Recensioni / E.R. Curtius: la crisi, le rovine e l’Europa

La Crisi, le rovine

Quando Letteratura europea e Medio Evo latino (Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter) uscì presso l’editore Francke di Berna, nel 1948, quell’Europa che brillava come un faro storiografico e culturale nel titolo era ridotta allo sfacelo, e lentamente cominciava a riprendersi dalla guerra più spaventosa che il mondo avesse mai patito. Dall’ammasso sconfinato di rovine materiali e spirituali che coprivano il continente, la sua coscienza annebbiata e d’improvviso sottratta all’incubo di un trentennio orribile impastato di frammentazioni e di scontri nazionalistici, di dittature feroci e di osceni stermini, con il libro di Ernst Robert Curtius sembrava risorgere un’impensata idea di unità, di compartecipazione, che due guerre mondiali avevano distrutto. La Crisi coinvolgeva l’intero Occidente, la sua immagine e la sua consapevolezza, i suoi progetti di futuro. E si badi, è la Crisi i cui ultimi scossoni, più di 70 anni dopo, fanno tremare ancora noi, per le stesse fratture, le stesse fragilità e volontà di potenza.
Rileggendo Curtius potremo non certo sottrarci al minacciato Armageddon, ma di sicuro tentare di cercare un Senso alla vicenda di irrazionalità e di catastrofe che continua a perseguitarci, alle nostre lacerazioni, ai nostri terrori apocalittici, al nostro continuo guardare a un’Europa unita il cui destino Curtius tracciava con nostalgia di conservatore, ma che oggi possiamo rimeditare da un punto di vista assai diverso, con questo capolavoro storiografico fra le mani. Un monumento alla storia della civiltà europea, finora introvabile, dopo l’esaurirsi della bellissima edizione curata da Roberto Antonelli per la Nuova Italia nel 1992 (io stesso collaborai, con fatiche enormi), ma per fortuna oggi riproposta in un’edizione altrettanto elegante da Quodlibet – pp. 923, euro 34 – con una nuova premessa di Antonelli, Trent’anni dopo.
Quel grande libro, immenso archivio erudito e mobilissima enciclopedia aperta, era soprattutto un Teatro della Memoria e della metamorfosi spirituale, secondo un modello che da Giulio Camillo e Giordano Bruno giungeva a Curtius attraverso Aby Warburg. Proponeva non solo «una storia», ma «una fenomenologia della letteratura», da vivere come riscatto di identità individuale e collettiva. Riprendendo l’idea warburghiana di un Atlante morfologico delle culture Curtius l’avrebbe chiamata anche «morfologia della tradizione». Nella Prefazione alla seconda edizione, datata dicembre 1953, neppure tre anni prima di morire (conoscendo la propria sorte volle, simbolicamente, che ciò avvenisse a Roma), Curtius sottolineava: «Il mio libro non è il prodotto di finalità puramente scientifiche, ma della preoccupazione per la salvaguardia della cultura occidentale». E non a caso evocava, con una straordinaria figura allegorica che era anche una mise en abyme del suo lavoro, il tappeto di resti di quella «tradizione occidentale» la cui «comprensione» postuma intendeva fondare: «L’archeologia contemporanea ha fatto scoperte sorprendenti tramite la fotografia aerea da grande altezza.
Attraverso questa tecnica si è riusciti ad esempio a riconoscere per la prima volta il sistema tardoromano in Africa del Nord. Chi si trova in basso davanti a un cumulo di macerie non può vedere l’insieme che la fotografia dall’aereo rende visibile. Ma questa fotografia deve essere ingrandita e comparata con la carta topografica. Una certa analogia con questo metodo offre la tecnica di ricerca letteraria che ho qui impiegato».
