Recensioni / Manganelli sconclusionato #4. Intervista a Andrea Inglese

Manganelli Sconclusionato è una rassegna di interviste a cura di Emiliano Ceresi, dottorando in “Italianistica” dell’Università di Palermo, che si propone, nell’anno del centenario dalla nascita dello scrittore, di ripercorrere attraverso la voce di giornalisti, autori e critici, l’opera e il lascito intellettuale di Giorgio Manganelli.
Ospite della terza conversazione del Manganelli Sconclusionato è Andrea Inglese, scrittore, poeta e traduttore. Il suo ultimo libro si intitola Stralunati (Italo Svevo Edizioni) e ha in esergo una citazione da Dall’Inferno di Manganelli, questa: «Tu vaghi sempre e solo nella periferia, nei sobborghi, chiedi la strada a distratti ruffiani che sempre più ti spingono verso ulteriori deserti, accecati dalla luce del noncentro». La conversazione di seguito anticipa una delle interviste a “dieci scrittori” che saranno pubblicate sul numero della rivista “Riga” a cura di Andrea Cortellessa e Marco Belpoliti in uscita a novembre per Quodlibet.

Ricorda la prima volta che lesse Manganelli?
Lo ricordo molto bene. Avevo tra i ventidue e i ventitré anni e una sera a cena si era presentato un amico, che faceva parte della nostra cerchia di lettori-scrittori, con la prima edizione Feltrinelli di Hilarotragoedia – quella in cui Manganelli in copertina sembra vestito come un ispettore noir1. Non avevamo avuto neanche il tempo di sederci a tavola che il mio amico aveva già iniziato a leggere l’incipit ad alta voce, come a dire: “guardate tutti come scrive questo personaggio qui”. E fu una vera botta per me, uno shock cognitivo. Mi invaghii all’istante. Anche se al tempo avevo già frequentato letteratura abbastanza estremista: nella mia fase giovanile, che è stata punk e turbolenta, avevo letto abbondantemente Burroughs, Céline, Beckett. E però da nessuno degli scrittori italiani ricordo – salvo forse Sanguineti e Balestrini in poesia– di aver ricavato un’impressione simile. Siccome si è sempre particolarmente mimetici a quell’età, appena terminata la lettura in privato, mi ero lanciato subito nella stesura di un trattato con una teoria dell’universo basata su una visione maligna e apocalittica. Manganelli funzionò immediatamente come motore di scrittura – e io mi ritrovai alla scrivania a farne il pastiche.

Nel corso di queste interviste ho notato come ogni scrittore abbia il proprio Manganelli con un suo personale canone di riferimento. Qual è il suo?
Mi viene difficile individuare un solo tipo di Manganelli che mi interessa. Da Hilarotragoedia sono passato immediatamente ad Agli déi ulteriori e quindi ad approfondirlo con maggiore sistematicità: ovviamente ho messo presto il naso in Centuria, opera di cui ho apprezzato la realizzazione formale, ma che a mio parere riflette l’anima più manieristica di Manganelli. Con La Palude Definitiva e Dall’Inferno, invece, l’invaghimento è stato completo. Apprezzo molto queste due opere che, rispetto alle prime, hanno uno spettro lessicale più ristretto e affrontano la perlustrazione di quel genere di territori atri e notturni che si trovano anche nella parte finale dell’opera di Samuel Beckett.
E poi mi piacque tantissimo al tempo, e continua ancora oggi a convincermi, Il presepio. La scoperta di questo libretto postumo fu per me illuminante perché da lì compresi a pieno la doppia dimensione di Manganelli, quella fantasmagorica – che in certi testi assume la compattezza classica del racconto borgesiano – ma anche quella dirompente del saggista divagante. Ne Il Presepio c’è un impianto cognitivo teorico di stampo antropologico estremamente potente: è davvero una tipologia di scrittura letteraria che sonda le possibilità della conoscenza. Un’opera in cui la letteratura non è solo menzogna, ma in cui si esplora la possibilità di allestire una narrazione sugli emblemi cristiani che sono abbordati, però, dall’ottica di un antropologo della religione.

