Recensioni / Manganelli sconclusionato #5. Intervista a Ermanno Cavazzoni

Manganelli Sconclusionato è una rassegna di interviste a cura di Emiliano Ceresi (quitutte le puntate precedenti), dottorando in “Italianistica” dell’Università di Palermo, che si propone, nell’anno del Centenario dalla nascita dello scrittore, di ripercorrere attraverso la voce di scrittori, autori e critici, l’opera e il lascito intellettuale di Giorgio Manganelli.
Ospite della quinta conversazione del Manganelli Sconclusionato è Ermanno Cavazzoni, scrittore, sceneggiatore e direttore della collana “Compagnia Extra” per la casa editrice Quodlibet. La conversazione di seguito anticipa, in forma estesa, una delle interviste a “dieci scrittori” che sono presenti sul numero della rivista “Riga” curato da Andrea Cortellessa e Marco Belpoliti, che esce il 15 novembre in occasione del Centenario manganelliano. Il numero della rivista sarà presentato in anteprima il 15 novembre alle h 18:00 alla Casa delle letterature (piazza dell’Orologio, 3).

Ricorda la prima opera di Manganelli che ha letto? E se sì ricorda anche l’effetto che fece sul Cavazzoni-lettore di allora?
Forse sono partito da Hilarotragoedia. Di sicuro però quello che più mi ha colpito e che poi ha generato il reale appassionamento per Manganelli sono stati i corsivi, gli Improvvisi per macchina da scrivere, edizione 1989. Una raccolta di pezzi formidabili usciti un po’ su “Il Messaggero” e un po’ sul “Corriere della sera”. In questi articoli Manganelli aveva leggermente attenuato il suo manierismo iperbolico, che nelle prime opere era marcatissimo. Uno stile che spesso studiosi e critici manganelliani imitano pensando forse di risultare più congeniali all’oggetto della loro analisi. E invece falliscono sempre in maniera catastrofica, perché diventa uno stile preso in prestito. Il manierismo di Manganelli è un timbro inequivocabile: una firma unica e inconfondibile. Solo lui era in grado di padroneggiarlo in modo decoroso, senza che gli sfuggisse di mano, e riuscendo sempre a far sorridere di piacere.
Nei corsivi, forse perché nascevano dichiaratamente per un platea più ampia del pubblico dei soli letterati, la prosa perde l’ampollosità della maniera, ma mantiene il gusto per l’ossimoro, per certe parole desuete, per quella retorica sofisticata fatta di accostamenti inconsueti. Si tratta di pezzetti davvero geniali: mi stupiscono a ogni rilettura facendomi sempre divertire.
Manganelli stesso scriveva che nel rileggerli rideva di gusto: e questa è una bellissima prova, forse la più auspicabile per uno scrittore. Spesso un autore guarda con distacco a ciò che ha scritto: di solito vorrebbe cambiarle, oppure se ne vergogna perché nel frattempo non si riconosce più nella persona che le ha scritte. E invece questo auto-riconoscimento di Manganelli è significativo: tanto più perché è raro che lui si autoelogi, di solito tende piuttosto a fare il contrario, a svalutarsi.

Ho riletto i corsivi in vista di questa nostra conversazione e devo dire che sono tutti pezzetti magistrali. La mia idea, forse un po’ impopolare, è che Manganelli fosse più adatto alla forma breve, al pezzo conciso e fulmineo. Risultava più efficace in quelle dimensioni che non richiedevano un lavoro di scrittura prolungata, quel percorso di limatura faticoso che dura mesi o anni. E del resto lui diceva di essere invaso dal linguaggio, come se ubbidisse a delle improvvise irruzioni a cui lui prestava la sua macchina da scrivere.
A quanto ne so gli Improvvisi nascono dalle suggestioni che gli venivano fornite dai vari direttori dei giornali su fatti di cronaca minore. Credo siano davvero le cose più felici e durature che Manganelli abbia scritto: e ritengo che potranno essere apprezzate con immutato piacere anche in futuro. Mentre per quanto riguarda la produzione che chiamerei romanzesca, specie le prime opere, devo ammettere di cominciare ad avvertirla come un po’ datata. Sono prove di scrittura così intrinsecamente legate a un’epoca di sperimentalismo letterario che forse a noi oggi parlano meno. Anche se forse Manganelli non è mai davvero appartenuto a un gruppo letterario…

