Recensioni / La fotografia al lavoro

[Verrà inaugurata oggi a Rubiera (Reggio Emilia) la mostra fotografica Jobs 2022. Forme e spazi del lavoro. Un’indagine interdisciplinare in Emilia. Proponiamo in anteprima il saggio di Antonello Frongia contenuto in Jobs 2022. Forme e spazi del lavoro, a cura dello stesso Frongia, di Stefano Munarin e di Federico Zanfi, uscito in contemporanea alla mostra per Quodlibet. In calce l’invito alla giornata di studi di oggi].

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Forme e spazi della fotografia documentaria

Con questa ricerca dedicata alle forme e agli spazi del lavoro nella quarta rivoluzione industriale, Linea di Confine per la Fotografia Contemporanea torna a interrogarsi sulla possibilità di osservare le tracce di trasformazioni di ampia portata che si depositano nel campo visivo delle nostre vite quotidiane. In linea con una missione più che trentennale, l’ambizione è duplice. Da una parte, tornare a «camminare, guardare, ascoltare» ciò che appare ordinario – in questo caso, le nuove fenomenologie del lavoro nell’Emilia centrale – perché «guardare la città con occhi di naturalista non vuole dire assomigliarla ad un organismo, vuol dire ascoltarne le voci oggettivate nelle cose»[1]. Dall’altra, verificare i metodi e le domande, i limiti e le potenzialità di una pratica fotografica che nel corso del Novecento è venuta definendosi attorno al concetto di “documentario”: una verifica richiesta anche da «condizioni storiche attuali, potenzialmente regressive», in cui «il potenziale di obiettività della fotografia […] che permette di comprendere la complessità sociale deve essere difeso come strumento di emancipazione»[2].

Questo progetto presenta quindi due livelli di indagine tra loro interconnessi. Anzitutto, l’oggetto. Dopo avere indagato, a partire dagli anni 2000, i nuovi spazi delle merci, della cura e del welfare[3], l’attenzione di Linea di Confine si rivolge oggi all’“Industria 4.0” e alle altre forme emergenti di lavoro in uno dei territori più dinamici del Paese. È un tema di portata potenzialmente vastissima che non riguarda più solo la fabbrica o la città-fabbrica, ma richiede un ripensamento del concetto stesso di “spazio della produzione” in una fase di progressiva dispersione – fino al limite dell’invisibilità – dei soggetti, dei processi, dei tempi e dei luoghi del capitalismo avanzato.

Il problema dell’opacità del lavoro di fronte al potere di osservazione della fotografia non è recente. Come osservava Allan Sekula, questa paradossale invisibilità si pone già in quell’“incunabolo” che è la veduta di Boulevard du Temple ripresa da Daguerre nel 1838, in cui la figura di un borghese fermo nell’atto di farsi lustrare le scarpe – in contrapposizione a quella del lavoratore in movimento, “evaporata” dall’immagine per il lungo tempo di esposizione della lastra – può essere vista come «la prefigurazione complementare e negativa della frenesia di un’élite transnazionale contemporanea che setaccia il globo in cerca di nuovi mercati del lavoro post-fordista a basso costo»[4].

Il riferimento teorico obbligato per questa persistente assenza del lavoro nell’immagine fotografica rimane la celebre affermazione di Brecht citata da Walter Benjamin nella Piccola storia della fotografia (1931): «meno che mai una semplice restituzione della realtà ci dice qualche cosa sopra la realtà. Una fotografia delle officine Krupp o della AEG non dice quasi nulla in merito a queste istituzioni. La realtà vera è scivolata in quella funzionale. La reificazione delle relazioni umane, e quindi per esempio la fabbrica, non rimanda più indietro le relazioni stesse. Si tratta dunque effettivamente di costruire qualche cosa, qualcosa di artificioso, di predisposto»[5].

Questo storico scollamento tra la realtà “funzionale” e realtà “vera” è ancora più profondo nell’attuale fase neoliberista del capitalismo ipertecnologico, nella quale, come ha osservato William Guerrieri, il lavoro non è stato del tutto delocalizzato o robotizzato, ma si è spesso riarticolato, anche all’interno delle singole unità produttive, in «una stratificazione di diversi sistemi organizzativi e produttivi, da quello fordista, a quello post-fordista, a quello caratterizzato dal lavoro digitale»[6].
In Italia, la fiducia nella possibilità di testimoniare fotograficamente la nobiltà e le sofferenze del lavoro è stata il Leitmotiv degli anni Settanta: un progetto editoriale impegnativo come Dentro il lavoro, pubblicato nel 1979 con immagini di Gianni Berengo Gardin e Luciano D’Alessandro, testimoniava sin dal titolo la volontà di impiegare gli approcci e gli stili di un reportage “immersivo” per una campionatura delle varietà del lavoro in Italia, con particolare attenzione per quello manuale, agricolo, artigianale e operaio[7]. Pur non fornendo particolari informazioni sui soggetti rappresentati o analisi dei fenomeni socio-economici correlati, il volume alternava blocchi di fotografie a brevi testi didascalici (redatti da Bruno Corà) che sollevavano domande complesse sulla condizione umana, sull’era contemporanea e sul futuro a partire da riferimenti teorici o letterari, dalle Domande di un lettore operaio di Brecht a Lavoro intellettuale e lavoro manuale di Alfred Sohn-Rethel[8]. Così una serie di istantanee di operai intenti a una macchina o addetti al controllo dei prodotti era seguita da questi interrogativi: «Si sono scritti libri interi sull’“attenzione”. Che facoltà è questa? Poteva apparire prerogativa di chissà quale mente o sensibilità! Ad essa riferiscono i propri mezzi conoscitivi quanti vengono definiti operatori intellettuali. Già, come se chi opera manualmente non fosshe dominato da quella tensione! Si è mai visto qualcuno intento a lavorare che avesse un viso distratto?»[9].