Una serie di metodologie di cui Manganelli si serve anche nei corsivi.
Rileggevo proprio in questi giorni gli Improvvisi per macchina da scrivere, una raccolta di scritti dedicati principalmente a temi “leggeri”, di costume. Mi sono imbattuto in un corsivo in risposta a un’opinione di Alberoni che riteneva che l’inglese dovesse diventare la lingua universale e Manganelli dice in risposta alcune cose straordinariamente acute da un punto di vista teorico, che ho ritrovato con sorprendenti affinità in Barbara Cassin, filosofa francese contemporanea che si interessa proprio di questioni di traduzione. Cassin ricorda che il concetto, prima di diventare concetto, è parola e che le lingue non sono sovrapponibili – dunque l’idea di una struttura concettuale universale risulta sostanzialmente impraticabile. La studiosa, recuperando le teorie di Lacan, precisa anche come l’inconscio sia intimamente legato alla propria lingua particolare e, da lì, procede a mostrare come sia strutturalmente impossibile tradurlo in una lingua universale. In questo periodo della mia vita, poi, mi sento particolarmente vicino a Manganelli, che è uno degli scrittori più antiaccademici che ci sia. Lui, tra l’altro, l’accademia l’ha frequentata, seppur per breve tempo, e ne riportava sempre aneddoti tremendi (ride, ndr).

L’insegnamento è forse una delle dimensioni che più spesso parodizza anche nella sua opera letteraria: penso alla dissertazione del Professor anfesibena in Dall’Inferno o alla rappresentazione di sé stesso come Professore vessato dai suoi alunni in Hilarotragoedia.
Secondo me ci si è ritrovato dentro senza troppa convinzione e in un momento della sua vita ha capito che stava viaggiando nel senso contrario. Quello che è interessante dell’anti-accademismo di Manganelli, però, è che, seppure nei suoi saggi non si pieghi mai a mettere una nota a margine, o a esplicitare una citazione, possiede un pensiero che comunque procede in parallelo alla sua invenzione letteraria, ed è un pensiero che ha sempre un solido sfondo teorico. In autori come Italo Calvino la dimensione riflessiva la si ha costantemente in mente quando si leggono le pagine d’invenzione, mentre in Manganelli no – e però il suo è un sistema teorico altrettanto strutturato.

Dopo che si supera inevitabilmente la fase del mimetismo cosa rimane della lettura? Mi riferisco anche al fronte teorico da lei appena citato…
Letteratura come menzogna lo lessi mentre lavoravo al mio dottorato in teoria della letteratura, un periodo di studio in cui ero completamente immerso nell’analisi delle più diverse teorizzazioni e ricordo che ne ricavai una certa delusione perché mi parve un saggio decisamente ‘leggero’, poco sistematico, rispetto ai libri che maneggiavo allora – che però erano scritti da filosofi o critici di letteratura, non da scrittori. Il Manganelli teorico della letteratura, forse perché lo incontrai nel frangente sbagliato, non ebbe una grande presa su di me. La mia tutt’ora viva fascinazione è quindi basata sulla sua pratica di scrittura. E la singolarità della sua prosa consiste per me nella sua conformazione stilistica. Provo un perenne godimento nel rileggerlo e di lui mi interessa la perfetta miscela di due componenti: l’invenzione figurativo-visionaria e la ricerca linguistica, con cui non intendo il mero sfarzo lessicale, ma la finissima ricerca dell’accostamento inusitato. Questi due elementi sono la vera potenza di fuoco di Manganelli. A me interessa soprattutto quando uno scrittore fa collidere questi due ambiti: scenari e parole. E spesso anche nella letteratura sperimentale, mi riferisco anche alla poesia, non si ottiene mai una sintesi dialettica tra queste due componenti. Di solito o prevale una dimensione espressionista orientata al realismo; oppure ci sono forme visionarie che mancano, però, di quell’immaginazione lessicale che intesse, invece, gli stemmi manganelliani.

