Recensioni / Manganelli sconclusionato #3. Intervista a Ugo Cornia

Ospite della terza conversazione del Manganelli Sconclusionato è Ugo Cornia, scrittore e giornalista. Il suo ultimo libro si intitola La vita in ordine alfabetico (La nave di Teseo).
La conversazione qui pubblicata anticipa una delle interviste a “dieci scrittori” che saranno pubblicate sul numero della rivista “Riga” di novembre in occasione del centenario manganelliano.

Quando scoprì Manganelli e cosa la colpì di questo scrittore?
Se ben ricordo Manganelli l’ho conosciuto un giorno in cui Ermanno Cavazzoni a lezione lesse alcuni brani da Hilarotragoedia: il solo ascolto di una prosa così inconsueta mi colpì all’istante, dentro di me si mosse qualcosa. A Modena negli anni in cui ero studente c’era una libreria che aveva al piano piano superiore molti pezzi di modernariato a metà prezzo, in alcuni casi anche a meno. Un giorno salii e trovai una nicchia con otto libri di Manganelli messi in fila. In sole due tranche riuscii a procurarmeli tutti perché costavano poco, soprattutto quelli editi da Rizzoli. L’unico che non presi fu Sconclusione, che lessi invece in biblioteca, un posto in cui andavo a preparare gli esami universitari. Poi puntualmente invece di studiare mi mettevo a temporeggiare tra gli scaffali…

Un testo di cui, con il gruppo de «Il semplice», avete ripubblicato le prime pagine in un albo dell’almanacco e che lei porta spesso nelle sue letture dal vivo.
Ricordo che l’incipit di Sconclusione fu per me una sorta di folgorazione. C’è stato un periodo in cui quel libro lo sapevo praticamente a memoria, senza che avessi mai fatto lo sforzo di memorizzarlo. Mi si era come stampato autonomamente nel cervello. Lo trovo un racconto fenomenale, anche se mi lascia sempre la sensazione di non averlo mai davvero letto dall’inizio alla fine. Resto sinceramente colpito dal fatto che non sia ancora stato ripubblicato. Manganelli ha poi questo aspetto, per certi versi insospettabile, che quando viene proposto a un gruppo di persone dal vivo le fa sempre ridere di gusto. Il ritmo della sua prosa, nonostante abbia una lingua ipercolta, funziona perfettamente per una lettura ad alta voce. Credo ciò avvenga per via di un dosaggio micidiale di musicalità, retorica e ironia affabile.

E con il Manganelli non letterario?
Col tempo ho recuperato i corsivi, che personalmente trovo siano dei pezzi fenomenali e, direi, quasi esemplari – nel senso che leggendoli ti viene un naturale istinto a emularli. In Mammifero italiano, la piccola raccolta curata da Marco Belpoliti, ci sono tutti articoli micidiali, ma il primo brano della sequenza dedicata alle tasse (quella intitolati Tasse I- II-III) mi pare sia uno dei pezzi più belli e centrati che siano mai stati scritti sull’Italia. Con quel sillogismo sull’italiano che è un cittadino pessimo in quanto odia lo Stato; lo Stato che a sua volta, essendo fatto di cittadini pessimi, odia il cittadino. E il cittadino che riesce a farla franca perché paga le tasse, che sono praticamente l’espediente per ripulirsi dalle truffe che compie ai danni dello Stato. Manganelli ha individuato con metodo impeccabile uno dei cortocircuiti nazionali.

E del resto anche in La vita in ordine alfabetico le voci si ripetono: penso a Cinghiali 1, cinghiali 2. Sono stati un modello per la sua scrittura giornalistica i corsivi manganelliani?
Lo ammetto con un certo senso di impostura però quando mi capita di scrivere per i giornali, ad oggi collaboro occasionalmente per «Domani», i modelli a cui guardo sono sempre Manganelli e Swift. E, tra l’altro, Swift era forse il riferimento per Manganelli. Questi due autori sono per me come due punti luminosi di cui provo a inseguire la scia. La loro opera costituisce per me un riferimento sia per una questione stilistica, sia per la loro particolare postura critica, che gli permetteva di evitare di scadere in certe retoriche un po’ prevedibili. Il Manganelli dei corsivi è stato per me uno strumento imprescindibile per affrontare la cosiddetta attualità.