Sul bordo della Crisi, nella derelitta Waste Land del dopo il Diluvio, di cui restituiva una visione “dall’alto” ricomposta con superba analisi dall’ammasso di detriti della Storia, Letteratura europea e Medio Evo latino venne alla luce come un libro pedagogico-terapeutico e lucidamente profetico. «This fragments I have shored against my ruins», diceva uno degli ultimi versi della Waste Land: ma già nei Cantos di Pound emergeva la figura allegorica delle «rovine puntellate» con i «frammenti» della storia e della letteratura universali. Il poemetto di Eliot era apparso nel 1922, e Curtius nel ’48 muove dall’idea eliotiana che «il senso storico sia senso dell’atemporale e del temporale […] insieme» e renda così lo scrittore (e il critico) «consapevole del suo posto nel tempo, della sua contemporaneità» (Tradition and the Individual Talent, 1919).
Nel 1992 Roberto Antonelli rilevava come «una delle chiavi fondamentali per l’interpretazione e la fruizione dell’opera» sia appunto «di tipo pedagogico»: Letteratura europea e Medio Evo latino è «un “manuale” della tradizione letteraria europea per il giovane europeo; un “memoriale” per il prossimo millennio». Adesso, “trent’anni dopo”, riconosce finemente come «la “longue durée” di Curtius (e di tutti gli altri, fino alle Annales) sembra […] rappresentare, in prospettiva storico-critica, la necessità (innanzitutto degli intellettuali novecenteschi) di dare un Senso alla modernità», e dunque «l’estremo tentativo di attualizzare il passato», combattendo così per controllare con strumenti simbolici «la Crisi e le crisi».
Nel 1948, quando la crisi dell’umano come conquista di comunità era esplosa nella più orrenda cancellazione delle radici condivise, Letteratura europea e Medio Evo latino individuava per l’unità europea un’origine non razziale ma culturale, e una coscienza comune, un territorio della memoria condivisa vasto e profondo. La storia di un millennio di segreta continuità sotterranea, carsica, veniva sottoposta a un’analisi micro- e macroscopica, «per scomporla (come fanno i reagenti chimici) e per evidenziarne l’intima struttura»: secondo la dichiarazione di Hugo Schuchhardt eletta da Curtius tra le epigrafi inaugurali del libro, «la combinazione paritetica del microscopico e del macroscopico rappresenta l’ideale della ricerca scientifica».
In un nodo mai prima d’allora riconosciuto, l’Antichità si stringeva così con il Medio Evo e con la Modernità, e affiorava un’idea, anzi un progetto di Moderno fondato sulla tenuta della Bildung, la formazione umanistica degli individui e delle comunità, capace di resistere alle spaventose crisi politico-istituzionali, militari, economico-sociali, che trascinavano l’Europa nell’abisso della Crisi totale. Nel momento in cui si procedeva ai primi tentativi di «europeizzazione del quadro storico», e si ponevano le basi per quella che dieci anni più tardi (1958) sarebbe diventata la prima Comunità Europea (oggi, ampliata ma sempre più bisognosa di una politica davvero condivisa al di là della saldatura degli interessi economici, la chiamiamo Unione Europea), Curtius per la prima volta rimeditava con dottrina larghissima e con un mirabile sguardo storico-antropologico l’idea di Europa, la sua tradizione ininterrotta anche se ormai definitivamente incrinata, il suo pensiero e la sua letteratura, riconoscendovi «un organismo che partecipa di due insiemi culturali, quello antico-mediterraneo e quello moderno-occidentale».

