Recensioni / Manganelli sconclusionato #2. Intervista a Daniela Ranieri

Manganelli Sconclusionato è una rassegna di interviste a cura di Emiliano Ceresi, dottorando in “Italianistica” dell’Università di Palermo, che si propone, nell’anno del centenario dalla nascita dello scrittore, di ripercorrere attraverso la voce di giornalisti, autori e critici, l’opera e il lascito intellettuale di Giorgio Manganelli.
Ospite della seconda conversazione del Manganelli Sconclusionato è Daniela Ranieri, scrittrice e giornalista. Il suo ultimo libro Stradario aggiornato di tutti i miei baci (Ponte alle Grazie) è in finale al premio Campiello.

Ricorda la prima opera di Manganelli che ha letto e come scoprì questo autore?
Credo sia stata Hilarotragoedia, per via dell’accusa che gli rivolse Gadda di avergli copiato La cognizione del dolore. C’è un episodio terrificante a riguardo: Gadda che si presenta a casa di Manganelli in via delle Coppelle, nell’agosto del 1964, sventolando una querela, furioso. L’episodio lo racconta Lietta, la figlia di Manganelli, che lui aveva chiuso sul balcone abbassando le tapparelle. Lietta riesce a sentire Gadda che dice: “Professore, non mi rovini, la prego, non mi rovini”. Gadda si era messo in testa che Manganelli gli avesse plagiato o parodiato La cognizione del dolore, uscito un anno prima, col suo Hilarotragoedia, appena uscito per Feltrinelli, la cui stesura risale però al ’60-61. Alla domanda di Gadda “Ma lei ha inteso pigliarmi in giro?”, Manganelli rispose “Non è colpa mia se abbiamo avuto le stesse madri”.

Cosa la colpì?
Manganelli è un atleta del limite. È come osservare un funambolo che cammina su un filo a centinaia di metri dal fondo di un crepaccio.

In un intervento su Stradario aggiornato di tutti i miei baci ha citato Amore di Manganelli a proposito delle «bolle di oblio» che rendono «tutti gli amori simultanei»: posso chiederle di sviluppare questo passo in rapporto al suo libro?
C’è un passaggio di Hilarotragoedia che per me istituisce una legge fisica e che forse ha guidato la stesura del mio Stradario. «Ad ogni quantità di amore è intrinseco il suo proprio e specifico addio (…). Viene da sospettare che questo ratto perenne delle anime e dei corpi altrui sia cosmicamente fatale; quindi opino: trapassando di amore in amore, di addio in addio, lentamente per i secoli ci si lega in presenza ed in assenza. Così accade: io dono le mie mani a donna di me amorosa; costei si disamora; d’altri amorosa, a costui ignaro lei ignara dà, con le sue, parte o tutto delle mie mani». Il «ratto perenne delle anime e dei corpi altrui» è un leit motiv del mio romanzo. Il sottofondo di Amore come controfigura del nulla forse risuona dentro di me.

Manganelli ha una produzione molto vasta: oltre alla sua opera letteraria Adelphi ha ripubblicato, negli ultimi anni, i corsivi, le recensioni, i reportage e alcuni radiodrammi: c’è un fronte di questa “seconda” scrittura che predilige?
Gli Improvvisi per macchina da scrivere e Mammifero italiano sono i più deliziosi. I suoi corsivi per «La Stampa», «Il Corriere della Sera», «Epoca», «L’Espresso», «L’Europeo» e «Il Messaggero» sono micidiali, per la piccola mente borghese dell’Italia degli anni ’70. I reportage dalle terre del Nord, pubblicati col titolo L’isola pianeta, sono di una pulizia e di un lucore impareggiabili: vera scrittura artistica-naturale, che sembra emanata dai paesaggi stessi.

A proposito dei corsivi, nella sua scrittura giornalistica emerge spesso una cifra ironica. Gli elzeviri di Manganelli, il suo gusto per il paradosso, per l’accoppiamento inusuale sono stati per lei un modello di scrittura?
Forse inconsciamente, per averlo molto letto. Ma lui è spesso volutamente asociale, e certo non è politico. Io spesso, invece, lo sono. Intendo che lui è inattuale anche quando parla di fatti di attualità. Non è mai al livello dei fatti: parla da altre epoche, parla come coscienza puramente letteraria. Ha un umorismo sardonico che lo rende quasi un monaco zen. Anche quando parla di aborto, scagliandosi contro il Pasolini reazionario, riesce a essere distaccato e sovraelevato, sublime. È un abile manipolatore, un fingitore: ma le sue manovre (ti senti il cervello preso in trappola) tendono sempre a un fine nobile, di estrema libertà interiore. Quando parla della bellezza che nel mondo ci siano “numi non pastorizzati” non vuole favorire l’oscurantismo e abolire l’Illuminismo: vuole semplicemente statuire che la dicotomia non esiste.