E come nasce la sua collaborazione alla raccolta di «aforismi e stravaganze» manganelliana dal titolo Il delitto rende ma è difficile?
Ai tempi collaboravo con «Comix», un giornale che aveva la redazione qui a Modena ed era edito da Panini, gli stessi delle figurine. Sempre in quel periodo avevo scritto una piccola recensione a Centuria e Lietta Manganelli mi aveva inviato una lettera per complimentarsi. Poco dopo ero andato a trovarla in campagna – era un periodo in cui ero felicemente disoccupato – e così ci siamo conosciuti di persona. Sono poi tornato da lei una seconda volta insieme a Beppe Cottafavi, che allora dirigeva «Comix» dove nel frattempo era stata inaugurata una collana di libri di piccolo formato. Con l’occasione dell’incontro, le chiedemmo il permesso per pubblicare una serie di inediti del padre che ci sembravano pregevoli. Ne ricordo in particolare uno su uno sciopero dei pescatori che era fenomenale. Avendoci collaborato in prima persona, di quel libro lì possedevo tantissime copie che nel tempo ho donato per diffondere il più possibile il culto manganelliano. Pensando di averne un’altra in casa, ho regalato anche l’ultima…

A proposito di Centuria, ogni volta che le chiedono dei libri da consigliare nelle interviste ho notato che è in cima alla lista. Mi dice il perché? Le è senz’altro congeniale la forma del microracconto, se penso a un libro come Le favole da riformatorio.
La prima cosa da dire è che è un libro che mi fa ridere tantissimo perché, praticamente ad apertura di pagina, ci si trovano idee fenomenali. Ho le mie centurie preferite che ho letto – e non credo di esagerare – centosessanta volte.
Penso a quella del signore che entra in un negozio per comprare un dopobarba e all’uscita trova solo un pulviscolo grigio e si accorge, così, che gli hanno rubato il mondo. Il momento di quel racconto che però mi fa ridere ogni volta come fosse la prima è quando realizza di essere in parte colpevole del furto a suo danno poiché ha dimenticato di inserire l’antifurto «a quell’oggetto così ingombrante». L’idea di trattare un pianeta come fosse una bicicletta da assicurare a un lampione mi lascia sempre stupefatto. Oppure quel gioco metaletterario, che potrebbe proseguire ad infinitum, su uno scrittore che scrive su uno scrittore che scrive di uno scrittore, che alla fine risulta essere un rapinatore: la trovo una vertiginosa prova di virtuosismo. O, ancora, quella centuria con l’angelo che sta in un appartamento abitato da strane potenze divine che descrive come talmente grande da riempire per intero la stanza, una creatura paradisiaca che viene praticamente assimilata a un palloncino gonfiabile. L’idea di un angelo enorme che occupa totalmente una camera ha in sé qualcosa di meraviglioso e al contempo di terribilmente anti-angelico: ricordo nitidamente che – anche in questo caso – la prima volta che trovai questa immagine rimasi totalmente spiazzato. È un’immagine potente che resta impressa: azzera tutta la precedente iconografia teologica e ne riscrive una nuova, inedita e, direi, quasi fumettistica.

Tre esempi in cui mi pare che si possa rintracciare una linea comune…
Già solo da queste tre centurie si capisce come Manganelli fosse evidentemente un grande angosciato che riusciva, però, nell’impresa di dare forme sublimi alle proprie ansie, a farle lievitare fantasticamente. E sospetto che ci faccia ridere in fondo così nervosamente perché in fondo siamo tutti un po’ angosciati.

E nell’Hilarotragoedia «gli angeli delibano il technicolor», del resto. Un’opera a cui ho pensato leggendo il suo Buchi, con i richiami agli inferi e i fantasmi che provengano da un cassetto.
Indubbiamente si tratta di un autore che leggo e rileggo traendone sempre un immenso piacere personale. Avere una riserva propria di piaceri che durano nel tempo e non si consumano per me è fondamentale. Non so se azzardare un paragone in senso positivo con la masturbazione. In libreria ho tutta la sua opera e mi piace sapere che quando voglio me lo posso andare a riprendere. Sul fatto che nella mia testa ci siano dei piccoli manganellini che si attivano inconsciamente mentre scrivo non saprei dire se avviene direttamente, ma può darsi di sì (ride, ndr).

