo della strada si trasmette alle piastre sopraelevate e agli edifici residenziali su pilotis. A terra il traffico locale, gli attraversamenti pedonali e il parco urbano. La proposta è radicale, la Ville Radieuse è un modello assoluto, la sua logica geometrica rimanda alle città ideali e di fondazione. Non sarà mai realizzata per intero, ma i suoi elementi, alcune sue proposte, influiranno enormemente nella costruzione della città contemporanee; basti pensare alle piastre sollevate da terra dei centri direzionali, alle ‘superquadras’ di Brasilia, alla rottura del fronte edilizio su strada.

Anche i suoi viadotti abitati proposti ad Algeri a Montevideo, a San Paolo non si sono realizzati, sono invece entrati in città come autostrade urbane, come infrastrutture settoriali che penetrano prepotentemente nel tessuto urbano. “Quando si opera all’interno di una metropoli con troppi edifici, ci si deve aprire un varco con una scure di carne” diceva Robert Moses (p. 216). È al viadotto abitato di Le Corbusier, tuttavia, che oggi pensiamo quando ci si propone di riqualificare lo spazio delle infrastrutture conferendogli una maggiore capacità di integrazione nel contesto urbano e territoriale.

La rottura dell’isolato e l’allontanamento dell’edificio dalla strada, assunti dall’urbanistica della Carta di Atene, sono entrati potentemente nella pianificazione urbana trovando nel progetto di van Eesteren per l’espansione di Amsterdam del 1934 una esemplificazione che condizionerà a lungo il modo di intendere i piani urbanistici. I principi della Carta di Atene sono stati messi in discussione nel secondo dopoguerra, in Europa dal Team 10 e negli Usa dal movimento che faceva capo a Jane Jacobs. Attraverso la loro azione critica c’è stato un ritorno d’interesse per la strada come spazio sociale integrato al quartiere e alla residenza. Nonostante questa consapevolezza, l’orientamento funzionalista non è scomparso, ma ha continuato ad operare costruendo gran parte delle periferie contemporanee.

È inevitabile il confronto tra le teorie della concentrazione urbana e quelle del decentramento e della diffusione. Le proposte di Howard per una distribuzione nel territorio di città giardino hanno avuto successo. Le ‘new towns’ si sono realizzate, in Europa come negli USA, ma ancora di più quel modello si è diffuso, attraverso la dimensione del quartiere autosufficiente. Nel libro si riportano le esperienze delle ‘siedelung’, ma il repertorio avrebbe potuto includere utilmente anche esempi scandinavi e italiani. Nella esperienza dei quartieri di edilizia sociale decentrati, la rete stradale ha avuto un ruolo significativo, a volte incidendo organicamente sulla morfologia complessiva del nucleo, spesso colonizzando il territorio attraverso una urbanizzazione di base. Nella continuità delle periferie contemporanee l’architettura di questi nuclei residenziali emerge ancora con chiarezza.

L’attenzione alla dimensione paesaggistica e la riscoperta della centralità della natura e della terra hanno portato a ripensare con attenzione le proposte antiurbane, tese a rompere il modello insediativo fondato sulla città ad alta concentrazione, per una sua dispersione nel territorio. La città si disperde nella campagna alla ricerca di un nuovo equilibrio sociale e spaziale, prima della crisi ambientale della contemporaneità si riscopre il valore ecologico della terra. Accanto al modello di Broadacre City che affronta e dà senso alla vastità della frontiera americana, matura la proposta di Bruno Taut di dissolvere la città borghese in un sistema insediativo costituito da comunità distribuite nel paesaggio. In entrambi i casi sono le reti stradali a realizzare la connettività e la sostanziale isotropia del modello. In entrambe le proposte sono la campagna e lo spazio naturale a dominare sul costruito (Taut afferma “ora la nostra terra inizia a fiorire”). Cosa è stato attuato di questi modelli? Ben poco e in modo opposto: nella affermazione della città diffusa contemporanea sarà il costruito a disperdersi in ogni direzione, includendo al suo interno lacerti di campagna.

