Era il 1971 quando, presso Einaudi,
uscì la storia della letteratura tedesca
del maestro dei germanisti italiani,
Ladislao Mittner. Nell'ultimo volume
dì quell'opera capitale, dedicato al dopoguerra, Hans Magnus Enzensberger occupava una notevole sezione, precedendo, tra
le voci dello sperimentalismo del dopoguerra, Martin Walser, Uwe Johnson, Günter Grass e altri. Poco più che quarantenne,
Enzensberger veniva presentato da Mittner
come «il poeta tedesco più originale e vigoroso, ma anche il più lucido ed intransigente polemista degli ultimi dieci anni» e definito niente meno che «il Brecht della Bonn
degli anni Sessanta». Forse con un velo di
ironia, lo studioso italiano aggiungeva che
il giovane poeta e saggista si divideva tra
Germania e Norvegia: in patria s'impegnava
a combattere la sua lotta contro «l'inumana
"industria della coscienza"», nella sua casa
sull'isolotto davanti ai fiordi si riposava in
un contesto più semplice e autentico.
Enzensberger, morto giovedì 24 a 93 anni, era nato nel 1929 in una cittadina della
Baviera, Kaufbeuren, aveva studiato Filosofia ad Amburgo e alla Sorbona, si era laureato sulle poesie di Clemens Brentano. Nel
1961 era stato inserito in un'importante antologia di nuovi poeti e già nel 1964 una sua
raccolta venne pubblicata in Italia da Feltrinelli, grazie a Enrico Filippini, che segnalò a
Franco Fortini i versi del giovane scrittore
tedesco (Poesie per chi non legge poesia apparve nella collana poetica del Gruppo 63).
Una corrispondenza epistolare tra i due
(edita di recente da Quodlibet) testimonia
le affinità più politiche che estetiche tra
Fortini ed Enzensberger negli anni in cui
l'uno traduceva le poesie dell'altro: in realtà
Enzensberger era troppo vicino alle avanguardie per piacere senza riserve all'amico
Fortini, avversario giurato di ogni sperimentalismo. Sempre in quei primi anni.
Sessanta, ancora grazie alla mediazione di
Filippini, Enzensberger tradusse infatti per
la casa editrice Suhrkamp (di cui era redattore) le poesie di Edoardo Sanguineti, in un
perfetto e più coerente scambio tra le due
nuove avanguardie europee, da una parte il
Gruppo 47 tedesco, di cui Enzenberger era
capofila, dall'altra il Gruppo 63 italiano.
A quel tempo Enzensberger viaggiava
sulla cresta dell'onda della sinistra tedesca,
essendo precocissimo autore di saggi critici
sul neocapitalismo, sul crescente militarismo occidentale, sulle storture del «miracolo economico», sulla società dei consumi
che «consuma i consumatori» (rendendoli
strumenti docili), sullo sfruttamento della
coscienza oltre che del lavoro, sul rapporto
perverso tra politici e crimine. Le poesie appartenevano a quel clima ma con un
tratto del tutto peculiare rivendicato
sin dagli esordi: in contrasto con i
formalismi contemporanei, Enzensberger dichiarava la sua adesione
ai contenuti e alla facoltà comunicativa del linguaggio, sulle orme del
modello brechtiano. Nessuna chiusura e un'attenzione costante al lettore, a cui spesso il poeta si rivolge
direttamente con un tono insieme
affabile e drammatico: «non leggere odi, figlio mio, leggi gli orari ferroviari:/ sono più esatti, spiega le
carte nautiche,/ prima che sia troppo tardi. sii vigile, non cantare./ verrà il
giorno in cui riaffiggeranno liste di nomi/
sulla porta e ai dissenzienti tracceranno sul
petto/ un segno distintivo». È sempre ben
presente, nella voce di Enzensberger, l'incubo di quel che è stato e il presentimento di
ciò che potrebbe essere, ma con toni colloquiali e mai enfatici.