E in effetti lui stesso aveva definito vessatorio il limite di spazio che si era posto per la composizione delle sue centurie. Visto che ha citato il Manganelli elzevirista le chiederei allora se ha rappresentato un modello anche per i suoi corsivi: penso a un libro come Storie vere verissime dove si riscontra più di un’affinità con questa tipologia testuale.
Certamente, molto deriva da lì. Manganelli è stato per me un modello anche per la sua predilezione a partire dalla forma saggistica per scrivere libri letterari. Soprattutto le sue prime opere sono pensate come pseudotrattati. Manganelli in ogni libro è come se pensasse a riorganizzare i problemi del mondo, più che ad architettare storie d’invenzione con trame e personaggi. Alla sua insofferenza per le trame ha del resto dedicato ampi pezzi critici. Quando scrive le storie di Centuria li definisce «cento romanzi fiume» asciugati: alludendo al fatto che gli ha aspirato il gas superfluo di cui necessita solitamente un romanzo per gonfiarsi a qualche centinaio di pagine commerciabili. E questa frase comprova ulteriormente, a mio avviso, la sua maggior riuscita nel breve, nell’essenziale, che riluce un attimo, lo spazio di una pagina, e poi si spegne.
Devo a Manganelli l’idea di usare la forma del saggio accademico, dello studio scientifico, della tesi di laurea in funzione letteraria: tutte forme di scrittura che hanno un loro registro tipico. Manganelli ha aggiunto alla ripresa di questi generi testuali l’idea di adattarli a oggetti che abitualmente non sarebbero nell’orizzonte di uno studio scientifico; come il tema dell’aldilà, per esempio, che è un suo topos ritornante, oltre che un tema che io stesso prediligo. Ammiro il suo stile semi-saggistico traslato su oggetti incompatibili con questo stile: questo sapore finto-accademico che traspare nella sua prosa mi è sempre piaciuto perché genera un sottile e perpetuo contrasto da cui scaturisce una comicità sottilissima. È un umorismo spalmato su tutto il testo: non come la spicciola comicità da barzelletta dove si ride solo nell’inaspettato finale, con un convulso epilettico. L’incompatibilità comica è distribuita lungo tutta l’opera: i grandi scrittori fanno così. Leggendo i racconti di un genio come Nikolai Gogol’ la faccia non si scompone in un sorriso nevrastenico, una risata da solletico sotto le ascelle, ma il comico è delicatamente distesa per tutto il libro. Anche in Manganelli affiora questo impalpabile velo comico sparso dappertutto, come un borotalco, e che risulta irresistibile soprattutto nelle sue cose più pop.

Il modello trattatistico mi sembra l’abbia guidata anche alla sua Storia naturale dei giganti. In questo caso, come nella lettura de Il Morgante che Manganelli fece per la radio1, c’è l’idea di desumere dal testo letterario argomentazioni quasi etnografiche. E, insieme a questo, l’idea di ridere di argomenti abitualmente trattati in maniera seriosa come il Medioevo.
La ringrazio per il paragone. Storia naturale dei giganti vuole presentarsi in effetti come un trattato scientifico su una materia fantastica che sono i giganti, venendo inoltre disturbato dalle interferenze del quotidiano amoroso del protagonista-trattatista. In questo Manganelli è stato certamente un riferimento, oltre che un maestro.