Due anni dopo, un’opera antologica curata da un fotografo concerned come Uliano Lucas ampliava e sviluppava questo approccio realizzando quella che ad oggi rimane l’unica Storia fotografica del lavoro in Italia [10]. In questo caso erano i testi di Giulio Sapelli a introdurre i diversi capitoli che ricostruivano una vera e propria storia politica del lavoro dal 1900 al 1980. In un capitolo introduttivo, invece, il sociologo e sindacalista Aris Accornero proponeva una tematizzazione dell’iconografia fotografica raccolta nel volume: «Il vestito del lavoro», «Il tempo fuori del lavoro», «Il tempo del lavoro», «L’immagine del padrone», «Corpo e gesto nel lavoro», «Il ritmo di lavoro», «La refezione sul lavoro», «Il cameratismo sul lavoro», «La solidarietà del lavoro»[11]. Una visione problematica delle iconologie fotografiche era invece sviluppata, non senza qualche critica ai criteri “contenutistici” del volume, da Arturo Carlo Quintavalle, che nell’occasione articolava un’originale lettura del “lavoro fotografico”: un’analisi della pratica fotografica come produzione di merci e di un mestiere a lungo dominato da prospettiva piccolo-borghese, a cui si deve, secondo lo storico dell’arte, il perdurare di modelli visivi derivati dalla ritrattistica che di fatto censurano l’immagine del lavoratore per celebrare la razionalità della fabbrica, l’efficienza dell’organizzazione e la bellezza dei prodotti[12].

Che la Storia fotografica del lavoro fosse in qualche modo il monumento a una cultura operaista in via di forte trasformazione è suggerito, in quegli stessi anni, da un altro lavoro centrale per la cultura fotografica italiana: Ritratti di fabbriche di Gabriele Basilico, avviato nel 1978 e pubblicato per la prima volta nel 1981[13]. Evitando accuratamente l’iconografia umanista dei volti e dei corpi dei lavoratori, Basilico si concentrava sulle facciate esterne dei capannoni industriali milanesi, riprese appositamente in giornate festive per compilare una sorta di atlante tipologico della nuova archeologia industriale in una fase di deindustrializzazione e di incipiente terziarizzazione. Celebrando le vestigia di una “città operosa” novecentesca, Basilico inventava in questo modo un’immagine dell’ambiente industriale del tutto nuova per l’Italia. Guardando al Walker Evans degli anni Trenta, alle tipologie industriali di Bernd e Hilla Becher e il minimalismo di Lewis Baltz, Ritratti di fabbriche si proponeva come il modello per una lettura “paesaggistica” della società italiana, ponendo evidentemente in secondo piano la possibilità di una interpretazione sociologica o politica e rendendo così nuovamente attuale la domanda di Brecht sulle officine Krupp o AEG.

Questo modello si ritroverà a lungo nella fotografia italiana. Ne è un esempio il progetto fotografico sulla dismissione di Porto Marghera che tra il 1997 e il 1999 vide coinvolti numerosi autori italiani e stranieri, non di rado concentrati a restituire la fascinazione dello spettacolo industriale o al contrario la seduzione della sua rovina[14]. Se questi lavori vanno letti anche come una critica alle retoriche umaniste e come rimeditazione sull’immagine (non solo fotografica) dell’industria novecentesca, essi ci insegnano anche i limiti di una prospettiva esclusivamente “paesaggistica” sul mondo attuale. Strumento di osservazione delle superfici, la fotografia sembra perdere molte delle sue prerogative davanti a un mondo opaco, vischioso, nel quale i segni esteriori cambiano lentamente rispetto alle strutture profonde che rivestono. A differenza del passato, oggi il paesaggio che vediamo attraversando in auto un distretto industriale non ci dice più molto riguardo ai proprietari effettivi dei capannoni o dei camion parcheggiati negli ampi piazzali, sui flussi finanziari e i mercati di vendita dei prodotti, sugli stipendi, le famiglie, i figli, le prospettive di vita, i desideri delle persone che la mattina hanno varcato il cancello d’ingresso di uno stabilimento e che ora stanno sedute in un ufficio pulito davanti allo schermo di un computer, o che tramite un quadro di comando stanno manovrando un macchinario complesso. Come osserva ancora Guerrieri, «un nuovo aspetto che emerge nell’analisi della trasformazione dell’umano all’interno dei processi di tecnicizzazione del mondo è dunque il tema delle nuove fatiche, che non sempre sono riconoscibili come tali, delle nuove esperienze del corpo al lavoro, della sofferenza e della sua rappresentabilità»[15].

