Il nome di Franco Fortini, poeta e scrittore, saggista, impegnato sia sul piano della critica letteraria sia su quello della società e della politica o – meglio – impegnato sul piano che dovrebbe qualificare ogni intento di scrittura in relazione alla politica e alla società in cui viviamo, interessa di per sé il cultore di letteratura; e tanto più dovrebbe interessare il comparatista se questo nome viene proiettato sullo sfondo della poesia europea e sulla traduzione della poesia europea. Ma il sottotitolo di questo volume, Riscritture di autorialità, appare subito non meno attrattivo, anche per il suo implicito collegare e trasferire su un piano teorico l'operazione del tradurre con quella più sfrangiata e complessa del ‘riscrivere’; ed è proprio il problema della riscrittura a prendere il campo ad apertura di libro e a occupare un buon terzo dell'intero volume, sia perché di indubbia attualità nell'ambito della critica – e bisognoso tuttavia di riflessioni che ne circoscrivano l'applicabilità – sia perché proprio in Fortini la sua importanza non appare certo secondaria.
Ma cosa vuol dire riscrivere, e soprattutto quanti sono i modi per farlo? Fantappiè aveva già affrontato la questione nel volume curato qualche anno fa da Francesco de Cristofaro Letterature comparate (Roma, Carocci, 2014), e riprende sostanzialmente qui le pagine di allora, chiarendo subito che «il concetto di riscrittura è diventato un iperonimo tanto ampio quanto vago» (p. 27), che tenta di circoscrivere un fatto di natura «paradossale» (30), e a cui corrisponde, innanzi tutto, «una autorialità complessa e ibrida» (31).
Più autori sono infatti in varia misura responsabili del prodotto, più linguaggi vi risultano coinvolti, più intenzioni di cui l'ultima non conferma necessariamente la prima. La riscrittura definisce un testo, ma è insieme un processo, è ripetizione e insieme è ri-creazione; e Fantappiè illustra con vari esempi la natura ibrida e polimorfa di un'operazione che finisce spesso per trasferirsi dal piano letterario a quello degli altri media e delle arti visive, e a caratterizzarsi per tagli, cambiamenti, trasferimenti di luoghi, di tempi, di piani del discorso o della rappresentazione: tutti aspetti che interessano la composizione non meno che la ricezione di un testo, e dove può essere addirittura quest'ultima a influenzare o promuovere la prima.
Riscrittura vuole anche dire parodia, e non necessariamente satira. L'una e l'altra attuano «una ricodificazione o, come scrive Linda Hutcheon, una trans-contextualization» (42); altre nozioni che vengono chiamate in causa dal rewriting (Lefevere) sono quelle di interferenza (Itamar Even-Zohar) e di manipulation (Theo Hermans), e Fantappiè insiste in particolare sul ruolo cruciale che il rewriting svolge «nell’evoluzione del sistema letterario di cui fa parte» e nella «canonizzazione di specifici autori o opere » (48). Strettissimi, inoltre, sono i rapporti con la traduzione, e problematici – come accennavo – quelli con l’idea di ‘autore’: «le riflessioni intorno al concetto di autore sono concordi nell’affermare che esso corrisponda a una autorialità costruita (dall’autore e/o dal contesto in cui opera)» (61), e Fantappiè ulteriormente argomenta che «l’autorialità, proprio come i testi, può essere costruita imitando, cioè imitandone un’altra»; anzi, la storia della letteratura «è costituita per lo più da figure autoriali non create ex nihilo ma derivative», con le quali si riprende e si adatta «un’autorialità esistente per formarne una propria» (62).
È a partire da quest'ultimo concetto che viene indagato il lavoro di Fortini e che viene messo in luce, proprio nelle sue traduzioni, l'intento di appropriazione che in vari casi le caratterizza e ne fa, non senza prevaricazioni, strumento di affermazione di una poetica che è, prima che del traduttore, dei maestri che egli riconosce. Precisato il quadro teorico cui Fortini attinge e in particolare le consonanze con il Folena di Volgarizzare e tradurre (che ricorda l'impossibilità di «parlare di “teoria della traduzione” se non come parte di teorie generali della letteratura», nonché il fatto che «non si dà teoria senza esperienza storica»; 71-72), Fantappiè sottolinea il tentativo di entrambi «di porre le basi per un approccio “terzo” alla traduzione» (75), capace di conciliare le opposte istanze dell'adesione alla lingua dell'originale o a quella della cultura d'arrivo; e osserva come sia proprio nella riscrittura che Fortini, «stretto tra l'urgenza di portare avanti il proprio ragionamento teorico e la consapevolezza che la propria prassi traduttiva possa non corrispondervi in pieno» (72), trovi un superamento di tale contrasto.