A cui aggiungerei forse un collega per la materia dei giganti: Augusto Frassineti, traduttore del poema di Francois Rabelais…
Sì. Manganelli, tra l’altro, ai tempi si era incuriosito dei miei libri proprio perché in una piccola intervista, che avevo rilasciato a «Panorama» a ridosso del mio esordio, avevo dichiarato di apprezzare moltissimo le opere di Augusto Frassineti. Tra i due c’era una grande amicizia: spesso si poteva incontrali a Roma in trattoria, a quanto mi è stato raccontato.
Anche Misteri dei ministeri, il capolavoro di Frassineti, un testo che a breve sarà riportato in libreria da Einaudi per le cure di Andrea Gialloreto, è di fatto un trattato, per quanto dedicato a un tema astratto e assurdo come lo spirito della ministerialità.

Apprezzo enormemente questo genere di letteratura: come pure certe modeste proposte di Swift in forma di dissertazione. Mi piacciono perché ad alimentarli c’è proprio la dimensione del contrasto di cui dicevo poc’anzi. Io trovo che Manganelli al fondo sia un autore comico e nella comicità c’è sempre una parte di miscredenza. Chi fa comicità non crede davvero nei valori morali propugnati dalla società. C’è sempre una specie di ateismo buffo, di irrisione giullaresca verso i modelli obbligati.
Quello di Manganelli o di Frassineti è un umorismo ben diverso dal comico televisivo, che è sempre insopportabile nel suo cortocircuito, l’imitazione in televisione delle facce più note della stessa televisione. Se non si conosce il riferimento, che sia un politico o un presunto vip, non resta nulla: si perde tutto. Quella televisiva è una comicità transeunte perché si riferisce a personaggi o tormentoni che godono di qualche mese di celebrità, qualche anno se gli va bene. Mentre i testi di Manganelli sono efficaci proprio perché catturano elementi che trascendono la prova del tempo contingente e mantengono inalterata la loro efficacia, senza per questo scadere.
Da lettore, Manganelli lo farei rientrare pienamente a in un genere verso cui ho una predilezione assoluta, la satira. La vera satira non è quella televisiva: prendersi gioco di un contemporaneo che gode di qualche settimana di effimera fama. La satira è un genere molto antico che viene da Orazio, Giovenale, Persio, autori latini straordinari, che scrivevano del loro quotidiano, un aspetto che nell’antichità non aveva altre rappresentazioni. Il quotidiano non era ritenuto degno di essere trattato in più alte forme poetiche. Le satire antiche sono meravigliose perché parlano della vita quotidiana con un fondo di totale miscredenza che illumina argomenti triti e banali di una nuova luce, come se ci apparissero per la prima volta.
È una tradizione che passa per Ariosto: le sue sono bellissime Satire e dentro ci sono tutte le sue beghe con gli Estensi o con il cardinale Ippolito, suo datore di lavoro; e poi passano attraverso Swift (I viaggi di Gulliver) che sono una satira meravigliosa della società inglese, per arrivare fino agli autori del Novecento italiano che preferisco, come Malerba e Manganelli, appunto, che nascono, in fondo, da questo stesso filone, secondo me. I suoi Improvvisi sono satira, antica e pura satira. Non certo un’imitazione parodica di qualcosa di transitorio.