Mediterraneo e Occidente

Mai come ai nostri giorni queste due categorie dialettiche evocate da Curtius a metà del Novecento, mediterraneo e occidentale, che mi sembra la critica abbia del tutto ignorato nell’esame di Letteratura europea e Medio Evo latino, appaiono coerenti non solo con il passato, ma, quasi profeticamente, con il futuro, che è il nostro presente ancora una volta colmo di ansia e di terrore. Nel momento in cui esplode con rischi giganteschi un’opposizione ciclopica fra l’“Occidente” e quell’“Europa orientale” che in Mosca incarnò miticamente la “terza Roma”, «politica e letteratura si dimostrano ancora una volta strettamente collegate e il rapporto fra Unione politica europea e letteratura europea come letteratura – e formazione – dei giovani Europei non è stato non solo risolto ma neppure affrontato»: così scrive Antonelli in Trent’anni dopo, datato “Luglio 2022”, richiamando esplicitamente la crisi ucraìna e la frattura palese fra Unione Europea e «un paese – la Russia – che geograficamente è in buona parte europeo, ma che dall’Unione è staccato» e ormai contrapposto in uno scontro che di giorno in giorno minaccia di trasformarsi nel terzo (e definitivo) conflitto mondiale. Questo libro della Crisi è un libro terapeutico per ogni crisi: anche per quella culturale e identitaria che l’Europa e l’Occidente stanno vivendo. Non salverà il mondo, ma di certo ci aiuterà a cercarvi un Senso.
Nel 1948 Ernst Robert Curtius era già uno dei più grandi filologi e critici letterari su scala internazionale. Lui, alsaziano, segnato per destino dallo scontro secolare tra Francia e Germania per il possesso di quella regione di confine, nel 1919, subito dopo la disfatta del Reich tedesco, aveva pubblicato il suo primo libro importante, Die literarischen Wegbereiter des neuen Frankreich (I pionieri letterari della nuova Francia), in cui tesseva un quadro lucido e innovativo della grande letteratura contemporanea maturata “al di là del Reno”, esaltando André Gide, Romain Rolland, Paul Claudel, André Suarès, Charles Péguy, ma soprattutto tratteggiando «una peculiare natura, tipicamente francese», della Bildung umanistica ancor viva nel cuore della modernità. Lo scandalo fu enorme. I nazionalisti tedeschi, umiliati dalla pace di Versailles siglata proprio nell’estate di quel 1919, gridarono al tradimento, giacché l’Alsazia-Lorena, occupata nel 1870, era stata definitivamente restituita alla Francia. E come una provocazione politica fu accolto quel libro in tedesco di un tedesco d’Alsazia dedicato allo «spirito francese nella nuova Europa» (esattamente così Curtius avrebbe intitolato un suo nuovo volume nel 1925, contenente fra l’altro il primo saggio europeo sull’ancora incompiuta Recherche proustiana).
Eppure I pionieri letterari della nuova Francia, specie nella conclusione, che rimeditava il rapporto fra lo «spirito» francese e quello tedesco alla luce delle rovine della prima Guerra mondiale, per Curtius non era un libro ideologicamente connotato, e invece conteneva il germe di una storia spirituale e culturale dell’Europa millenaria che trent’anni più tardi sarebbe sbocciata pienamente in Letteratura europea e Medio Evo latino. Posseggo una copia della terza edizione ampliata e definitiva (1923) di Die literarischen Wegbereiter, donata nel marzo 1929 da Curtius a un’archeologa inglese che lavorava a Roma, Eugénie Strong. La dedica autografa assume un valore straordinario, se la si colloca nel contesto storico-biografico, lanciando lo sguardo già al capolavoro del 1948: «Alla Signora Strong, in Roma, ove i popoli del nostro Occidente si rivelano allo sguardo dello spirito nella loro Armonia, questo libro sulla Francia l’autore tedesco dedica all’amica inglese in segno di ringraziamento. Ernst Robert Curtius, marzo 1929». Si comprende meglio l’importanza di questo documento ricordando che il 19 gennaio di quell’anno, proprio a Roma dove si trovava in semestre sabbatico, Curtius aveva assistito alla celebre, rivoluzionaria conferenza di Aby Warburg alla Biblioteca Hertziana sull’Antico romano nella bottega del Ghirlandaio, accompagnata da un gran numero di tavole costellate di fotografie, e ne era rimasto profondamente colpito. Fu quel giorno che si innamorò del metodo d’indagine di una morfologia della cultura cristallizzata in tratti ideologico-stilistici decisivi, come «sopravvivenza di un’immagine», «engramma» (in quel periodo Warburg usò anche la categoria di «dinamogramma»), «inversione energetica riguardo l’interpretazione di antiche formulazioni di pathos (Pathosformeln)». Non a caso vent’anni dopo quella conferenza Curtius dedicò Letteratura europea e Medio Evo latino a Warburg e al suo sconfinato teatro della Memoria (l’Atlante di Mnemosyne), e ad un maestro della filologia romanza, Gustav Gröber: due numi tutelari della millenaria, coerente continuità romano-europea.