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«Costruire qualche cosa»

Attardandosi per decenni a sottolineare la mimesis ingenua della fotografia[16], la critica dominante ha solitamente trascurato l’indicazione operativa suggerita da Brecht. «Costruire qualche cosa, qualcosa di artificioso, di predisposto» ha significato per noi, anzitutto, predisporre l’architettura della ricerca, rinnovando alcune domande di fondo sulle possibili reincarnazioni della fotografia documentaria: una pratica da sempre instabile, che evolve e si rimodula di fronte alla materia viva e ai contesti che ci si dispone a osservare. Quale contributo, dunque, può fornire oggi il discorso fotografico alla comprensione di fenomeni socio-economici complessi? Qual è la specificità delle fotografie rispetto ad altre forme di rappresentazione e di analisi? Esistono limiti della fotografia documentaria che possono essere colmati o verificati dall’interazione con altre discipline o altri saperi[17]?

Da queste premesse nasce la particolarità metodologica dell’indagine. Istituendo quattro gruppi di lavoro, ciascuno composto da uno studioso dei fenomeni urbani e territoriali e da un fotografo, si è tentata la verifica sul campo di un principio spesso dichiarato ma raramente praticato. Una storia accurata della celebrata fotografia del “paesaggio contemporaneo” in Italia potrebbe accertare, infatti, quanto la collaborazione tra fotografia e urbanistica sia stata a lungo tanto centrale nell’argomentazione sociale sulla necessità dei progetti di documentazione (spesso finanziati con risorse pubbliche), quanto ineffettuale dal punto di vista degli esiti raggiunti. Anche sul versante degli studi urbani la riflessione è stata tutto sommato ridotta e dedicata perlopiù alla rappresentazione dell’architettura, ovvero di oggetti e spazi circoscritti che eludono la dimensione civica e politica dell’immagine[18]. Nel 1984, introducendo il volume Rappresentazioni dell’Enciclopedia di urbanistica e pianificazione territoriale, Francesco Indovina osservava: «La fotografia a certe condizioni può anche essere un rilevante strumento di indagine, di analisi, di costruzione di repertori documentari. È proprio dentro l’arco indagine-comunicazione che si sviluppa la possibilità dell’uso del mezzo nei processi di riorganizzazione territoriale. Elemento primo per l’osservazione, strumento finale per la comunicazione comunitaria»[19]. Tuttavia queste “condizioni” sono state raramente definite. La fotografia ha continuato a essere utilizzata nel discorso urbanistico «sia a scopo di analisi, che a quello più politico della comunicazione»[20], senza tuttavia una particolare consapevolezza metodologica[21]. Proprio a partire dagli anni Ottanta, numerose campagne fotografiche basate sul principio della moltiplicazione o della convergenza degli sguardi iniziavano a sedimentare centinaia di immagini evocative ma dallo statuto documentario debole, importanti per lo sviluppo di una nuova cultura fotografica ma spesso generiche nella definizione delle linee d’indagine, non corredate dai dati più elementari di identificazione geografica e cronologica, infine relegate in archivi non sistematizzati o rapidamente disperse dopo la presentazione ai pubblici locali in mostre e pubblicazioni dal carattere più consolatorio che analitico.

Nell’immaginare un intreccio tra saperi visivi e disciplinari, questa ricerca ha inteso comunque restituire una fiducia di fondo a quella figura di osservatore riflessivo che è il fotografo dei luoghi. Proprio l’inevitabile parzialità dei suoi prelievi dall’esperienza vissuta, la tensione tra la soggettività intrinseca del suo punto di vista e la destinazione pubblica della sua azione, la ripetizione dubbiosa delle sue osservazioni, costituiscono ancora oggi i caratteri più attuali di questo attore sociale di fondazione ottocentesca. Lo spazio del fotografo – o per meglio dire: lo spazio istituito dal discorso fotografico – può considerarsi oggi costitutivamente moderno e socialmente attuale proprio in quanto «esposizione all’interazione e alla sua incertezza»[22]. Si tratta di un’incertezza che investe l’atto di esplorazione che il fotografo (così come il cittadino) conduce in prima persona, attraverso il proprio corpo, sull’ambiente sociale come «campo di forze»[23]; ma si tratta anche di un’incertezza riflessiva che l’immagine può generare nel cittadino-spettatore disposto a sviluppare un’«immaginazione sociologica»[24] e a ripensare una propria «coscienza di luogo»[25].