È un superamento che avviene tuttavia – e
Fantappiè lo mostra soprattutto nelle traduzioni raccolte nell’autoantologia Il ladro di ciliege – come imposizione di una «marcatura brechtiana» ai testi, e che mira a una «messa a distanza», a una «visione oggettivante del mondo» (95), oltre a implicare, nel momento stesso in cui si fa «strumento di costituzione di un’autorialità» (97), «una polemica con l'idea di creazione» (98).
Non possiamo qui seguire le argomentazioni con cui l’autrice analizza, anche attraverso interessanti ricostruzioni storico-critiche, le soluzioni proposte da Fortini per autori come Enzensberger, Karl Kraus, Heine, Baudelaire (anche non facendosi scrupolo di «operare modificazioni di senso»: 119): l’indagine è sempre intelligentemente e spesso persuasivamente condotta, e mostra ad esempio come Fortini adotti per Enzensberger moduli brechtiani nient’affatto graditi a un autore che voleva proporre altra immagine di sé; o come Heine, dal Carducci visto e paragonato nelle movenze della sua poesia a un «fiorentino ducentista», assuma nella traduzione di Fortini un tessuto ritmico «tutt’altro che cantabile» (107), e venga altresì accompagnato da una nota critica che rafforza l’implicita interpretazione traduttiva.
La scelta ‘distanziante’ non appare tuttavia la sola, e Fantappiè fa giustamente notare come, a proposito di Rilke, Fortini si astenga «dall’impiegare l’effetto straniante del modello sintattico-metrico di matrice brechtiana» (122); e dunque come, per quanto egli tenda nel Ladro di ciliege «a modellare o rimodellare – per via di traduzioni – la propria postura autoriale», nondimeno rifugge «il pericolo della fissità della maschera, e vuole mostrare di aprirsi al dialogo con gli autori ai quali si relaziona» (121).
Soprattutto le sue “traduzioni immaginarie”, confermerebbero secondo l’autrice la volontà di «praticare poetiche (il che, sul piano concreto del testo, significa: di compiere scelte lessicali, motiviche, ritmico-metriche) lontane dalla propria, o meglio: lontane da quelle associate alla propria postura autoriale» (133). Direi tuttavia che, in questa ‘pratica’, i casi sono diversi uno dall’altro, e che non sembrano riconducibili a un’unica intenzione. In quello del presunto Isiao Cien – ‘tradotto’ nel 1945 sul «Politecnico», o nei versi di Varsavia presenti in Foglio di via – si direbbe ad esempio che l’intenzione sia semplicemente di accreditare l’esistenza di voci portatrici di istanze che sono le stesse del ‘traduttore’; mentre con la poesia Illuso da quest’orbita Fortini fingerebbe
– secondo Fantappiè – «di tradurre un poeta straniero – Rimbaud – col quale ha, sotto ogni punto di vista, ben poco a che spartire; e, ancor più sorprendentemente, lo fa producendo una imitazione di un poeta italiano a lui contemporaneo – Montale – sul quale non ha mai taciuto le proprie riserve, e che costituisce sotto molti punti di vista un avversario nel campo letterario nel quale Fortini opera». Più che di un dubbio caso di ‘sperimentazione’ a me pare tuttavia che si tratti, qui, di concedersi attraverso una maschera ciò che lederebbe la propria costruita ‘autorialità’; perché – diciamolo – quel risentimento che Fortini alimenta in se stesso contro l’idea astratta della bellezza e della musica è anche il sintomo di una realtà tuttavia amata, nient’affatto estranea alla sua poesia e del resto mai negata fino in fondo: e la riscrittura diventerebbe allora interpretabile come “ritorno del represso”.