Il termine Geist, «spirito», che brillava nella dedica alla Strong («in Roma, ove i popoli del nostro Occidente si rivelano allo sguardo dello spirito nella loro Armonia»), era già nel titolo del libro del ’25, Französischer Geist im neuen Europa (Lo spirito francese nella nuova Europa). Esso va interpretato non in prospettiva idealistica, ma in una dimensione che mi spingerei a definire antropologica, sulla stessa linea storiografica di armonizzazione europea a cui Curtius non aveva mai smesso di pensare. L’accostamento delle tre civiltà, francese, tedesca, inglese, sotto il segno dell’Armonia occidentale che Roma riesce a «cristallizzare» (il termine è esplicito in Die literarischen Wegbereiter), rappresenta già la mappa storico culturale del territorio sterminato di Letteratura europea e Medio Evo latino.

La Bildung umanistica in crisi
Ma per capir meglio il valore di questa insistenza sui concetti di «spirito europeo» e di «armonia» fra le culture si dovrà insistere su due tappe fondamentali per il maturare, in Curtius, dell’idea di Bildung, «forma spirituale» e «quintessenza della cultura laica»: in sostanza, Umanesimo. La prima è appunto la partecipazione alla conferenza di Warburg, a Roma, nel gennaio 1929 imperniata sull’Atlante di Mnemosyne, da cui Curtius trasse l’idea di un Atlante storico-antropologico della civiltà letteraria europea, al cui centro sta la categoria di Pathosformel come motore retorico-mnemotecnico di una longue durée della Memoria culturale (già nel 1912, nel saggio famoso su Schifanoja, Warburg, richiamandosi alle ricerche darwiniane, aveva parlato di «historische Psychologie des menschichen Ausdrucks», «psicologia storica dell’espressione umana»).
Solo due mesi dopo la «cerimonia teatrale» della Hertziana, che Silvia De Laude ha definito «l’atto con cui la “storia di fantasmi per adulti” dell’Atlante è ufficialmente resa pubblica e consegnata dal suo autore a chi la sfoglierà dopo di lui», nella dedica a un’inglese del suo libro in tedesco sulla cultura francese, convocando a Roma «i popoli del nostro Occidente» in cerca di una rinnovata «Armonia», Curtius parlava già una lingua warburghiana. Era abituato a studiare le forme retoriche di articolazione della parola, a differenza dei molti spettatori specialisti di immagini. Però colse immediatamente la novità metodologica ed epistemologica di quell’arduo, complesso affresco che attraversava civiltà, luoghi, tempi, individuando affinità, resistenze, sopravvivenze, riemersioni del rimosso, attualizzazioni di idee antiche attraverso il riuso e la manipolazione di figure archetipiche conservate e trasformate, in un ininterrotto concatenarsi di momenti di inerzia e di catastrofe.
Warburg studiava la vicenda psico-culturale della civiltà non solo europea, ma occidentale (con fondamentali aperture etnologiche, per esempio nel viaggio presso i Pueblos americani), fra Rinascimento e Modernità. Curtius era interessato alla “lunga durata” della civiltà romana fino al Medio Evo, con un ponte lungo che giungeva alla Modernità, senza fermarsi sull’ormai troppo burckhardtiano-warburghiano Rinascimento. Verso quest’epoca provava «un deciso rifiuto», come «l’epoca scelta da uno dei più felici revivals dell’anima guglielmina», secondo quanto rilevò finemente Lea Ritter Santini in uno scritto magnifico (Il piacere delle affinità) con cui aprì una sua splendida scelta di saggi, Letteratura della letteratura (il Mulino 1984). L’integrazione fra il Medio Evo di Curtius e il Rinascimento di Warburg, entrambi fluidamente aperti verso la Modernità, restituisce un’enciclopedia aperta, un archivio vivente della civiltà europea.