Un’ulteriore particolarità del lavoro fotografico che continuiamo a ritenere fertile è la sua necessaria adesione a un’esperienza localizzata che resiste alla progressiva deterritorializzazione dei fenomeni. Non si tratta solo di un discorso ormai consolidato sul recupero della piccola scala, sul guardare dal basso[26], sulla lentezza, sul cammino[27]. Come notava August Lösch, è un carattere precipuo dell’homo œconomicus quello di agire entro un campo di informazioni e di razionalità limitate: «Solo perché non siamo egualmente vicini a tutte le cose; solo perché non tutte le cose ci arrivano addosso contemporaneamente; solo perché il nostro mondo è ristretto […] possiamo, nella nostra finitezza, sopravvivere. […] La profondità dev’essere acquistata con la ristrettezza. Lo spazio crea questa limitazione e ci protegge. La particolarità è il prezzo della nostra esistenza»[28]. Ponendosi come alter ego dell’individuo sociale moderno – dunque non solo come tecnico dell’osservazione – il fotografo può consentirci di saggiare le profondità spesso invisibili dei nostri campi d’esperienza, apparentemente già noti e poco significanti.

Un altro aspetto centrale e ancora attuale che la ricerca fotografica documentaria ha elaborato nel corso del Novecento è la capacità di muovere da queste osservazioni locali per costruire rappresentazioni complesse. Si tratta, spesso, di dispositivi generati dall’assemblaggio di materiali verbo-visivi (fotografie, documenti archivistici, carte topografiche, dati statistici, ecc.) che si completano vicendevolmente e offrono prospettive diverse sugli stessi soggetti. Rielaborando tradizioni formali e narrative note (il collage, il pastiche, il formato testo/immagine, la poesia visiva, la narrative art, il fotomontaggio, il montaggio cinematografico), queste opere consentono di restituire e far interagire le diverse voci che compongono il discorso pubblico sui luoghi: descrizioni dal basso e figure del potere, immagini tecnico-disciplinari e memorie private, narrazione storica e attualità politica.
Questo approccio pluralistico e costruttivista muove da un postulato che merita di essere richiamato: è lo scetticismo nei confronti delle retoriche comunicative unilaterali dell’immagine singola e iconica (tipiche del sistema dell’informazione, della cultura del consumo, della propaganda politica), a cui si contrappone una fotografia documentaria intesa come articolazione di un discorso in qualche misura “aperto”, che spetta in ogni caso a un pubblico attivo di percorrere e interpretare. Le forme concrete di queste elaborazioni sono quelle della serie, della sequenza, del fototesto, del fotolibro, dell’allestimento espositivo[29]. Quando non si riduce al piacere fluido del caleidoscopio, questa frammentazione del montaggio documentario può divenire in effetti, brechtianamente, «qualcosa di artificioso, di predisposto»: un campo semantico in cui i “vuoti” di silenzio, le pause, le interruzioni risultano altrettanto fondamentali dei “pieni” informativi delle singole immagini. Chiedendoci di spostare la nostra attenzione da una fotografia all’altra o da una pagina all’altra, di procedere per così dire a salti, questi montaggi possono talvolta evocare, se non propriamente descrivere, le strutture percettive che ritmano le nostre esistenze: i rapidi spostamenti in luoghi diversi, l’avvicendarsi delle interazioni con altri soggetti, le cadenze sincopate del tempo quotidiano, i movimenti ripetuti dei corpi nel contatto con macchine, dispositivi, ambienti.

Sulla base di queste premesse, alle quattro coppie di ricercatori è stato delegato il compito di individuare, attraverso la riflessione teorica e il lavoro sul campo, non solo i temi e le modalità, ma anche le forme di presentazione della ricerca, in una collaborazione di metodi che si è auspicato potessero rimanere «coeguali, reciprocamente indipendenti, e pienamente collaborativi»[30]. Difficoltà e squilibri di questo dialogo sembrano nascere primariamente dal divario ermeneutico tra le immagini dell’urbanista e quelle del fotografo. Mentre le prime sono solitamente fondate sul riconoscimento di variabili predeterminate, sull’analisi di dati accertabili e su una restituzione codificata, le seconde esprimono piuttosto diffidenza nei confronti delle categorie generali, privilegiano l’osservazione di indizi rispetto alla raccolta sistematica dei dati e propongono rappresentazioni polisemiche[31]. Benché le fotografie non possano argomentare, ma solo indicare e mostrare selettivamente, il loro contributo maggiore – specialmente nel rapporto con altre discipline – consiste proprio nell’aggregare micro-informazioni ed evidenziare relazioni a carattere locale, operando come potenti generatori di domande più che come compiuti sistemi discorsivi o esplicativi. In definitiva, è nella capacità del fotografo di mettere a fuoco, organizzare e rendere leggibili queste domande di ricerca – ancora una volta, nel «costruire qualche cosa» – che si gioca la produttività della sua esplorazione di città e territori come bricoleur intuitivo o come “saggista” informato[32].