Manganelli può essere stato un riferimento per la componente strutturale del suo ultimo libro? Faccio riferimento all’ipotesi avanzata da Loredana Lipperini che, nel proporla al premio Strega, l’ha avvicinata ai suoi «concupiscenti illusionismi». Così come a Eloisa Morra che in una lunga recensione pubblicata su Il Tascabile ha individuato Manganelli, tra gli altri, come un modello in filigrana alla sua prosa.
Qui la guida è Letteratura come menzogna. Quando si scrive in prima persona si sa già che tutti penseranno che l’autore stia parlando di sé e della sua vita. Ma quella non è la verità letteraria: quella è sincerità, e la sincerità non è letteraria. La ricerca del vero opera al fine del falso, cioè del letterario, che – a differenza della realtà – non può sbagliarsi. Poi nel mio libro, oltre alla teoria degli amori simultanei perché mangiati dall’oblio, ci sono le filippiche contro la scuola che sono decisamente manganelliane. Ma questo lo sto pensando a posteriori, mentre le scrivevo non ne ero consapevole.

Visto che mi in apertura mi diceva dell’episodio del loro incontro-scontro le chiederei quali sono secondo lei le analogie e le differenze con Carlo Emilio Gadda, che è invece un riferimento dichiarato nel suo ultimo libro.
Gadda si è dato la missione di “rimettere in sesto il mondo”, come Amleto. Di ripristinare la sua verità. Manganelli non sente questa vocazione. Come dice lui, “il mondo dell’inesattezza è sterminato”. Manganelli ha un umorismo acidulo, spesso funereo, che gli viene dal controllo cerebrale; Gadda invece è comico quanto più tragico. Manganelli si lascia agire dalla scrittura. Si abbandona a un vortice con istinto algebrico, non ha alcuna ansia. La sua ironia è teatrale, sardonica, mentre quella di Gadda scaturisce dal dolore. Io sento il mio temperamento più vicino a quello di Gadda.

Mi spiega la scelta di aprire uno dei capitoli su Roma con un’epigrafe da La palude definitiva, un territorio che in Manganelli si configura come una geografia fantastica o allegorica.
La citazione ad epigrafe è questa: «È possibile che la palude sia un riassunto geografico di una forma di demenza». In Manganelli la palude è un mondo creato a misura del proprio soliloquio, ma è anche concentrazione, anzi: concentramento, del male quotidiano. La palude è contigua alla morte, ma non è la morte. Deve essere dunque qualcosa a metà tra la vita e la morte. È il testo più vischioso che esista, e anche pericoloso, perché non si capisce se Manganelli lasci passare una luce che non sia quella del sarcasmo, se cioè raggiunga, attraverso il buio limaccioso, la saggezza ironica che consiste nel trattare la morte come un fatterello tra gli altri. Roma è insieme agglutinazione e rappresentazione della mia palude.
Nella sua operazione di scavo diacronico nella tradizione della lingua letteraria italiana ci sono delle parole che sente di aver preso da Manganelli? Nel libro cita la sua definizione di “eliotropio”.
L’opera di Manganelli è una miniera di parole di un italiano totalmente discontinuo rispetto a quello parlato e scritto comunemente. In lui le etimologie sono davvero un affare metafisico: scavando, ci si avvicina di più alla verità. L’eliotropio, “nome bellissimo di una pianta essenzialmente mentale”, come dice lui, deve il suo nome alla sua movenza di volgersi verso il Sole. È un fiore che satura l’aria di un finissimo sentore di marzapane. Mi sorprende che Manganelli non si sia dedicato al mondo dei profumi, cioè a produrre la lingua necessaria a spiegare alcuni profumi. Lo ha fatto brevemente Sciascia in un saggio, quando parla di vaniglia, o più precisamente “vainiglia”. E lo fa Calvino in Sotto il sole giaguaro. Eppure Manganelli ha una scrittura piena di odori: è carnale, lasciva, severa, secca, liturgica… I suoi scritti possono profumare di incenso, di ghiaccio, di latte, di spezie indiane, di lacca cinese o di catrame, spesso nella stessa pagina, e saranno sempre estremamente credibili. Edifica un mondo che è valido con le sue leggi arbitrarie per tutti e per sempre.

Nell’anno del centenario dalla nascita, concluderei chiedendole quale le sembra il lascito letterario di Manganelli.
La scrittura di Manganelli è un unicum nella letteratura italiana del Novecento. Appartiene alla stirpe di Cervantes e Ovidio. Lui fa sempre simultaneamente ridere e saltare in aria, di gioia e di spavento. È angoscioso e ghiotto, esatto e folle, sacro e frivolo, sadico e clemente. Si viene attirati dentro un vortice, una macchia, una chiazza di insolenza e fascinazione. Lui parla chiaramente con i morti, con gli spiriti. È un linguaggio ulteriore rispetto al quotidiano e a quello letterario comune. Sembra che con le parole faccia quello che vuole, in realtà è guidato da un istinto geometrico tirannico e stupefacente.