Per la prima volta Letteratura europea e Medio Evo latino lancia uno sguardo d’aquila, vasto e acutissimo nei dettagli, sulla totalità della cultura europea, «cioè circa ventisei secoli (calcolati da Omero a Goethe)», e così edifica un ponte di continuità fra la civiltà romana e la sua sopravvivenza nella modernità, sotto il segno di una contemporaneità legata al «“presente atemporale”, che è la caratteristica specifica della letteratura»: infatti «per la letteratura, tutto il passato è presente», e la «letteratura europea» è non tanto una “storia”, quanto «un’“unità intellettuale” che sfugge alla nostra osservazione quando viene frazionata in più parti distinte».
La seconda tappa decisiva di una vera e propria terapia privata e collettiva si colloca nel passaggio degli anni 1931-32. Di fronte al Gefahr, il «pericolo» della crisi Curtius decise di entrare in cura con Jung, nel 1932. Lo stesso anno pubblicò un pamphlet dal titolo forte e inequivoco: Lo spirito tedesco in pericolo (Deutscher Geist in Gefahr; lo ha infine tradotto e commentato con finezza, nel 2018, Annamaria Bercini per una piccola casa editrice di Bologna, I libri di Emil). Alla crisi politico-culturale della Repubblica di Weimar e all’avanzata del nazionalsocialismo, che sul «campo di macerie» della civiltà europea radicava i suoi deliri di identità e purezza razziale, Curtius reagì con l’insistenza sulla categoria di Geist, «spirito». Fondando «una scienza della letteratura europea» nel momento in cui sembrava quasi impossibile ideare un’unità politico-culturale europea (ancora oggi minacciata nella sua integrità dai nefasti “sovranismi” nazionali), Curtius progetta la riconquista umanistica di una piena salute culturale come leggibilità insieme individuale, “privata”, e “collettiva”, di una civiltà, rispetto a quello che fin dal titolo l’autore definisce «pericolo» di perdita della Bildung, la formazione umanistica unificante e modellizzante. Da questo punto di vista la presenza nel suo pensiero di Warburg e di Jung è importantissima: la difesa dal rischio di carattere depressivo-dissociativo, sia degli individui sia della collettività, è ottenuta attraverso una mediazione potentemente allegorica, nel segno dell’unità e della continuità dell’archetipo-Europa lungo la disseminazione dei tópoi, l’uso e il riuso delle metafore e delle strutture retoriche, garantite non solo dagli auctores, ma dalla tenuta di una secolare formazione scolastica, soprattutto monastica.
I 18 capitoli di Letteratura europea e Medio Evo latino, insieme con i 25 importantissimi Excursus, dimostrano che idea Curtius avesse plasmato della letteratura comparata su un orizzonte sincronico e diacronico, partendo dal rapporto fra «Letteratura e istruzione», attraversando il comune territorio culturale della Retorica, della Topica, della Metaforica, al Simbolismo del Libro, spingendosi fino a Calderón, ai pilastri di Dante (che «rappresenta per l’ultima volta il teatro del mondo del Medio Evo latino») e di Goethe (che percepisce, per ultimo, «l’attività creatrice del poeta come la forza medesima che opera nella grande Natura»), al rapporto fra Montesquieu, Ovidio e Virgilio, fra Diderot e Orazio. In un saggio magnifico del 1950, La nave degli Argonauti, tradotto da Lea Ritter Santini in Letteratura della letteratura, Curtius sintetizza questa convergenza dei grandi spiriti europei nella traversata mitico-allegorica di un oceano storico cosparso da quello che «può sembrare un confuso groviglio e un conglomerato di frammenti»: «A guardarlo oggi, Goethe si avvicina sempre più a Dante, e non solo nel tempo. Come Dante, anche egli rappresentò ancora una volta il Thesaurus della tradizione europea. Anche in lui troviamo il mito degli Argonauti».