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Nuove ricerche

Le quattro coppie di contributi presentate in questo volume sono altrettanti tentativi di elaborare nuove dialettiche tra saperi scientifici desiderosi di verifiche in loco e un sapere empirico come quello della fotografia che, viceversa, può suggerire ipotesi di lettura a partire dal dato indiziario[33]. Le parti saggistiche e quelle fotografiche vanno dunque considerate unitariamente: come le fotografie non illustrano pedissequamente i dati forniti nei testi, così dalle parole non ci si deve attendere una spiegazione delle immagini. Ognuno dei due approcci è parziale e non trova necessariamente completamento nella controparte. I fotografi, in particolare, hanno rinunciato intenzionalmente a ripetere immagini e narrazioni del lavoro già consolidate, preferendo indagare, per quanto possibile, aspetti inediti dei rispettivi casi di studio.

Muovendosi entro i confini dell’Interporto di Bologna, Allegra Martin ha esplorato una delle più grandi piattaforme della logistica emiliana. In quest’area di 400 ettari situata a nord del capoluogo, tra i comuni di Bentivoglio e di San Giorgio di Piano, quasi 120 aziende occupano oltre 5.000 dipendenti, generando un movimento giornaliero medio di 5.000 TIR in entrata e in uscita. La sequenza fotografica privilegia l’osservazione degli spazi alle varie scale, procedendo in modo lineare dall’esterno verso l’interno, ma suggerendo continuamente un rapporto inscindibile tra vicino e lontano, merci e flussi, staticità e impermanenza. Così al di là degli svincoli di accesso e dei vasti magazzini prefabbricati emerge l’orizzonte geografico ed economico della regione; nuvole bianche nel cielo azzurro sembrano scorrere veloci sopra le forme squadrate di autotreni e container immobili negli spiazzi; gli stessi camion, a prima vista tutti uguali, sono case viaggianti provenienti da luoghi lontani; gli spazi tra i magazzini sono vissuti dai camionisti di passaggio, nei tempi di attesa per il carico e lo scarico, come scorci di natura e di paesaggio; negli uffici, lo sguardo degli impiegati si alterna tra la concretezza dei documenti stampati e i dati che scorrono nelle finestre luminose degli schermi dei computer. L’immagine finale può essere vista come la metafora o la mise en abyme di una condizione più generale: navi in bottiglia e mezzi di trasporto miniaturizzati in teche di plexiglass sono disposti su un tavolo all’interno di un ufficio vetrato; inquadrati al di là delle finestre, anche i container allineati nei piazzali possono sembrare modelli in scala di una realtà più vasta.

Nella “packaging valley” tra Parma e Bologna, Nicolò Panzeri osserva la progettazione, la produzione e l’utilizzo dei nuovi materiali per il confezionamento degli alimentari. Le fotografie, lasciando in secondo piano le attività manuali ancora fondamentali per alcune lavorazioni, si concentrano sulle sofisticate tecnologie utilizzate per garantire le condizioni igieniche e preservare le qualità dei cibi nella lunga catena che arriva al consumo finale. Ma più che l’immagine esteriore dei prodotti studiata per attirare l’occhio degli acquirenti nei luoghi di vendita, le immagini si insinuano nella “pelle” interna delle confezioni, in un confine tra organico e inorganico che spesso rimane nascosto alla vista. Attraverso uno sguardo estremamente preciso, memore della nuova oggettività degli anni Venti, e un montaggio per associazioni, la serie mostra l’ordine minimale degli ambienti, il controllo delle luci e dei colori negli spazi di lavoro, la geometria delle strutture e dei macchinari, le textures dei materiali. Ritornando ancora una volta a Walter Benjamin, si potrebbe dire che «questi luoghi non sono solitari, bensì privi di animazione […] come un appartamento che non ha ancora trovato gli inquilini nuovi»; le immagini offrono una «provvidenziale estraniazione tra il mondo circostante e l’uomo» che «libera il campo per l’occhio politicamente educato, un campo in cui tutte le intimità scompaiono a favore del rischiaramento del particolare»[34].