Nella recensione che citava poco, fa tra l’altro Manganelli la avvicinava a un testo satirico di Frassineti, Il capitano a riposo, quindi il cerchio in qualche modo si chiude. Che effetto le fece vedersi recensito da uno dei suoi scrittori di riferimento? In due testi Manganelli scrive di lei facendo rilievi critici ma anche riconoscendogli meriti, quello di riuscire strappargli una risata, per esempio, che mi pare attestato di stima notevole…
Ricevere quella recensione è stato per me un enorme piacere. Anche alcuni rilievi critici che Manganelli faceva, con il tempo li ho trovati giustissimi, e direi che nei libri successivi ho anche obbedito alle sue indicazioni.
Manganelli aveva sottolineato come tutto sommato fosse un esercizio facile quello di scrivere mimando la lingua e i pensieri di un personaggio un po’ sciocco (quale era il protagonista del Poema dei lunatici), e aveva perfettamente ragione. Con il tempo ho gradualmente abbandonato quella cifra, che mi è servita però da ingresso alla letteratura. A quei tempi ero ancora troppo suggestionato dai primi libri di Gianni Celati. E d’altronde anche Celati nella sua seconda maniera ha poi accantonato quel tipo di personaggio che si trova nei suoi primi libri: il mezzo matto, lo sciocco, l’adolescente con la mente dispersa o l’ignorante che parla a vanvera. Si tratta, è vero, di un espediente semplice, ma attraverso cui è necessario passare, altrimenti si continua a scrivere come nei temi in classe: ovvero in un grigio e asettico italiano standard. Riproponendo la lingua piallata che ci viene insegnata a scuola non si troverà mai la via del proprio stile. Passando invece per una lingua guastata, imperfetta, o in bocca a qualcuno incapace, ecco che diventa poi possibile accordare una voce propria.

Anche per Manganelli secondo lei le prime prove sono state l’introibo degli scritti successivi?
Sì, è accaduta la stessa cosa. È entrato nel mondo letterario con una scrittura ipersaggistica, preziosa, arcaicizzante e poi l’ha gradualmente accantonata. In certi libri ritornerà, non c’è dubbio, ma se si legge un capolavoro come Centuria la prosa è ordinata, mirata ed essenziale, per quanto sempre estremamente connotata dalla sua personalità.

Un testo che forse segna un momento di discontinuità è Sconclusione, che è scritto in una lingua profondamente diversa dai libri precedenti. Lei ha fatto parte del Gruppo de Il Semplice, un’esperienza e una rivista che ha scelto di ripubblicarne l’incipit. E poi Manganelli figura in cinque dei sei albi che compongono la rivista: mi pare ci sia stata dietro una scelta di campo piuttosto esplicita.
Sconclusione è un libro straordinario: «Con calma, lentamente, rimisi mio padre nel cassetto». Colpisce diretto da subito. Solo Manganelli poteva ideare un avvio del genere.
Quanto a Il Semplice tutti i membri più vivaci, gli amici che vi circolavano attorno, e Celati stesso, erano appassionatissimi lettori di Manganelli. Tra l’altro pare che Celati dovesse l’inizio della propria carriera universitaria proprio a Manganelli, che al tempo lo segnalò all’Università di Bologna.

Mi piacerebbe sapere di più…
Non so quanto ci sia di leggenda e quanto di vero in questa storia. In Manganelli c’è sempre un alone fantastico e paradossale che lo contorna, e che sua figlia Lietta, persona estremamente manganelliana, ha nel tempo alimentato a scapito della vera verità sulla sua biografia. Beninteso, io la trovo una mossa giustissima, sia per la personalità specifica di Manganelli, sia in generale perché tutte le biografie in fondo sono sempre in qualche modo leggendarie.
Mi pare di ricordare che successe questo: quando a Bologna è stato istituito il DAMS, Manganelli avrebbe dovuto ricoprire la cattedra di letteratura inglese. La leggenda vuole che si fosse recato a Bologna al mattino e, dopo aver avuto un colloquio con il direttore del futuro DAMS, il professor Marzullo, si fosse riservato la possibilità di dare una risposta definitiva nel pomeriggio. Dopo aver pranzato Manganelli è tornato all’università e ha rifiutato il posto con la motivazione che a Bologna si mangiava troppo male: il che è proprio da Manganelli, se ci si pensa, sfatare il mito della città romagnola grassa e gastronomicamente al primo posto (cosa, tra l’altro, non vera, io stesso, da emiliano, mi trovo d’accordo: si mangia molto meglio a Roma o a Napoli).
E pare che Manganelli in quell’occasione avesse indicato Celati come suo degno sostituto. Celati è sempre stato in effetti, oltre che vero ammiratore della sua scrittura, estremamente riconoscente a Manganelli. E concordavamo tutti su questa idea che le scuole di scrittura sono dei luoghi in cui si professano solo cazzate.
Manganelli dice in più parti che quando si scrive si è come in preda alla lingua. È la lingua a parlare attraverso di noi e dunque non esiste insegnamento o tecnica di scrittura che si possa trasmettere: ognuno è preso per incantamento dalla prosa che lo attraversa, questa era la sua idea di scrittura. Il suo consiglio era: studia da idraulico se vuoi scrivere un romanzo. Del resto lo si vede benissimo in Centuria dove dichiara in partenza la regola: sedersi davanti alla macchina da scrivere senza alcuna progettazione, mettersi davanti a un foglio vuoto e riempirlo fino alla fine battendo a macchina; spesso le centurie iniziano con “un signore si accorse che” per poi proseguire con una lievitazione fantastica inaspettata, che sembra avvenire davvero come sotto dettatura.
In Centuria si vede benissimo questo insorgere della scrittura, questo inventare via via che si procede senza la scaletta che invece adotterebbe il più classico dei romanzieri, senza quegli artifici che insegnava l’antica retorica (inventio, dispositio e elocutio) e che oggi continuano ad essere seguiti nelle nuove scuole di scrittura, di fatto impedendo l’originalità. Essere posseduti dalla lingua è altra cosa: è in quel solco che si costruisce il proprio stile particolare. Così come nella vita: uno si veste imitando il suo tempo, ma se lo si progetta troppo l’artificio risulta evidente.