Poeta, autore di saggi, di pamphlet, di romanzi, di inchieste storiche, di drammi teatrali, scrittore per l'infanzia, Enzensberger è
stato anche attivo come operatore culturale
(in uno dei suoi ultimi libri, Tumulto, del
2014, ricostruì in forma diaristica i viaggi,
gli incontri, i fermenti, le delusioni politiche e private degli anni Sessanta). A lui si
devono due riviste antitetiche tra loro nello
spirito e distanti nel tempo: «Kursbuch»,
periodico radicale simile ai nostri «Quaderni piacentini», e «Transatlantik», vicino
nello spirito al «Diario» di Piergiorgio Bellocchio e Alfonso Berardinelli, una volta
esauriti gli entusiasmi e gli eccessi della politica. Tra le tante idee che hanno animato la
vita di Enzensberger, raccontate in un libro
memorialistico del 2011, I miei flop preferiti
(ironicamente destinato alle generazioni
future), c'è anche un progetto italiano risalente ai primi anni Sessanta: una rivista internazionale, intitolata «Gulliver» e immaginata da tre gruppi di scrittori. (italiani,
francesi e tedeschi), uniti dal desiderio di
promuovere una nuova letteratura e un movimento critico d'ampio respiro. Dell'iniziativa rimane un interessante scambio epistolare a cui parteciparono con Enzensberger,
che doveva coordinare l'equipe tedesca, Elio
Vittorini, Italo Calvino, Francesco Leonetti,
Maurice Blanchot, Ingeborg Bachmann,
Pier Paolo Pasolini, Martin Walser, Jean Starobinski e altri (i materiali furono raccolti
nel 2003 in un numero della rivista «Riga»).
Pur conservando un'impronta di impegno morale e di disincanto, Enzensberger
rimane essenzialmente uno sperimentatore di generi. Nel 1975 esce con Mausoleum,
una raccolta di 37 ballate, in versi e in prosa,
«tratte dalla storia del progresso» e dedicate ad altrettanti personaggi storici della
scienza e della filosofia: dall'orologiaio di
Padova, il trecentesco Giovanni de' Dondi,
all'inventore dell'elettroshock, un altro italiano, Ugo Cerletti, passando per Campanella, Leibniz, Linneo, Spallanzani... Ne viene fuori un bilancio alquanto disperante
dei tentativi umani di dominare la natura,
spesso improntati al delirio di onnipotenza
e alla mostruosa paranoia.
Giustamente, il nome di Enzensberger, ai
più, evoca immediatamente un poemettocapolavoro del 1978 in 33 canti, che si inserisce nel solco del pessimismo radicale verso la modernità: La fine del Titanic affronta
quello che Cesare Cases, nella prefazione all'edizione Einaudi, definisce «l'episodio che
dai contemporanei venne sentito come una
prova generale della fine del mondo in atto
unico», ovvero la celebre collisione e il conseguente naufragio del 13 maggio 1912. È
sempre Cases a cogliere lo spirito di quel
componimento drammatico, risalendo all'epoca di «Kursbuch», quando Enzensberger scrisse che se ci sembra che la fine del
mondo non sia ancora arrivata è perché in
realtà non arriva una volta sola e per tutti
ma si avvicina «a rate, a pezzi e bocconi, in
tempi e luoghi diversi», annunciata dall'ombra lunga della follia che soverchia ampiamente ogni progresso. In definitiva il
quadro è freddo, desolante, senza speranze:
«Rottami, frammenti di frasi,/ cassette
vuote, grosse buste commerciali/ bruni,
fradici, rosicchiati dal sale,/ estraggo dai
flutti dei versi,/ dai cupi, caldi flutti/ del
mar dei Caraibi,/ dove pullulano gli squali,/ versi esplosi, salvagenti,/ vorticosi souvenirs». Più in là, con la vecchiaia, la «musica» di Enzensberger, in versi e in prosa,
avrebbe assunto una saggezza più lieve e irridente, una specie di «allegretto» che al
fondo si rivela non meno disperato («La
mattina le strade son gremite/ d'individui
che, senz'estrarre coltelli,/ vanno avanti e
indietro in tutta calma/ per acquistare latte
e rapanelli./ Come nella pace più totale./ È
un gran bel vedere»).
Infine c'è un altro Enzensberger, lo scrittore per ragazzi: una sua favola, scritta a
quattro mani con Irene Dische, è l'incantevole Esterhazy. Storia di un coniglio, dove
non riconosciamo più il fustigatore feroce
della politica. Ma soprattutto il libro che
nessuno si sarebbe aspettato è arrivato nel
1997 con Il mago dei numeri, un bellissimo
romanzetto illustrato, «un libro da leggere
prima di addormentarsi dedicato a chi ha
paura dei numeri»: la sorpresa è che il vero
mago è il suo autore, capace di trasformarsi
in Andersen e in Lewis Carroll per avvicinare i suoi giovani lettori alla matematica (la
traduzione del rimpianto Enrico Ganni merita una menzione di riconoscenza). Dopo
averci prefigurato tanti incubi, Enzensberger ha aperto la strada al sogno, dove i numeri non sono più quelli dei conti economici e dei folli calcoli degli scienziati, ma un
gioco affascinante e fine a sé stesso.