Uno spazio notevole del libro è stato riservato da Roberto Secchi alla letteratura e alle arti visive. Le immagini dell’atlante si accompagnano a brani letterari da Gogol a Zola, a Kracauer, a Majakovskij. È nella strada che scorre e si rappresenta la vita e la letteratura, attraverso la forma del romanzo, la assume come sfondo, come tracciato stesso di una storia (si pensi alle strade di New York nei racconti di Paul Auster). Sul piano visivo sono gli espressionisti a rappresentare il ruolo sociale delle strade, la loro pittura “mette al centro dei propri interessi i conflitti sociali. Come spazio pubblico per eccellenza la strada è, infatti, il teatro dell’epoca tragica che conduce ai rivolgimenti d’inizio secolo e alla prima guerra mondiale (p.182).

La città moderna è percepita come un racconto che si snoda nel tempo, la sua visione non è più colta nella fissità prospettica, ma come una ricostruzione di una molteplicità di sguardi e di sensazioni. Sono le strade a raccontare la città e il paesaggio, ma la loro capacità narrativa dipende dalla loro architettura, dalla loro stretta relazione con il tessuto urbano e i contesti attraversati.

Il libro coglie come questo rapporto si sia indebolito nella contemporaneità, come progressivamente l’infrastruttura stradale sia diventata sempre più un’opera settoriale, monofunzionale, resa essenziale dal contenimento dei costi. Anche nelle strade extra urbane siamo lontani dalle magnifiche opere d’ingegneria delle ‘parkways’ e delle autostrade italiane degli anni ’60. Un tentativo per ristabilire l’integrazione tra infrastruttura e architettura l’abbiamo avuto con le proposte di riorganizzare la città attraverso megastrutture capaci di accogliere nella sezione una pluralità di funzioni urbane (esemplare il progetto di Paul Rudolph per la Lower Manhattan Expressway nel 1973).

Il racconto della città ha bisogno della strada e dei suoi marciapiedi. La loro funzione è indispensabile: “il marciapiede conferisce alla strada un intero sistema di valori, esso contraddistingue l’urbanità (….). Il marciapiede è un segno eloquente della presa in cura da parte dell’amministrazione della città” (p.24)

Non è un caso che l’attenzione torni sui percorsi pedonali, sull’umile spazio del marciapiede: ovunque nella città, nelle aree centrali come in quelle periferiche, assistiamo all’affermarsi di una forte domanda di spazio pubblico, di socialità, di rapporti più intensi e significativi con il contesto urbano. La città richiede il passo lento e consapevole del pedone. La street art e l’urbanistica tattica (tactical urbanism) vanno in questa direzione, avviando un lavoro di erosione delle superfici destinate al traffico veicolare. La città del futuro sarà sempre più pedonale.

Il libro ci propone in definitiva un viaggio nella storia, nell’immaginario, nello spazio. I viaggi aprono sempre a quelli successivi. Da dove ripartire?

Il futuro delle città è legato alla sua capacità di adattamento al clima che cambia, alla sua resilienza, intesa come resistenza e contenimento del rischio ambientale (inondazioni, desertificazione, isole di calore, frane..), alla sua capacità di convivere con l’incertezza e le prevedibili tensioni sociali (disuguaglianze, povertà, migrazioni). La città esistente con le sue forme, i suoi materiali di costruzione, i suoi scarti, i suoi consumi distruttivi di risorse, ha realizzato una crosta spessa e inerte che si contrappone al suolo naturale. Una crosta dalla tecnologia invecchiata, che continua a divorare ogni anno miliardi di tonnellate di sabbia e di ghiaia per il suo manto di calcestruzzo e asfalto. Questa crosta deve cambiare pelle, trasformarsi, rigenerarsi in un nuovo organismo, artificiale e naturale insieme, capace di svolgere ancora i servizi ecosistemici del suolo naturale.

C’è un passaggio nel libro che offre una prospettiva di lavoro per il futuro: “l’enormità dell’estensione della superficie delle reti, di quella stradale in particolare, (…) ci fa intendere come esse costituiscano una risorsa straordinaria per il progetto della rigenerazione (…) di cui a tutt’oggi non si sfrutta il potenziale”. In Europa circa il 40% della superficie urbanizzata attiene alle strade. Molto verosimilmente la riduzione del traffico veicolare privato apre la possibilità non solo di creare “nuovi percorsi pedonali, spazi per la sosta e l’intrattenimento dei pedoni, piste ciclabili, nuove aree protette” (p.29), ma di trasformare nel profondo lo spazio della rete stradale, con nuovi materiali e nuove conformazioni. Forse dovremmo partire da questo immenso patrimonio pubblico per iniziare a intendere le opere stradali come reti infrastrutturali e, nello stesso tempo, ambientali.