Tra l’altro negli Studi d’affezione per amici e altri Celati riconosce lei e Manganelli come possibili eredi di una funzione- Leopardi.
Celati aveva questa tendenza a proiettare sulle persone con cui era amico le sue idee sulla letteratura. Mi onorò con questo accostamento a Leopardi. Ho ricordi bellissimi di pomeriggi a casa di Federico Fellini passati a leggere dei brani leopardiani che gli sono poi serviti per realizzare il suo ultimo film, La voce della luna.
Penso a “Odi, Melisso”, un bellissimo dialogo in endecasillabi di Leopardi, dove la luna piomba dal cielo sulla terra, e il poeta se la immagina come un tizzone ardente che atterra sull’erba bagnata, sfrigola, e si spenge. Fellini era stato tanto suggestionato dalla lettura di questa poesia; e nella sua ultima pellicola, che è anche una parodia dell’allunaggio, c’è una evidente ripresa. Invece di essere l’uomo ad approdare sulla luna, è la luna ad essere tirata giù sulla terra e legata. In una simile trovata c’è tutto il gusto di Fellini per lo spettacolare, il capovolgimento e la sottile irrisione: era un artista costantemente in grado di imprimere al racconto direzioni imprevedibili.

Si incrociarono Fellini e Manganelli? Entrambi hanno condiviso un percorso terapeutico con Ernst Bernhard.
Pare di sì. Fu proprio Fellini a raccontarmi di un pranzo che fece assieme Manganelli e Pietro Citati. Ricordo che mi disse che per tutto il pasto non riuscì ad aprir bocca perché gli altri due commensali non facevano altro che sfidarsi in una gara di sfoggio bibliografico su argomenti eruditissimi.

Quello dei pasti è forse uno dei momenti su cui più spesso si concentrano le mitobiografie manganelliane: penso alla sua uscita da Einaudi che pare fosse dovuta all’usanza del direttore di piluccare dai piatti altrui…
Anche io ho sentito questa storia. Pare che Einaudi fosse solito assaggiare i piatti che offriva ai suoi scrittori per farsi un’idea delle scelte di chi sedeva alla sua tavola. Io credo che in quel caso Manganelli cercasse solo una scusa per abbandonare Einaudi e quel gesto gli ha fornito un pretesto notevole.