Mi viene allora naturale chiederle che genere di prosa scrive Manganelli secondo lei. Lo dico perché in un suo intervento uscito sul n°69 «Nuova Prosa» tra le scritture anomale cita proprio Manganelli e mi pare di poter cogliere anche una sua spendibilità nel terreno della poesia visto che molte delle sue opere si collocano in quella che lei definisce una «terra di mezzo»2.
Domanda molto interessante, credo sia difficile rispondere con una voce sola e soprattutto, in una volta sola. È un quesito che ha a che fare con cosa ci interessa di Manganelli oggi in quanto scrittori-narratori ma anche in quanto poeti. La mia impressione è che quei testi che pongono problemi di genere come La Palude definitiva e Dall’inferno, per restare ai miei prediletti, costituiscono ancora uno straordinario orizzonte aperto, una frontiera tutta da esplorare – soprattutto per chi viene dalla poesia e vuole abbandonare il verso: allontanandosi, cioè, dalle sponde tranquillizzanti della lirica tradizionale. Ho la sensazione, però, che questa eredità non sia stata raccolta neppure dai miei compagni di strada di “Prosa in prosa” o, almeno, non da tutti i membri, per il fatto che oggi la prosa maggiormente frequentata dai poeti di ricerca è quella che va verso la destrutturazione estrema. Più rapida è la destrutturazione, però, con i suoi tentativi di sperimentazione dispersiva o non lineare, e più velocemente si esce dal territorio di mezzo che lei citava. Manganelli, è vero, si muove ancora in quella terra di mezzo della prosa (non del tutto narrativa e non del tutto poetica) perché in lui si dà una concreta figurazione di un paesaggio, di una geografia immaginaria, anche se tracciata con morfologie inverosimili. Nella sua opera c’è anche una forma di narrazione, per quanto costantemente critica di se stessa ed espressa per mezzo di narratori inaffidabili o ipotetici. Manganelli continua a costituire una miniera ricchissima, un deposito di possibili metalli per le scritture a venire – e ciò nonostante non è preso granché in considerazione da chi si sta esplorando quello stesso territorio venendo dalla poesia. Eppure, rappresenta una dei percorsi più affascinanti a mio parere.

Forse perché si va sempre più in direzione di una separazione dei due ambiti, con una netta ripartizione delle rispettive letture di chi frequenta la prosa e chi la poesia. Leggendo i suoi Stralunati ho pensato spesso a Luigi Malerba, che mi pare un altro exemplum di anomalia narrativa.
Ne parlavo recentemente con Massimiliano Manganelli che su «Il Verri» ha scritto dei racconti di Malerba. In Malerba c’è la dimensione del nonsense che oggi mi pare più praticata da una certa famiglia di autori: penso al tono dei racconti brevi di Ugo Cornia o ai personaggi di Ermanno Cavazzoni, senza dimenticare la passione di Paolo Nori per un poeta come Daniil Charms. In generale l’espediente del nonsense mi pare che circoli anche in ambiti più ristretti: lo si può trovare in alcune prose di Marco Giovenale, o in alcuni testi di Michele Zaffarano. Da parte di molti poeti che fanno ricerca, purtroppo, c’è una specie di rigetto in blocco della dimensione narrativa, una scelta che parte ovviamente da un legittimo pregiudizio verso il romanzo commerciale di stampo borghese, ma che li porta anche a precludersi il dialogo con tutte quelle prose che sono prive di confini fissi. Io condivido quello che lei dice: c’è scarsa attenzione per quella sperimentazione che si è avuta in ambito narrativo in Italia, anche se poi effettivamente una vicinanza esiste, ma effettivamente è più frutto di una pratica autonoma che di una teoria consapevole.
Mi piacerebbe approfondire ulteriormente il suo interesse per l’idea alla base de Il presepio. Anche nel suo Stralunati figura una prosa basata sulla riscrittura di un episodio testamentario: penso a Caino e Abele, un racconto in cui recupera figure bibliche per “aggiornarle” con nuove allegorie.
Recentemente in occasione della presentazione a Parigi dell’edizione francese degli scritti d’arte di Manganelli3, la figlia Lietta ha ricordato che quando era piccola il padre era solito raccontarle il mito di San Giorgio e il drago assumendo, però, il punto di vista inedito di quest’ultimo. Mi ha molto colpito questo aneddoto perché è un tipo di operazione che a me interessa moltissimo e in cui mi sono già avventurato in passato. In Commiato d’Andromeda, libro basato in gran parte sull’ekphrasis del quadro di Piero di Cosimo “Liberazione di Andromeda”, a un certo punto mi soffermo in alcune pagine proprio sui vari San Giorgio e il drago. In fondo quel che la pittura mostra è che quelle due figure funzionano come un’unica macchina a ciclo continuo costituita da due componenti che non possono essere mai concepite separatamente.
Quella testimoniata dal racconto di Lietta è una prospettiva straordinaria perché documenta, attraverso un episodio di vita familiare, la possibilità di rileggere gli antichi monumenti letterari o pittorici passando per la porta di servizio, un’operazione che Manganelli compie con grande ironia e un’attitudine lievemente vandalica in tutti i suoi libri. In questo modo Manganelli ci mostra il giusto rapporto che occorre stabilire con la tradizione. La tradizione è viva se la si avvicina con il martello, se la si tocca con i guanti si perde il confronto in partenza. Bisogna evitare in tutti i modi di assuefarsi a uno stato di ipnotica passività nei confronti dello splendore del passato e delle idee. Manganelli ci mostra che è praticando un allegro vandalismo che si può ridimensionare il complesso di inferiorità verso la grandezza, in un corpo a corpo vitale con l’arte passata.