Andrea Simi presenta una serie di casi di studio relativi alla formazione dei lavoratori nel distretto ceramico di Sassuolo. Il formato testo/immagine, nel quale blocchi di fotografie si alternano a didascalie informative, viene utilizzato per sottolineare la problematicità della rappresentazione fotografica del lavoro e per rendere esplicite le domande dell’indagine. «La descrizione dei tempi del lavoro è complessa – scrive Simi –, quelle che in fotografie singole potrebbero apparire pause, in una sequenza si leggono come momenti di concentrazione e partecipazione massima al processo produttivo». Coerentemente con questa premessa di metodo, la ripetizione delle immagini viene utilizzata come strategia di analisi del processo lavorativo. Negli studi ottocenteschi di Marey e Muybridge, e poi in quelli sui gesti dell’addetto alla macchina condotti a inizio Novecento da Frank Gilbreth, la scomposizione e la ricomposizione fotografica dei movimenti erano finalizzate a individuare i gesti significativi e a minimizzare le pause improduttive. Qui, al contrario, la cronofotografia viene attualizzata per dilatare i tempi a prima vista “morti”, nei quali il lavoro si sostanzia in forme di attenzione sensoriale piuttosto che in azioni meccaniche. Come ricorda ancora William Guerrieri, il ruolo del corpo nei processi produttivi contemporanei è decisamente mutato rispetto al passato: «nel lavoro digitale, nella supervisione dei sistemi di controllo delle macchine e anche nel lavoro immateriale, dunque, il corpo è la sede delle facoltà cognitive-relazionali e, possiamo aggiungere, è anche una sorta di interfaccia fra l’individuo e il sistema organizzativo nel quale opera»[35].

La frammentazione delle immagini nello studio dei tempi del lavoro è una strategia che si ritrova anche nella ricerca di Andrea Pertoldeo sui processi di innovazione nel settore terziario. Qui tuttavia la moltiplicazione delle osservazioni è condotta in modo a prima vista asistematico, mentre il soggetto d’indagine è dato effettivamente dalle pause di tempo “libero” – Tra dieci e trenta minuti – di cui i dipendenti possono godere con una certa elasticità nella nuova organizzazione aziendale. Le fotografie suggeriscono che questa liberazione controllata non solo dei tempi, ma anche degli spazi di “inattività” ricreativa è funzionale a una nuova psicologia del lavoro: una condizione che offuscando la distinzione classica tra vita lavorativa e vita personale capitalizza il senso di appartenenza, l’identificazione con l’azienda e le dinamiche di gruppo. Ricomposte sulla pagina in costellazioni aperte, queste fotografie invitano a letture trasversali per una nuova antropologia del lavoro: lontani dall’efficientismo macchinista, i gesti delle mani, le posture dei corpi, i movimenti degli sguardi si ritrovano quasi identici di fronte alla postazione di un computer e nell’utilizzo di uno smartphone, nel faccia-a- faccia di un brainstorming e in una pausa-caffè all’aperto. Allo stesso tempo, come osserva Michela Pace, le osservazioni indiziarie sono state utilizzate nel processo congiunto della ricerca come triggers per illuminare questioni più ampie: alcune situazioni fotografate – un sottopasso ferroviario che connette il Parco Innovazione di Reggio Emilia al resto della città, il comfort di un vecchio divano memore di incontri e dialoghi tra attori sociali, le finestre degli uffici che guardando sul paesaggio circostante evocano apertura e trasparenza – hanno assunto il valore di metafore per «individuare i temi utili a decostruire il processo che ha portato alla formazione del progetto, le ambizioni territoriali, le retoriche, le aspettative» aziendali.

Lontane da qualsiasi pretesa di esaustività, queste indagini intendono riaprire una riflessione metodologica sulla fotografia documentaria in un’epoca in cui la sua efficacia è messa in crisi dalla deterritorializzazione dei fenomeni, ma soprattutto da un sospetto talvolta pretestuoso per l’immediatezza del guardare, da una fascinazione stereotipata per l’“immaginazione”, da forme superficiali di “impegno” e manifestazioni retrive di pseudo-concettualismo. Il tema del lavoro nell’epoca contemporanea, affrontato con ambizione e responsabilità dagli otto ricercatori che hanno dato vita a questa ricerca, può essere visto a sua volta come l’indizio di tendenze più generali che riguardano tutto il campo del visibile e della visione nella difficile esperienza che viviamo. E tuttavia, parafrasando Maurice Merleau-Ponty, si potrebbe dire per la fotografia, come per la pittura, che i problemi che essa pone, «quelli che magnetizzano la sua storia, vengono spesso risolti per vie traverse, non lungo la linea di ricerca che li aveva inizialmente posti, ma quando i pittori [o appunto, i fotografi], al fondo di un vicolo cieco, sembrano dimenticarli e si lasciano attirare altrove, e poi improvvisamente, in piena diversione, li ritrovano e superano l’ostacolo»[36]. Sarebbe un risultato paradossalmente positivo se questo progetto avesse individuato, se non l’ostacolo da superare, almeno il vicolo cieco da cui rimettersi al lavoro.