E qual è allora il libro che le dà più piacere rileggere?
Non ho una precisa gerarchia. Diciamo che i primi testi letterari, forse per la loro struttura inessenziale, preferisco rileggerli a campione e non dall’inizio alla fine. Mi soffermo piuttosto sulle pagine o le porzioni che preferisco e in cui ritrovo continuamente idee sorprendenti. Anche cose ritenute minori come il reportage sull’Africa, per esempio, ha quella pagina di descrizione del paesaggio dalla prospettiva dell’aereo che è di una bellezza irripetibile: ricordo di esserci tornato almeno otto volte di seguito. Purtroppo per come si è messa la mia vita ormai sono costretto a lavorare e c’è sempre meno tempo da dedicare alla lettura. Manganelli l’ho letto in quell’epoca aurea in cui ero perennemente libero. Da un certo punto di vista forse ero un disperato, ma rimpiango davvero quei quattro-cinque anni in cui mi sono potuto dedicare a leggere tutto Manganelli, tutto Thomas Bernhard e tutto il Walser che era stato pubblicato. Una fase della mia vita a cui guardo con nostalgia. Centuria, per quanto l’ho consumato a forza di orecchie agli angoli delle pagine lo dovrò ricomprare prima o poi. È quello forse il testo su cui torno più spesso. Anzi, senza dubbio.

A scuola le capita di leggere Manganelli?
Mi è spesso capitato di portarmi qualche libro in classe, anche perché le antologie in commercio difficilmente sono in linea con il mio gusto letterario. Come quando sottopongo ai miei studenti la Novella del grasso legnaiuolo, un capolavoro che era caro a Manganelli, ma che è ignorato da chi si occupa di allestire testi scolastici.

Prima ha citato Bernhard come altro autore che ha approfondito in quel periodo di rimpianta libertà. Secondo lei è causale o ci vede delle affinità?
Secondo me come scrittori hanno in comune la distruzione e il rovesciamento di ogni norma o prescrizione linguistico-narrativa. Entrambi, e in modo diversissimo, costituirono per la mia generazione la prova tangibile che esisteva un altro modo di fare letteratura. Nelle loro opere riescono a mettere, non si sa poi neanche bene quali contenuti, in una forma anarcoide, ovvero fuori dai convenzionali dettami di costruzione dei testi. Sia Manganelli che Bernhard strapazzano le regole ed è per questo che si torna a leggerli sempre volentieri e senza annoiarsi. Bernhard rappresenta un’ulteriore fonte di felicità per me, una voce a cui tornare per stare in compagnia.

Mi interessava sapere se ha ricordi legati a discussioni su Manganelli con gli altri membri de «Il semplice». Non mi pare un caso che abbiate scelto di pubblicare i suoi testi in cinque dei sei albi della rivista…
Ricordo che agli incontri de «Il semplice» veniva spesso a trovarci Marianne Schneider che aveva tradotto alcune pagine di Manganelli in tedesco in un libro dal titolo Manganelli furioso – e tutti noi del collettivo ci chiedevamo come ci fosse riuscita guardando con grande senso di ammirazione al suo lavoro. Ricordo poi che essendo stata molto amica di Manganelli possedeva anche alcuni dattiloscritti inediti che le aveva donato lo scrittore. Una volta lesse pubblicamente un testo che aveva per tema gli orologi, una prima bozza di cui non volle svelarci in anticipo l’autore. Era quindi scattato tra noi del gruppo una specie di “Indovina chi” per attribuire la paternità di quella lettura piuttosto inconsueta. In me era sorto il sospetto che si trattasse di Manganelli, ma fui troppo timido e non osai aprire bocca. Conservo in me ancora il rimpianto di quel silenzio perché nessuno indovinò.