In Stranulati vige uno stato di sospensione e angoscia che accomuna tutti i personaggi, una temperatura emotiva che spesso coinvolge anche le figure manganelliane. E soprattutto sono figure divaganti, proprio come nei testi che lei predilige.
Certo, ci sono una serie di elementi che accomunano tra l’altro il Manganelli di quei testi a Beckett, altro autore che per me ha contato molto. Penso alla questione della voce che in entrambi è una specie di sovrappensiero, di monologo delirante: la cronaca in prima persona di esseri che vagolano in lande sperdute. In Stralunati ho sperimentato la contraddizione tra una sorta di oralità, di precipitazione della parola e, insieme, la sofisticazione letteraria di quella stessa parola. Nei racconti c’è sempre da un lato una voce ritmica che incalza, in una sorta e di precipitazione verbale e, dall’altro, una precisione di tipo sintattico-lessicale che mira a contrastare questo flusso orale. Mi ritrovo molto negli stati emotivi che ricordava, a cui aggiungerei forse la presenza di un sentimento di furia desiderante che fa sì che questi personaggi vivano in uno stato di agitazione permanente, sottoposti a un’energia che è più psichico-verbale che fisico-cinetica, però. Mi è stato fatto notare da altri che è come se le loro azioni accadessero sempre in una sorta di frattempo. A me viene da pensare a quei personaggi dei cartoni animati che iniziano a pedalare fortissimo sul posto prima di raggiungere l’attrito necessario a scattare in avanti. Ecco, i miei personaggi sono come dei pedalatori del vuoto che prima di riuscire a realizzare qualcosa, anche un semplice passo, devono agitarsi come dei pazzi.

Spostandoci dalle pagine al paratesto, mi pare che la collocazione dei suoi racconti in una collana che si chiama “Biblioteca di Letteratura Inutile” rientri perfettamente in quello che stiamo dicendo su Manganelli. È anche in buona compagnia: c’è il Frassineti satirico…
Assolutamente, c’è anche un Malerba che riscrive classici letterari, facendo incontrare personaggi che appartengono a romanzi diversi per lingua ed epoca. La collana “Biblioteca di Letteratura inutile” è il vestito perfetto per le mie prose brevi, c’è una certa air de famille.