Note

[1]. G. Ferraro, Rieducazione alla speranza. Patrick Geddes planner in India, 1914-1924, Jaca Book, Milano, 1998, p. 75.
[2]. J. Ribalta, El espacio público de la fotografia. Ensayos y entrevistas, Ayuntamiento de Barcelona, Instituto de Cultura de Barcelona, La Virreina Centre de la Imatge y Arcadia, Barcelona, 2018, p. 11.
[3]. T. Serena (a cura di), Spaziomerci, Silvana, Cinisello Balsamo, 2002; N. Leonardi (a cura di), Luoghi della cura. Fotografia e committenza pubblica all’Ospedale Sant’Agostino-Estense di Modena, Silvana, Cinisello Balsamo, 2005; W. Guerrieri, S. Munarin (a cura di), Welfare Space Emilia, Linea di Confine, Rubiera, 2013. [4]. A. Sekula, «An Eternal Esthetics of Laborious Gestures», Grey Room, n. 55, primavera 2014, p. 26.
[5]. . Brecht, Der Dreigroschenprozeß (1931), cit. in W. Benjamin, «Piccola storia della fotografia» (1931), in Id., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 1966, pp. 75-76 (i corsivi sono nel testo).
[6]. W. Guerrieri, Corpi e macchine al lavoro, dattiloscritto inedito, 2021, s.p. Il testo accompagna la serie omonima, esposta da Linea di Confine alla Corte Ospitale di Rubiera (3 ottobre 2021-9 gennaio 2022) nel quadro del progetto Jobs. Nuove forme e spazi del lavoro nell’Emilia centrale, insieme alla ricerca Centrali logistiche alimentari di Michele Borzoni e ai lavori dei partecipanti al laboratorio di fotografia tenuto dallo stesso Guerrieri (Vilma Bulla, Giovanni Cecchinato, Stefano Forti, Matteo Montaldo, Fabio Morassutto, Leonardo Stefani e Silvia Vespasiani).
[7]. G. Berengo Gardin, L. D’Alessandro, C. Zavattini, B. Corà, G. Giannotti, Dentro il lavoro, Electa, Milano, 1979. Il volume faceva seguito a un altro progetto editoriale improntato in modo analogo: G. Berengo Gardin e L. D’Alessandro, C. Zavattini, G. Alario, P. Carbonara, Dentro le case, Electa, Milano, 1977. Per un esempio della persistenza dell’approccio reportagistico nella rappresentazione del lavoro operaio, si veda U. Lucas (a cura di), FLM. La storia, le immagini, Petruzzi, Città di Castello, 1994.
[8]. Cfr. B. Brecht, Domande di un lettore operaio, in Id., Poesie e canzoni, Einaudi, Torino, 1962, p. 88 e A. Sohn-Rethel, Lavoro intellettuale e lavoro manuale. Per una teoria della sintesi sociale, Feltrinelli, Milano, 1977 (pubblicato originariamente nel 1970 con il titolo Geistige und körperliche Arbeit. Zur Theorie der gesellschaftlichen Synthesis).
[9]. G. Berengo Gardin, L. D’Alessandro, C. Zavattini, B. Corà, G. Giannotti, Dentro il lavoro, cit., pp. 56-62.
[10]. A. Accornero, U. Lucas, G. Sapelli (a cura di), Storia fotografica del lavoro in Italia 1900-1980, De Donato, Bari, 1981.
[11]. A. Accornero, Il lavorare quotidiano, in ivi, pp. 5-26.
[12]. A.C. Quintavalle, Il lavoro e la fotografia, in ivi, pp. 309-333.
[13]. Cfr. G. Basilico, Ritratti di fabbriche, SugarCo, Milano, 1981 e successive edizioni.
[14]. P. Costantini (a cura di), Venezia-Marghera. Fotografia e trasformazioni nella città contemporanea, Charta, Milano, 1997 e S. Mescola (a cura di), Identificazione di un paesaggio. Venezia-Marghera. Fotografia e trasformazioni nella città contemporanea, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, 2000. Per un approccio ancora una volta differente all’immaginario socio-economico globalizzato delle zone industriali, si veda invece il portfolio di L. Baltz, Venezia Marghera, Steidl, Göttingen, 2013.
[15]. W. Guerrieri, Corpi e macchine al lavoro, cit., s.p.
[16]. Cfr. B. Stiegler, Montagen des Realen. Photographie als Reflexionsmedium und Kulturtechnik, Wilhelm Fink Verlag, München, 2009, in part. il cap. “Die eigentliche Realität ist in die Funktionale gerutscht”. Kapitalismuskritik und Photographietheorie, pp. 75-76.
[17]. Riprendo in parte, parafrasandoli, gli interrogativi espressi recentemente in K. Coleman, D. James, J. Sharma, «Photography and Work», Radical History Review, n. 132, ottobre 2018, pp. 1-22.
[18]. Non mancano, naturalmente, le eccezioni a questo quadro. Si veda, a titolo di esempio, quanto proposto in S. Munarin, M.C. Tosi, Tracce di città, FrancoAngeli, Milano, 2001 e le osservazioni (anche se non sempre pienamente documentate) in P. Orlandi, Visioni di città. La fotografia tra indagine e progetto, Bononia University Press, Bologna, 2014. Per una critica più ampia, cfr. W. Guerrieri, Attualità del documentario, in R. Valtorta (a cura di), Luogo e identità nella fotografia italiana contemporanea, Einaudi, Torino, 2013, pp. 214 sgg.