Prima citava l’opera di creazione di questa leggenda della figlia Lietta e di fatto anche lei ha dato il suo contributo con la pubblicazione dell’Album fotografico per Quodlibet, un piccolo monumento all’iconografia manganelliana che si lega a questa idea del racconto in forma di leggenda. Mi racconta come è nato il progetto?
Lietta è sempre stata molto generosa con Quodlibet e ancora prima con noi de Il Semplice, permettendoci di pubblicare diversi inediti manganelliani in un’epoca in cui l’opera non era ancora sotto il diritto esclusivo di Adelphi. Un libro come Sconclusione, se fosse possibile, lo pubblicherei subito.
La biografia di Manganelli è interamente disseminata di leggende che lui stesso ha contributo a creare sul proprio conto. C’è l’arcinota storia della sua improvvisa discesa da Milano a Roma in Lambretta. Oppure quella che preferisco, che riguarda la famiglia da cui viveva a pigione a Roma, in un’angusta stanzetta. Un posto da cui racconta che, al momento del trasloco, fu portato via insieme ai mobili su un camion, quasi fosse un mobile tra i mobili, nella nuova abitazione. La vicenda manganelliana è colma di queste dicerie e Lietta Manganelli la trovo efficacissima nel raccontare gli episodi della vita del padre: lo stesso primo incontro che ebbe con lui da ragazza ha qualcosa di inverosimile e di fin troppo vero2.
Una volta sono andato a trovarla a casa sua e lei mi mostrava le fotografie della sua famiglia. Ho subito notato che quando raccontava i retroscena dietro quelle immagini risultava sempre divertentissima e non banale: non le descriveva mai in maniera seriosa o convenzionale, ma ne faceva una mitologia. Partiva sempre da qualche dettaglio buffo, ma al contempo estremamente efficace a restituire l’anomalia e la stramberia del carattere paterno. Sono stato io a proporre di pubblicare le foto; ma volevo che restasse traccia del suo racconto e così l’ho registrata dal vivo mentre le ripercorrevamo. Poi mi sono limitato ad aggiustare gli appunti per dar loro una forma più breve e coincisa da didascalia.
Volevo provare a raccontare la vita di uno scrittore in maniera diversa. Sono molto insofferente del modo in cui vengono presentate cronologicamente le vite degli scrittori: sembrano lische di pesce, vicende nude e crude messe in fila senza la carne vitale. A leggerle sembra che per tutta la vita gli scrittori non facciano praticamente altro che incontrare altri scrittori o andare a ritirare premi. La vita fortunatamente è fatta di tutt’altro e Lietta nell’Album racconta proprio questo tutt’altro. È una cosa estremamente preziosa, tanto più che anche la biografia, in fondo, è un genere d’invenzione.

Oltre all’album c’è l’Antologia Privata che avete ripubblicato con Quodlibet, un’urna singolare in cui Manganelli inserisce cose insospettabili come i risvolti delle proprie opere.
La fortuna ha voluto che il libro fosse libero da diritti e quindi ne abbiamo subito approfittato. Io lo trovo interessante in primo luogo perché è un’auto antologia, come lei ricordava giustamente, e poi perché dentro ci si trovano cose da Manganelli: testi imprevedibili come i risvolti, appunto. I suoi risvolti li ho sempre trovati pezzi di letteratura straordinari: sono l’esatto contrario di quell’elogio iperbolico che gli editori progettano solitamente, dove ogni testo pare debba essere il capolavoro del secolo. È una formula talmente inflazionata da risultare surreale. Un editore che pubblica un libro e lo definisce un capolavoro, non può non generare diffidenza; e sembra solo che voglia venderlo, come i salami nella pubblicità, che sono sempre i più genuini e squisiti. Manganelli scrive invece risvolti sempre inaspettati e col suo tono inconfondibile. Il risvolto di Centuria immagina un lettore che cadendo da un grattacielo sente una riga del libro a ogni piano prima dello schianto al suolo. Nessun editore avrebbe avuto il coraggio di scriverlo.

