Recensioni / Non possiamo non dirci pragmatisti

Ogni tanto i filosofi, soprattutto quelli che indulgono al melodramma o all’oracolo, lasciano cadere sentenze che spesso ottusi seguaci prendono sciaguratamente alla lettera. Deridda, per esempio, ebbe a dire che all’empirismo era intrinsecamente precluso di diventare filosofia, e Heidegger a sua volta vide il pragmatismo (che disse «interpretazione americana dell’americanismo») come l’espressione più acritica e ingenua di quella frenesia tecnologica che segna il pensiero occidentale dalle sue origini.
Per fortuna, al mondo, non ci sono soltanto i cultori, più o meno avveduti, di decostruzionismi e filosofie postmoderne, e oggi si continua a parlare di empirismo e soprattutto senza le pesanti ipoteche e pregiudiziali di quei filosofi.
E’ il caso di questa raccolta di scritti, curati da Rosa Maria Calcaterra, una delle studiose più assidue e originali del pragmatismo americano ( su cui ha dato importanti contributi storiografici e teorici, soprattutto intorno alla figura non sempre adeguatamente trattata di Gorge Mead); scritti che, come si evince dal titolo, mirano a cogliere l’attualità del pensiero pragmatista nella evoluzione della filosofia analitica contemporanea e in alcune posizioni, come quella di Rorty, dichiaratamente postanalitiche.
Una “riscoperta” del pragmatismo in atto, nella cultura americana, dagli anni Settanta.
Se Rorty ha giocato un ruolo importante nel proporre una rilettura di Dewey, addirittura in armonia con le recenti fortune di Wittgenstein e di Heidegger (sic!), e se i coniugi Putnam hanno riportato in auge un James a sua volta da confrontare con Wittgenstein, Kant e anche Aristotele (vedi qui il bel saggio di Calcaterra su Il James di Putnam), e se da Cavell a Margolis il pragmatismo è divenuta una via maestra per ripercorrere unitariamente e riattualizzare lo “spirito” della filosofia americana – trascendentalismo e naturalismo compresi – in questi saggi si tratta di cogliere specificatamente aspetti della tradizione pragmatista che si mostrino in grado di rispondere ai nodo problematici più urgenti che la filosofia del linguaggio, l’etica e l’epistemologia oggi affrontano. Forse, rispetto ad analoghi recenti consuntivi (come Die Renaissance des Pragmatismus curato da M.Sandbothe, Velbrück Wissenschaft, 2000), qui è la figura di Peirce a guadagnare una sua dimensione di spicco, sia per le soluzioni che prospetta al problema del rapporto tra etica e logica, poco considerate al tempo dell’auge “semiotica” dell’iniziatore del pragmatismo (vedi i saggi di Fabbrichesi e Maddalena), sia per il suo contributo a una teoria del rapporto tra credenze, asserzioni, e verità, confrontabile in modo interessante con le soluzioni inferenzialiste di Brandom (Canale & Tuzet), sia per l’apporto a una definizione di filosofia pratica che ne chiarisca la portata “anti-teoretica” paragonabile a quella dell’ultimo Wittgenstein (Colapietro), sia infine per la possibile estrapolazione dai suoi scritti  di una filosofia della percezione (Houser) e di una consistente epistemologia (Ibri). Ma interessanti, in questo libro, sono anche la ricognizione storico-critica dei rapporti tra pragmatismo e filosofia analitica (Calcaterra, nell’introduzione, e Marsonet); la complessiva rivalutazione dell’importanza delle teorie del significato pragmatiste in chiave “anti-rappresentazionale” e contestualistica (Picardi); il tentativo di vedere nel pragmatismo una forma anticipatrice dell’odierno “naturalismo debole” a forti tinte antiscientiste (De Caro); e infine le considerazioni sulla portata beneficamente antiintellettualistica di una filosofia pratica ispirata al pragmatismo (Mc Dowell).
Per il significato che il pragmatismo assume di filosofia antidogmatica e costruttivamente critica delle dicotomie filosofiche (realismo/antirealismo, empirismo/razionalismo, fatti/valori, eccetera), per aver perseguito un concetto di razionalità accogliente delle istanze, oggi difficilmente eludibili,

dell'evoluzionismo darwiniano, per il suo fallibilismo e antifondazionalismo epistemologico, che però non necessariamente ci consegnano a soluzioni ermeneutico-storicistiche, sembra che «non possiamo non dirci pragmatisti».
Eppure c'è anche chi ( Ferraris, in un saggio in cui simpaticamente ci parla di James, di infallibilità papale e di fidanzate automi) pone, con Russell, il pragmatismo di fronte alle caparbie ragioni dell’ontologia e della verità come adaequatio rei et intellectus. E’ il caso di dire che, davvero, nessuno è perfetto!