Nella traversata da Roma al Medio Evo alla Modernità per l’Argonauta Curtius un sistema sincronico e al contempo diacronico di affinità si consolida quasi come una stratificazione geologica, un continente, uno sfrangiato Mediterraneo entro cui riconoscere i punti di contatto, le faglie, le continuità, in maniera non dissimile da quanto avveniva nell’Atlante di Mnemosyne di Aby Warburg e nelle ricerche archetipiche di Jung. «È significativo», scriveva Curtius, «come in Carl Gustav Jung l’ideale della continuità (un ragionevole sopravvivere del passato nel presente) si manifesti come esigenza della salute psichica».
La salute psichica e culturale

La salute psichica degli individui e la salute politico-ideologica di una civiltà sono al centro delle meditazioni sulla Krisis. Per Warburg erano state terapeutiche, così sul piano psichico come su quello culturale, la famosa, liberatoria conferenza sul Rituale del serpente tenuta nel 1923 alla clinica di Kreuzlingen davanti a Ludwig Binswanger, il grande psichiatra che lo aveva in cura, e poi l’altra ricordata del gennaio ’29 alla Hertziana, di fronte a un eletto pubblico di studiosi. Nell’uno come nell’altro caso era risolutivo lo Zwischenraum, l’«interstizio» e dunque la “presa di distanza” rispetto alla realtà. Chiudendo lo scritto del ’23 Warburg con oscuro spirito profetico rispetto al mondo a venire, dichiarava: «Il telegrafo e il telefono distruggono il cosmo. Il pensiero mitico e il pensiero simbolico, nel loro sforzo per spiritualizzare il rapporto fra l’uomo e il mondo circostante, creano lo spazio per la preghiera e per il pensiero, che il contatto elettrico istantaneo uccide». Aprendo poco prima di morire l’ultima versione dell’Introduzione all’Atlante delle immagini intitolato alla Memoria, Mnemosyne, riprendeva così l’idea: «La creazione consapevole della distanza tra l’Io e il mondo esterno è ciò che possiamo designare come l’atto fondamentale della civilizzazione umana».
Terapeutica per Curtius è la salvezza della Bildung. Riprendendo una definizione di Max Scheler, egli definisce la Bildung «la partecipazione della persona a tutto ciò che è essenziale nella natura e nella storia – È il mondo che si concentra nell’uomo oppure l’uomo che si eleva al mondo».
Questa Bildung umanistica è stata «la forma spirituale della borghesia tedesca, che però nella Germania moderna non ha mai goduto di autorità e considerazione come nei paesi occidentali». Nella crisi di Weimar il conservatore umanistico Curtius individua la causa principale del «palese e costante processo di demolizione presso le cosiddette classi dirigenti» del processo formativo etico-culturale: «più si estenderà in Germania la demolizione dei valori della ragione e della tradizione, più sfide perderemo nel confronto intellettuale fra le nazioni. Nell’Europa occidentale si tutelano e si curano questi beni, persino il radicalismo nazionalistico francese ritiene una questione d’onore tenere alta la bandiera dell’intellettualità e della cultura classica». L’insistenza sul termine demolizione mostra con chiarezza (contro recenti, pretestuose polemiche) la ferma opposizione di Curtius all’avanzata del nazismo.