Una trovata con un fondo di angoscia, sentimento che di solito si tende a tenere fuori dal paratesto…
Il tema della consapevolezza della nostra finitudine, che è la caratteristica che più ci differenzia dagli animali, percorre tutta l’opera di Manganelli. L’essere consapevoli di essere creature mortali toglie peso a ogni impaccio: le fedi religiose e le ideologie svaporano di fronte a questa verità schiacciante. Gli oggetti letterari diventano invece degli oggetti estremamente naturali sotto questa luce, come fossero piante che germinano naturalmente nella mente dell’autore: non c’è più intento didattico o ideologico che tenga. E ciò è dovuto al fatto che sappiamo come tutto avrà una fine. Non a caso il tema dell’aldilà è molto presente in Manganelli, ed è un tema eminentemente letterario e di pura fantasticazione, visto che l’aldilà con ogni probabilità non esiste. E però è davvero bellissimo immaginarselo, come si sono immaginate isole, personaggi, futuri, avventure.

E cosa le interessa di questa proiezione?
La nostra immaginazione dell’aldilà mi lascia sempre stupefatto, forse è il tema letterario per eccellenza. Lo fa Luigi Malerba ne Il serpente; Fellini ne Il viaggio di G. Mastorna, un film che non ha mai realizzato e che ha per protagonista un violoncellista che morendo in un incidente aereo si ritrova confinato in un aldilà che è identico all’aldiquà. Per Quodlibet abbiamo pubblicato la sceneggiatura, ed è a mio parere una delle più felici creazioni letterarie del Novecento, anche perché la si legge come un vero, affascinante e conturbante romanzo.

Anche in Manganelli esiste questa compresenza delle due dimensioni. Penso ai clacson che gli suonano come le trombe dell’Apocalisse o a un testo come In un luogo imprecisato in cui si passa senza soluzione di continuità praticamente da un inferno all’altro.
Vero. In Manganelli l’aldilà è sempre una visione distorta dell’aldiquà: si tratta in fondo di una periferia del nostro mondo. Ne l’Hilarotragoedia l’inferno è un luogo in perenne rovina abitato da individui poco raccomandabili che giocano ai dadi o ad alti giochi delinquenziali, una regione oscura in cui le superstizioni prevalgono sul raziocinio. Lo descrive sempre come un sobborgo del nostro mondo.
Un altro autore che percorre questo tema è Raffaello Baldini, un poeta straordinario e purtroppo poco noto in Italia – anche per via del fatto che scriveva in dialetto. Le poesie sono quasi sempre comiche e le si apprezza anche nella sua auto traduzione in italiano dal romagnolo. Baldini ha scritto un impressionante monologo teatrale dal titolo In fondo a destra in cui immagina di entrare in una specie di inferno attraverso le scale di che scendono giù da un supermercato, e conducono a una metropolitana labirintica, da cui non si riesce più ad uscire, immaginata però in tutto simile all’aldiquà.
Mi incuriosisce molto questa idea dell’aldilà moderno, che è distante da Dante Alighieri e dalla tradizione cristiana, perché getta il terribile sospetto che forse ci troviamo già dentro all’aldilà. Sono degli aldilà così simili al nostro mondo che non si percepisce una differenza sostanziale: e chissà che in fondo non sia un ripetersi all’infinito di aldilà, identici a questa nostra bizzarra realtà. Questa intuizione, come dicevo, accomuna Manganelli al Malerba de Il serpente: penso alla scena in cui il protagonista dialoga con Miriam, la ragazza che forse ha divorato, e che si trova sperduta in una sorta zona limbica dove non ci si raccapezza più.

