Recensioni / Lo Stato secondo Santi Romano

Tra i principali saggi della dottrina italiana dello Stato occorre annoverare L’ordinamento giuridico di Santi Romano, da qualche tempo ripreso da Quodlibet. La prima edizione uscì nel 1918. L’editore maceratese ne riproduce ora la versione aggiornata del 1946. Quest’opera inoltre ebbe fortuna nel resto d’Europa e fu tradotta in lingue diverse. Nato a Palermo nel 1875 e morto a Roma nel 1947, Santi Romano è noto per essere stato allievo di Vittorio Emanuele Orlando, e per aver ricoperto le cattedre di diritto amministrativo e di diritto costituzionale presso diversi Atenei italiani. Egli fu anche nominato regio senatore, Presidente del consiglio di Stato e membro dell’Accademia dei Lincei. Tra le sue opere principali va annoverata a riguardo Lo Stato moderno e la sua crisi (1910), dal cui titolo si può evincere quale fosse l’argomentazione più diffusa della giurisprudenza di allora. Nonostante le illusioni suscitate dalla Belle Époque, l’Europa si trascinava verso la guerra totale con l’erosione di quella stabilità creatasi al tempo del Congresso di Vienna. In politica interna e per la scienza giuridica, ciò significava l’avvenire di una svolta radicale anche nella struttura costituzionale dello Stato.
L’ordinamento giuridico è composto da due fascicoli originariamente pubblicati sugli “Annali delle Università toscane” nel 1917 e nel 1918. La prima parte si concentra nel conferire un significato concettuale più chiaro al termine di «ordinamento giuridico», già molto diffuso tra i contemporanei dell’autore. In proposito, va ricordata l’opposizione tra la teoria di Hans Kelsen e quella di Carl Schmitt, seppur quest’ultimo maturò in seguito degli studi affini alla teoria istituzionalista di cui discute Romano: fu proprio il giurista di Plettenberg a dedicare uno studio su I tre tipi del pensiero giuridico (1934), ossia normativismo, decisionismo e per l’appunto istituzionalismo. Volendo rifuggire da concetti fuorvianti del diritto, per Romano, l’«ordinamento giuridico» va considerato come «unità concreta» del diritto, da porre gerarchicamente al di sopra dei meri concetti di «norma» e «decisione». Per quanto riguarda la legge, essa altro non è che un postulato di questo insieme di «elementi» giuridici. Egli specifica che il diritto «anzitutto deve ricondursi al concetto di società in due sensi reciproci», ovvero «ubi ius ibi societas» ed «ubi societas ibi ius». L’«ordinamento giuridico» è equivalente alla «istituzione concepita come persona giuridica» (pp. 37-39).
Bisogna considerare quindi l’ingresso pervasivo della sociologia nel dibattito accademico d’inizio secolo: Romano ne fu consapevole, sempre rimanendo pienamente un giurista, intendendo l’«istituzione» come «corpo sociale», «organizzazione sociale» ed «unità ferma e permanente». Rispetto all’etica, allora reputata largamente come principio di fondazione dello Stato, il giurista siciliano la ricongiunge al diritto obbiettivo, in quanto quest’ultimo ritenuto l’oggetto generatore della forma statale. Rispetto invece al diritto internazionale, sempre più preponderante nelle dinamiche – non soltanto esterne – degli Stati, Romano si concentrò sul fatto evidente della volontà di mantenimento o meno della cosiddetta comunità internazionale: questa facoltà non poteva che essere affidata ai membri stessi legati da rapporti di reciproco interesse. Gli Stati, a loro volta, hanno raggiunto la propria formazione da un «procedimento pregiuridico», mentre egli riteneva «il diritto internazionale come una tela di Penelope», poiché «si ricomincia a tessere ex novo ad ogni accordo normativo» (p. 65).
Nella seconda parte, Romano descrisse la «pluralità» degli ordinamenti giuridici, partendo da una riflessione sul concetto hegeliano di Stato. Tuttavia, egli affermò che «il concetto del diritto si determina perfettamente senza quello dello Stato, al contrario non è possibile definire lo Stato senza ricorrere al concetto di diritto» (p. 101). Dunque, lo Stato rimane l’istituzione principale tra tutte le altre. Romano ha distinto in questo modo le competenze del diritto statale rispetto al diritto internazionale ed al diritto ecclesiastico, seppur questi ultimi coinvolti in un continuo ed inevitabile confronto con il primo. Tra le svariate istituzioni, l’autore ha annoverato anche quelle illecite, poiché al loro interno si pongono in modo analogo allo Stato, ma con lo scopo di contrastarlo e sostituirlo nell’ambito del dominio della società. Vengono analizzati gli enti – e le relazioni tra essi – che agiscono nell’economia e nell’organizzazione associata dei cittadini, la famiglia ed i Comuni con i loro regolamenti interni. A fronte della dinamicità di questi soggetti, si accorse che il diritto non poteva rimanere in posizioni fisse e irreversibili, con il rischio di perdere ogni efficacia, ma che esso dovesse tener conto dei fattori contingenti con l’obiettivo di ristabilire la legittimazione della sovranità.
Come già detto, Carl Schmitt accolse volentieri l’istituzionalismo di Romano, ma entrambi i giuristi erano debitori degli studi “magistrali” di Maurice Hauriou: Francia, Italia e Germania si ritrovarono pertanto accomunate da condivisione ed uso di questo nuovo concetto giuridico. Ciononostante, nella trattazione del giurista siciliano trapela indubbiamente l’eredità del patrimonio culturale del diritto romano. Dal punto di vista del contesto storico d’inizio Novecento, egli rispose agli interrogativi posti sul ruolo dello Stato, considerando il pieno rivolgersi contingente di cambiamenti straordinari. Il libro contiene in nota numerosi riferimenti bibliografici commentati dall’autore, tra i quali, oltre ai sopracitati, Otto von Gierke, Georg Jellinek, Heinrich Triepel, Donato Donati, Piero Calamandrei, Dionisio Anzilotti e Benedetto Croce. Infine, va aggiunto che, qualche decennio più avanti, sarebbe stato Costantino Mortati a promuovere ulteriormente il pensiero istituzionalista nel processo costituente della Repubblica italiana, donando così alla filosofia del diritto di Romano una caratteristica di continuità che perdura sino ad oggi.