All'inizio di questa storia, nel 1794, Goethe ha
già vissuto tre vite. A
poco più di vent'anni
ha scritto il romanzo
della sua generazione,
I dolori del giovane Werther,diventando di colpo uno scrittore di culto, celbrato dai lettori comuni e guardato con
sospetto dai colleghi. Subito dopo ha
sconcertato ammiratori e detrattori
trasferendosi nella piccola capitale di
uno staterello periferico, Weimar, e
accettando un incarico al servizio di un
granduca, a metà fra il precettore e
l'uomo di governo. Qualche anno più
tardi un'altra svolta: due anni in Italia,
un viaggio intrapreso all'insaputa di
tutti e proseguito in incognito, con la
speranza di guarire dalle noie della vita
di corte. Tre vite. Troppe per un secolo
ricco di idee, ma torpido e statico come
il Settecento tedesco. E infatti adesso
Goethe, a 45 anni, è incerto e dubbioso.
In Francia, non dall'altra parte del
mondo, lo spirito del tempo invade le
piazze e i campi di battaglia, si incorpora nelle azioni confuse ma tangibili
di uomini spregiudicati, senza nascondersi fra i tavoli delle biblioteche
e le vetrine dei musei. L'Italia è lontana
e irraggiungibile. «Non so dire quanto
abbia sofferto lasciando Roma», aveva
scritto qualche tempo prima al grande
storico dell'arte Johann Heinrich
Meyer, e il dolore si era solo attenuato,
senza mai passare del tutto. A Weimar
gli pare di doversi rassegnare all'abulia
di un'esistenza fuori misura, troppo
ambiziosa per l'angustia del suo tempo, troppo astratta e irrisolta per la
grandezza delle sue aspirazioni.
E Schiller? Una vita sola, ma vissuta pericolosamente. Trascorre
l'adolescenza in un'accademia militare governata con pugno di ferro dai
funzionari al servizio del duca Karl Eugen, un tipico monarca dell'epoca, paranoico e autoritario, anche se capace
di qualche coraggiosa riforma. Il giovane allievo è destinato ai corsi di medicina, ma alle sale di anatomia preferisce le confidenze di un compagno
ammalato di depressione. Insieme a
lui riflette sui legami tra anima e corpo,
tra il dolore della psiche e i lacci che un
secolo dispotico impone alle passioni
degli individui. Quando la sua vocazione letteraria prende forma in un
dramma torbido e sconvolgente, I Masnadieri, Karl Eugen è furioso e vuole
metterlo agli arresti. Schiller scappa
dall'accademia e a 22 anni avvia
la sua
carriera di scrittore, libero da vincoli
ma costretto a provvedere da sé al proprio sostentamento. Nel 1794, a 35 anni, è uno degli ingegni più lucidi e sottili che si trovino in Germania, ma è fiaccato dalle fatiche di quella vita incerta
e da una salute cagionevole. Ha iniziato una carriera universitaria a Jena, ma
la cattedra non prevede alcuna retribuzione. Si dibatte tra studi di storia e
filosofia, digerisce senza fare una piega interminabili trattati sulla Guerra
dei Trent'anni, si getta a corpo morto
nella lettura integrale delle Critiche di Kant, dissemina il suo talento fra imprese eterogenee (riviste, drammi storici, romanzi a puntate), si scervella alla ricerca di opportunità di guadagno.
Cosa poteva venir fuori dall'incontro tra due autori così diversi? Dapprima nulla, come sarebbe logico
aspettarsi. Anzi: malumore e diffidenza. «Trascorrere troppo tempo accanto
a Goethe farebbe di me un infelice»,
aveva scritto Schiller all'amico Christian Gottfried Körner nel 1789. E Goethe avrebbe definito il primo dramma
di Schiller un «parto bizzarro», dolendosi del fatto che anche insospettabili
sodali come Karl Philipp Moritz e il pittore Johann Heinrich Wilhelm Tischbein, che lo aveva seguito per gran parte
del viaggio in Italia, non fossero rimasti
immuni da quella corruzione del gusto.
Poi, il cambio di rotta. L'intelligenza di Schiller trasforma la differenza delle loro nature nel fondamento di un sodalizio armonioso, documentato
dalle mille lettere raccolte in questo
epistolario. È vero, il talento plastico,
autenticamente neogreco di Goethe -
scrive Schiller a fine agosto 1794 - ha
poco in comune con lo spirito critico e
la tensione speculativa di un intellettuale moderno. E tuttavia lo stesso Goethe aveva dovuto ibridare la sua inclinazione originaria, cercare una possibilità di mediazione che lo mettesse in
contatto con il proprio tempo. Se ciò
non era riuscito fino in fondo, suggerisce Schiller, se ora Goethe languiva in
una condizione di irresolutezza, è perché il suo sforzo di unità si era basato
sulla pura e semplice conciliazione tra
elementi contrastanti, condensati sinteticamente nella sua persona. Ci vuole un passo in più. Non l'intangibile decoro del poeta congelato in una posa
marmorea, ma un programma di azione pratica. Una strategia di politica
delle idee che soddisfi i bisogni spirituali del presente e sradichi il passatismo, la fugacità delle mode, l'omologazione degli intellettuali servili. La
forma della grecità non può rinascere
in un mondo così complesso, ma non
tutto è perduto. Dell'antico si può ancora richiamare in vita la sostanza profonda, potenziata e illuminata dalla
consapevolezza dell'immane sforzo di
civiltà necessario per ripristinarla.
Per Goethe è una benefica frustata. I due, che la retorica del nazionalismo ottocentesco vorrà vedere insieme nel ruolo di padri della patria, avviano una spietata campagna pubblicistica contro il provincialismo della
cultura tedesca. I giovani autori del
Romanticismo sono liquidati come dei
fanatici dall'intelletto debole, la filologia che si coltiva nelle università rivela
il filisteismo dei suoi sostenitori, vecchi maestri come Johann Gottfried
Herder appaiono rammolliti da un intollerabile desiderio di concordia e pacificazione. ll carteggio è, fra le tante
altre cose, un'inesauribile miniera di
giudizi satirici, di pettegolezzi sapientemente serviti, di sublimi espressioni
di dileggio. È anche, a dispetto della monumentalità delle due figure, il racconto di un'amicizia viva e sollecita, intimamente umana. Si leggono con gusto i ringraziamenti per qualche vivanda spedita insieme a una lettera o le consultazioni sul tipo di tappezzeria
più adeguato a ornare la nuova casa di
Schiller. La brusca conclusione del loro
rapporto, dovuta nel 1805 alla morte di
Schiller, segnerà per Goethe la fine di
un'altra delle sue numerose esistenze,
avviandolo una volta per tutte sul
cammino di una vecchiaia onorata sì
dall'omaggio dei suoi contemporanei,
ma oramai priva di quella capacità di
influenza che era stata innescata dal
contatto con Schiller.