L’inferno di Manganelli ricorda anche lo Sheol ebraico: un luogo non tanto di punizione, quanto di attesa eterna. Uno spazio in fondo più simile all’Ade pagano dove non vigevano punizioni o contrappassi: si trattava piuttosto di un luogo sotterraneo in cui l’anima continuava a sussistere per l’eternità. Manganelli, insieme ad altri, con quest’immaginario infernico ha recuperato un’idea pre-cristiana dell’aldilà, ma a questa ha aggiunto il terribile sospetto novecentesco, forse non infondato, che ci siamo già dentro.
Qualcosa di simile fece Flann O’ Brien, uno scrittore irlandese sostanzialmente misconosciuto, e che Magnanelli apprezzava molto. Nel Terzo poliziotto il protagonista assiste a un’esplosione e precipita in un aldilà che rassomiglia in tutto e per tutto al aldiquà, dove però tutto ha preso forme paradossali e impossibili. Solo nel finale di questo libro curioso il protagonista capisce quello che gli è accaduto…

Un aldilà che forse non è cristiano ma che ha sempre una teologia, per quanto negativa, a fondarlo…
Tra le Interviste impossibili c’è un testo negletto, per così dire, che non si trova nel libricino pubblicato da Adelphi, e che ha per protagonista nientemeno che “Dio onnipotente”: solo Manganelli poteva pensare di intervistare Dio3. A essere geniale è però il modo in cui l’intervista viene sviluppata. Comincia infatti con una sorta di sillabazione priva di senso; piano piano si compongono delle parole, poi gradualmente delle frasi poco sensate e poi finalmente l’essere che sta sillabando, che è Dio, si sdoppia in due persone: l’intervistatore e Dio stesso. La ritengo una trovata meravigliosa.
L’intervistatore è un giovanotto curioso e poco accomodante che rivolge a Dio domande alquanto irrituali. E di contro Dio gli risponde sempre in modo vasto, per noi assurdo, cioè dal punto di vista dell’eternità. In un passo il giornalista, affatto privo di timori reverenziali, gli chiede: “Ma perché proprio cinque dita? Con sei avremmo potuto fare mille altri giochi a carte”. Trovo potenti e comiche queste domande, al tempo stesso assolute e insensate. È un vero peccato che non sia più stata ripubblicata.

E al di là dei corsivi che, nel loro essere testi contingenti e occasionati dalla cronaca (dentro ci sono temi quali lo sciopero dei Tir o le riunioni della Dc) hanno mantenuto la loro freschezza, quale le sembra, nell’anno del centenario dalla nascita, l’aspetto dell’opera di Manganelli da preservare?
Per me Manganelli è un esempio di originalità assoluta condotta fino alle estreme conseguenze. Una figura di intellettuale che non si è voluto piegare ai dettami del momento. Rappresenta poi l’umorismo che più apprezzo, una comicità leggerissima, che oggi sarebbe considerata di serie B, e che per me raggiunge con lui dei vertici insuperabili. Ha maniera inconfondibile di prendere il mondo come un grande scherzo, con quel fondo di nichilismo che, nell’immalinconire il riso, non ha eguali.
Recupererei anche la sua idea di fallimento del romanzo. Quelle sue scritture continue, assolute e così diverse dagli attuali romanzi per me sono un esempio fulgido di ardimento, la prova irrefutabile di un’artista che se ne sbatte di ciò che ha mercato, delle richieste degli editori, del successo, dei premi e decide di perseguire con ostinazione per la propria strada. Per tutte queste ragioni, e non solo, proverò sempre una grande ammirazione nei suoi confronti.

1. G. Manganelli, Un’allucinazione fiamminga. Il «Morgante Maggiore» raccontato da Manganelli (a.c. di G. Pulce), Roma, Socrates, 2012. Poi ripubblicato in G Manganelli, Quel badalone di Morgante, Torino, Aragno, 2022.
2. È uscito da pochissimo il libro di Lietta Manganelli interamente dedicato alla vicenda del padre: L. Manganelli, Giorgio Manganelli. Aspettando che l’inferno cominci a funzionare, Milano, La nave di Teseo, 2022.
3. L’intervista si legge in G. Manganelli, L’intervista- inedito di Giorgio Manganelli, in «Il caffè illustrato» (a.c. di Walter Pedullà), a. 1, n. 1 Giugno/Luglio 2001.