[19]. F. Indovina, Introduzione. Dei possibili usi delle rappresentazioni, in G. Abbate et al., Enciclopedia di urbanistica e pianificazione territoriale, vol. 8, Rappresentazioni, FrancoAngeli, Milano, 1984, p. 35.
[20]. Ivi, p. 33.
[21]. Una eccezione di rilievo, anche se per una cronologia anteriore e per un tema di carattere differente quale l’“invenzione” dei nuovi centri storici italiani, rimane l’attività di Paolo Monti a Bologna alla fine degli anni Sessanta. Per una prima introduzione si veda Aa.Vv., Paolo Monti e l’età dei piani regolatori (1960-1980) , Alfa Edizioni, Bologna, 1983.
[22]. G. Ferraro, La città nell’incertezza e la retorica del piano, FrancoAngeli, Milano, 1990, p. 41. Utili spunti anche in L. Bovone, Tra riflessività e ascolto. L’attualità della sociologia, Armando, Roma, 2010, p. 35: «L’osservatore riflessivo è cosciente di stare dentro al campo che sta osservando, ma non riesce ad osservare il suo oggetto e se stesso contemporaneamente».
[23]. Ivi, p. 44.
[24]. Intesa come possibilità di «restituire all’individuo […] la capacità di raziocinio (la ragione sostanziale) che sola gli consente di resistere alla manipolazione e di collegare ambienti e difficoltà privati ai problemi strutturali della società»: G. Marsiglia, «Prefazione», in Ch. Wright Mills, L’immaginazione sociologica (1959), Il Saggiatore, Milano, 2018, p. 8.
[25]. W. Guerrieri, «Encargos, fotografía y crisis de la representacíon política territorial», in F. Gierstberg (a cura di), Paisajes enmarcados. Misiones fotográficas europeas 1984-2019, Museo ICO, Madrid, 2019, pp. 219-241.
[26]. «Il movimento “allargato” del corpo del fotografo nello spazio urbano […] può in altre parole essere considerato come una sorta di progetto “implicito”»: S. Boeri, «Movimenti dello sguardo», in U. Lucas (a cura di), Storia d’Italia, Annali 20, L’immagine fotografica 1945-2000, Einaudi, Torino, 2004, p. 404.
[27]. Cfr. ad esempio D. Cinciripini, S. Marchionni, «Fotografia indifesa, alcune considerazioni sulla rappresentazione fotografica in cammino», in L. Lazzarini, S. Marchionni (a cura di), Spazi e corpi in movimento. Fare urbanistica in cammino, SdT Edizioni, s.l., 2020, pp. 95-107, disponibile online su (http://www.societadeiter ritorialisti.it/).
[28]. A. Lösch, Die räumliche Ordnung der Wirtschaft (1940), in G. Ferraro, La città nell’incertezza e la retorica del piano, cit., p. 44.
[29]. M. Cometa, R. Coglitore (a cura di), Fototesti. Letteratura e cultura visuale, Quodlibet, Macerata, 2016; G. Carrara, Storie a vista. Retorica e poetiche del fototesto, Mimesis, Milano, 2020.
[30]. J. Agee, «Prefazione», in J. Agee, W. Evans, Sia lode ora a uomini di fama (1941), Il Saggiatore, Milano, 1994, p. 25.
[31]. Il riferimento, qui, è al processo di “generalizzazione” cartografica che consente di adattare sistemi di dati a scale differenti. Ma si veda anche M.L. Bianca, La mente immaginale. Immaginazione, immagini mentali, pensiero e pragmatica, Angeli, Milano, 2009, in part. pp. 253 sgg.
[32]. «In ogni caso queste forme di sapere erano più ricche di qualsiasi codificazione scritta; non venivano apprese dai libri ma dalla viva voce, dai gesti, dalle occhiate […]. Una sottile parentela le univa: tutte nascevano dall’esperienza, dalla concretezza dell’esperienza. In questa concretezza stava la forza di questo tipo di sapere, e il suo limite – l’incapacità di servirsi dello strumento potente e terribile dell’astrazione»: C. Ginzburg, Miti, emblemi, spie. Morfologia e storia, Einaudi, Torino, 1986, p. 181.
[33]. Per un esempio recente di questo approccio si veda M. Caneve, Are They Rocks or Clouds, Fw:Books e OTM, s.l., 2019. Considerazioni di rilievo riguardo alle tendenze recenti nell’indagine fotografica sul territorio, in particolare sui temi ambientali, sono in A. Botto e L. Cantarella, «“Giocatori divergenti”: strategie fotografiche per il New Climatic Regime», RSF. Rivista di studi di fotografia, n. 11, 2020, pp. 122-146.
[34]. W. Benjamin, «Piccola storia della fotografia», cit., p. 71.
[35]. W. Guerrieri, Corpi e macchine al lavoro, cit., s.p.
[36]. M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito (1964), SE, Milano, 1989, p. 62.