Mi racconta la scelta dell’esergo da Dall’Inferno? Mi sembra più di una semplice indicazione di un modello alla soglia del libro.
Nell’esergo ho ripreso il tema della periferia, del «noncentro». Quella citazione nella mia testa si lega al lavoro di Jean-Michel Alberola, un artista francese che in un’opera costruita con il neon scrive: «Il n’y a pas de figure centrale». La frase di Manganelli ha molto a che fare con questa idea secondo me. La sua domanda chiama in causa la scelta di poetica alla base del libro, che è quella di andare a recuperare la vicende periferiche di figure minori. Le figure minori sono evidentemente quei personaggi irrilevanti per qualsiasi storia nazionale o microstoria biografica, ma, a ben vedere, a essere minore è pure la loro vicenda: cioè i fatti o le azioni che li riguardano. Per farle un esempio, “I convenevoli” è un racconto che amplifica questa esperienza quotidiana dell’incontro con qualcuno che ci dice qualcosa di non benevolo sul nostro aspetto o sulla nostra condizione psicologica, un’esperienza che costituisce una sorta di microferita della nostra esistenza quotidiana. Ecco, per me l’idea manganelliana del «noncentro» consiste proprio nello scrivere di queste microferite, nello scandagliare questo genere di dettagli dell’esistenza al fine di ottenerne una conoscenza maggiore. Il non-centro di cui parla in Dall’inferno può riguardare, come in questo caso, quei meccanismi di sadismo sublimato (e clandestino) circolanti nella nostra società. Manganelli è il tipo di scrittore che coglie questo tipo di fenomeni periferici e li mette al centro dell’opera offrendogli una rilevanza sproporzionata. E qui l’aggettivo va preso alla lettera: siamo al di fuori delle proporzioni a cui ci ha abituati il discorso ordinario, per questo il suo sguardo lenticolare non smette di restituirci prospettive sorprendenti.

Per concludere le chiederei allora, in questo anno anniversario, quale le sembra allora il lascito, l’eredità e letteraria o artistica di questo scrittore.
Nonostante tutti gli sforzi accademici e divulgativi, le moltiplicazioni di letture e di eventi pubblici a lui dedicati negli ultimi anni, Manganelli resta uno scrittore che fatica a essere assimilato dalla cultura italiana. E tutte le volte che uno scrittore importante non viene assorbito significa che c’è un territorio straordinariamente fecondo da esplorare e da cui trarre risorse vive. A livello più generale, per me è interessante l’idea di libertà che Manganelli propone. La sua tendenza, che direi quasi capricciosa, al rovesciamento dei dogmi – anche quelli a cui dovrebbe credere per primo. Su Wikipedia ho trovato una fonte in cui è definito «il teorico più coerente della neoavanguardia», affermazione che non stento a definire stravagante. Già solo ipotizzare che esista una teoria complessiva della neoavanguardia è audace, ma ritenere che sia Manganelli a incarnare questa presunta coerenza teorica è francamente bizzarro. Come dice lei, Manganelli è inafferrabile perché produce ripetuti spostamenti rispetto alla sforzo di adattarsi a un’unica identità. Questa sua vocazione libertaria spero davvero che continuerà a essermi d’ispirazione.

1 Si veda la descrizione in copertina fornita da Andrea Cortellessa: «[…] Nessuno si sarebbe aspettato che egli si facesse ritrarre in posa da vilain in un noir d’accatto (la posa di tre quarti; i soliti occhialacci a far ombra allo sguardo, obliquo ma intento in camera; la tesa del feltro nero calcata sulla fronte; i colori della sciarpa di seta, e della cravatta fuori tinta, lievemente malsani; lo sfondo dell’illuminazione incerta) in A. Cortellessa, Libri Segreti. Autori-critici nel Novecento italiano, Firenze, Le Lettere, 2008, pp. 210-211.
2 Una versione sintetica dell’intervento si legge su “Nazione Indiana” a questo link: https://www.nazioneindiana.com/2019/01/05/dalle-terre-di-mezzo-della-prosa/ (ultima consultazione: 20/09/2022).
3 Si fa riferimento a G. Manganelli, La mort comme lumière. Écrits sur les arts du visible, a cura di Andrea Cortellessa, traduzione di Vincent d’Orlando, Parigi, Cahiers de l’Hôtel de Galliffet, 2022.