Ciò che ossessiona Curtius, come già Warburg, è la Krisis, il Gefahr, il «pericolo» non solo per lo spirito tedesco, ma per l’intera civiltà occidentale, e per i singoli individui che ne fanno parte. La coincidenza fra l’analisi con Jung e la composizione di Lo spirito tedesco in pericolo lo dimostra chiaramente. Nel libro Curtius critica l’imbarbarimento delle posizioni romantiche, socialiste, nazionaliste, che sostengono di poter «ricostruire la cultura tedesca dal basso», progettando «il collegamento con l’uomo gotico o con i caratteri etnici del popolo tedesco», e fingendo di dimenticare l’impraticabilità dell’«idea di una riforma della nostra Bildung a partire dal pensiero nazionale», giacché esso, ormai dominato dall’«appello all’irrazionale», «è ostaggio di masse radicali, i cui sentimenti possono essere ricondotti alla formula primitiva dell’odio contro gli ebrei e del mito della razza». La Krisis non solo politica, ma in primo luogo culturale, consisteva dunque per Curtius nello sgretolarsi della Bildung umanistica ormai affidata alle masse, le stesse che Ortega y Gasset vedeva crescere nel dominio delle civiltà pericolosamente pronte ai conflitti su base nazionalistica.
La recente (2017), straordinaria scoperta fra le carte di Curtius, dovuta a Ernst-Peter Wieckenberg e Barbara Picht, dei materiali già pronti per la stampa di un libro completamente dedicato alla formazione umanistica (Elemente der Bildung) e alle minacce portate contro di essa, consente di restituire con precisione più articolata il tessuto connettivo del pensiero intorno alla crisi dell’Umanesimo europeo sviluppato da Curtius nei primissimi anni Trenta, che a mio parere ha anche un legame diretto con la scelta di escludere, nel capolavoro del 1948, qualsiasi riferimento all’Umanesimo e al Rinascimento, recuperati invece da quella linea tedesca riconducibile all’inaugurale studio di Burckhardt, sulla quale Curtius nutre forti perplessità, e che al contrario Warburg ha posto al centro della propria ricerca, affrontandoli da posizioni originalissime.

Custodire l’essenziale

In primo luogo il progetto di Curtius è di riscattare un’idea di Umanesimo come formazione e custodia dell’essenziale. In Lo spirito tedesco in pericolo, con preciso richiamo a Warburg, tratteggiava un’arcata problematica che sarebbe stata edificata nel capolavoro: «O l’Umanesimo si risolve in entusiasmo dell’amore o non rappresenta nulla. Può dare forma a epoche, popoli, persone solo quando proviene dall’esuberanza della pienezza e della gioia. È l’ebbra scoperta di un archetipo amato, è il riconoscersi dello spirito moderno in una vita che dormiva nella profondità oscura del sangue e che ora diventa certa della propria origine. In questo modo Hölderlin ha scoperto le divinità dell’Olimpo e si è compiuta tutta la ricezione dell’Antichità nell’arte del Medioevo e del Rinascimento, in questo modo la grecità è potuta risorgere nella plastica gotica delle cattedrali e le antiche formule del pathos, gli engrammi spirituali (come era solito dire Aby Warburg), nella pittura italiana. Nessun oggetto di meditazione può essere tanto significativo per l’amante dell’Umanesimo quanto le autentiche testimonianze di una individualità che si risveglia attraverso il misterioso riconoscersi nelle forze magiche dell’universo antico. Tali testimonianze non sono molto numerose e, per quanto ne so, non sono mai state riunite insieme».
S’intuisce qui con limpidezza l’abbozzo ideale di Letteratura europea e Medio Evo latino, ancora fortemente segnato dalla polarizzazione warburghiana «tra la serena contemplazione e l’abbandono orgiastico», rafforzata dalla Memoria «sia collettiva sia individuale», che «crea spazio al pensiero». Sedici anni più tardi, nel magnifico Epilogo a questo libro, Curtius riprende alla lettera da Lo spirito tedesco in pericolo alcune riflessioni tratte dallo scambio epistolare fra il poeta e critico russo Vjačeslav Ivanovič Ivanov e il suo amico Michail Osipovič Geršenzon, Corrispondenza da un angolo all’altro, che ha letto in tedesco nel 1926 sulla rivista «Die Kreatur», e che ha subito definito «la più importante riflessione che sia stata elaborata dopo Nietzsche sull’Umanesimo». In Europa sembrano circolare, crescere e maturare idee affini, consonanti interpretazione del bisogno di riscatto. Ed è Curtius stesso, nel 1948, accostando Ivanov, Warburg e le proprie riflessioni dell’ultimo ventennio, a raccogliere i molteplici fili colorati e a tessere la tela di un grande arazzo della Memoria europea.