Cosa ricorda di quella lettura?
Col senno di poi sapere di aver ascoltato un testo non definitivo di Manganelli mi pare un’esperienza curiosa. È stupefacente come le sue opere, nonostante siano congegni elaboratissimi, sembrino come scritti di getto: abbiano cioè una loro armonia perfetta in cui tutte le frasi funzionano in maniera calibratissima ma senza artifici apparenti. Questo era senz’altro uno dei grandi meriti de «Il semplice», un gruppo composto da sensibilità affini, ma al contempo diverse, che dava accesso alla grande letteratura attraverso la sua parte più artigianale – che secondo me è irriducibile a ogni teorizzazione letteraria. Ad oggi questo mi pare un lascito impagabile. Durante le riunioni arrivavano contributi diversissimi e le discussione collettive erano sempre molto animate: venti teste, specie se sono così diverse, funzionano meglio di una sola. E Manganelli tornava sempre nei nostri discorsi. La stessa epoca in cui – da felicemente disoccupato – mi ritiravo con le sue opere nei miei pomeriggi solitari. È stato bel periodo e, ricorro a una parola che per me che sono insegnante sarebbe da bandire, un momento formativo. Ma questo proprio perché non c’era alcuna intenzione formativa alla base.

A proposito di risate incontenibili, in rete c’è una sua lettura tratta da Sconclusione, e nel momento in cui il padre viene castrato ed esclama: «Oh questa, poi» lei non riesce praticamente a continuare a leggere…
Per me quella frase è micidiale. Mi sembra una battuta rubata a un vecchio prozio. Quel libro è tutto pieno di trovate del genere, anche dialettali. E d’altronde il protagonista coinvolge la famiglia in riti, miti e pratiche ancestrali per tutto il corso del racconto. Ma anche solo quella frase pronunciata con lo stupore di un vecchio parente è di per sé un capolavoro. Dentro quella battuta ci sono diciotto strati di consapevolezza sociolinguistica ed esistenziale condensati in un’esclamazione lapidaria. Se si prova a imitare questa cosa senza avere la stessa consapevolezza stilistica ne viene fuori una schifezza.
Manganelli ha lasciato in questi dettagli il suo modo unico di stare sulla terra per chi vorrà ammirarlo.

Quindi non ha eredi?
Eredi tantissimi. Ma il vero erede fa quel che può e plasma il lascito in un modo altro. L’unicità è scarsamente ripetibile, ma la bellezza dell’esempio, quella sì, è sempre utile da contemplare.

E quale le sembrano le possibilità future dell’opera di Manganelli, in un anno di bilancio come quello del centenario dalla nascita?
Io spero, ma un po’ lo credo, che in futuro, ancora fra seicento anni, ci saranno lettori che con il nostro stesso piacere leggeranno la Novella del grasso legnaiuolo. E lo stesso, spero, che accadrà con i libri di Manganelli, che in futuro avranno forse più lettori di quanti ne avessero da vivo.
A tal proposito, le racconto un fatto che all’epoca in cui avvenne mi divertì molto e che mi pare in linea con quanto ho appena auspicato. Una volta lessi la prima di Sconclusione a un ciclo di letture organizzato a Mestre. Appena salito sul palco ricordo che ero stato colto dal panico perché, almeno a colpo d’occhio, erano presenti più di mille persone. Dalle prime file però, e già alle prime righe, provenivano risate rassicuranti. Quando sono sceso dal palco una ragazza, che avrà avuto massimo diciott’anni, mi si è subito avvicinata e mi ha chiesto con sincera curiosità: “come si chiama il pezzo di quell’autore pulp che ha letto poco fa? Chi è?”. Io, insieme a Manganelli, quella sera avevo portato Thomas Bernhard e quindi proprio non capivo a chi dei due si riferisse. Dopo un po’ di tempo che ci confrontavamo, però, ci siamo capiti: mi pare di ricordare che lei alluse alla castrazione di un personaggio e allora io colsi il riferimento al povero padre presente in Sconclusione.
Credo che a Manganelli sapere che in futuro sarebbe stato considerato anche un autore pulp l’avrebbe fatto ridere parecchio. Il solo immaginare il passaparola dalla ragazza a una sua amica a me diverte: “Oh, leggiti ‘sta roba pulp!” mentre le dà in mano Sconclusione. Io ogni volta che incontro qualcuno con la passione per la letteratura o per la scrittura e scopro che non lo conosce cerco, leggendogliene dei brani, di persuaderlo subito a iniziare. Non invidio, invece, chi come lei ne deve scrivere dal punto di vista critico perché mi pare un’impresa decisamente ostica: mi sembrerebbe di entrare nel bosco incantato alla ricerca delle fate e dei draghi, senza avere in partenza nessun oggetto magico. Comunque una bellissima avventura da cui si uscirà migliorati anche se non si sa come e in che cosa.
Quindi forse in meglio.