In particolare Ivanov insisteva sul tema di Mnemosyne, sulla memoria e sulla sua capacità di dinamizzare l’inerzia obliosa di una civiltà compiendo «iniziazioni rituali». La perorazione di Curtius, che intreccia eticamente, prima ancora che culturalmente, Ivanov al ricordo della conferenza warburghiana, è magnifica: «Per mezzo della memoria l’uomo diventa consapevole della propria identità, al di là di ogni cambiamento; in modo analogo, mediante lo strumento della tradizione letteraria, lo spirito europeo rimane consapevole di se stesso attraverso i millenni. Mnemosyne (Memoria) nella mitologia greca è madre delle Muse. Secondo Vjačeslav Ivanov, la cultura è ricordo delle rivelazioni dei padri: “In questo senso, la cultura non è solo monumento, ma è anche iniziativa dello spirito. La memoria, dominatrice suprema, permette alla cultura di rendere i suoi adepti partecipi delle iniziazioni dei padri e di rinnovarle in essi, comunicando loro la forza di nuove origini e di nuove iniziative. La memoria è dinamismo; nell’oblio è stanchezza, decadimento, interruzione di movimento, declino e ritorno all’immobilismo inerte”. [...] La cultura come “memoria iniziatrice” (initiative Erinnerung)... Ivanov scrisse i suoi pensieri nel 1920, a Mosca, trovandosi in un convalescenziario «per lavoratori della scienza e della letteratura». Da quel giorno, intanto, sono avvenute catastrofi culturali di incommensurabile portata. Nella odierna situazione spirituale non v’è alcuna esigenza che appaia tanto imperiosa come quella di ristabilire la “memoria”. [...] I programmi educativi e rieducativi di ogni tipo sono forse meno importanti del compito immediato di cogliere, e di riaffermare, la funzione della continuità nella cultura [...]. Il dimenticare è, in taluni casi, altrettanto necessario del ricordare. Occorre saper dimenticare molte cose, se si vuole custodire ciò che è essenziale. [...] Non ci serve alcun magazzino della tradizione, bensì una casa in cui si possa respirare, quella “casa della Bellezza alla cui edificazione collaborano sempre tutti gli spiriti creatori di tutte le generazioni”, come dice Walter Pater: that House Beautiful which the creative minds of all generations are always building together (Appreciations, 1889, Postscript)».
Il messaggio dell’Argonauta Curtius dinanzi al Gefahr, al pericolo non solo culturale, ma politico, antropologico, ideologico, perfino militare, del nostro tempo è fortissimo: «Occorre saper dimenticare molte cose, se si vuole custodire ciò che è essenziale». Accanto all’ars memoriae che tutto raccoglie e accumula nella cosmopoli universale delle scienze, e che unisce e affratella in un comune pensare, Curtius fa cenno, con gesto profondamente etico, a un’ardua, “umanistica” ars oblivionis, strumento di selezione e di cura, di accoglimento e di edificazione fondato sullo scarto delle false identità conflittuali, dei conflitti imperniati sulla fascinazione delle ideologie. Oggi, più che in qualsiasi altro momento della nostra storia recente, occorre scegliere la «Memoria di ciò che essenziale», e quindi anche l’«Oblio di ciò che non lo è», se si vuole edificare una casa comune, una House Beautiful che offra un nuovo respiro alla speranza, al futuro.
A proposito di questa necessaria mnemotecnica spirituale dell’oblio, per l’identità dell’ethos che la sostiene, mi sembra opportuno richiamare la magnifica definizione attribuita a Gustav Mahler: «Tradizione non è culto delle ceneri, ma cura del fuoco». La scelta di idee da condividere e non l’accumulo di rovine, il theatrum colmo di parole e di immagini vive e vivificanti, non l’inerte «magazzino della tradizione»: la cura del fuoco, non il culto della cenere.