Giancarlo Gaeta, storico del cristianesimo, rigoroso esegeta delle Scritture, critico e curatore dell’opera di Simone Weil, ha raccolto in due libri, saggi e articoli scritti dal 1995 al 2021. Il tempo della fine e In attesa del regno possono però essere considerati un solo importante testo storico-religioso che misura con l’ampiezza di sguardo adeguata agli attuali tempi impervi l’argomento della vita cristiana nella sua originaria indifferenza alle identità mondane e alle provenienze genealogiche.
Il pensiero di Gaeta, qui disteso nell’insieme dei temi dell’escatologia che attrae intensamente la riflessione sul cristianesimo alla scadenza della storia, percorre l’ingente eredità dei problemi di fede nella soglia che separa e connette impegno etico e prassi collettiva. Questa apertura di campo consente di trasporre i contenuti teologici rilevanti nella costituzione della dottrina nella originale esperienza del credere che è critica del mondo, crisi, ricerca continua dalla periferia del senso, di una Parola intesa alla sovversione e alla continua mutazione di sé in rapporto alla realtà.
Di questa esperienza i testi letterari, filosofici, mistici e dell’arte danno conto fin dall’antichità. Ma sia che si nomini il fuori o l’interiorità, il dramma o il salto, il vuoto o l’espressione del divino nell’esaltazione, nella preghiera o nella derelizione, in alcuni momenti quotidiani o nella pratica pubblica ciò che avviene riporta l’esperienza al confronto con la storia, cioè a dar conto della posizione occupata dalla soggettività in una certa epoca storica.
In questa situazione d’esistenza, tesa tra l’originario evento dell’Evangelo e il presente mondano, la distanza tra Gesù e i venti secoli dopo Cristo è a tal punto stellare da aver traslato sempre più nel corso dei secoli l’escatologia in apocalittica.
Oggi dunque parliamo di cristianesimo intendendolo come una forma di sapere che ha subìto la frantumazione dell’esperienza originaria. Le conseguenze di questa situazione sono il diluirsi del credere nella vicenda individuale quotidiana che ne azzera la “pericolosa” verticalità, e l’esibizione di una forma regressiva di ritualità tradizionale in cui si coagula una nefasta identità cristiana, ad uso e consumo della ricchezza e dell’odio per il diverso; o la giustificazione del regime neoliberale della vita secondo la recente teologia statunitense della prosperità propugnata dall’evangelismo neo-pentecostale.
La lettura del cristianesimo promossa negli anni da Gaeta propone invece uno stile di riflessione e di indagine intorno alla situazione-limite in cui ci si trova, credenti e non, nel momento in cui si prende atto della scadenza temporale, – che per un verso permette di fuoriuscire dalle schematiche definizioni di appartenenza religiosa, e per l’altro implica la replica al presente della distanza tra la rottura messianica del Cristo e l’esistenza quotidiana nel secondo decennio del XXI secolo.
É dunque sul piano dell’indagine storico-critica e non su quello che ruota nell’orbita dell’elaborazione personale, che rischia di rimanere invischiata nel grumo opaco di una sterile autoanalisi, che Gaeta ha battuto luoghi imprevisti in cui teologia e percezione, pensiero ed esperienza dissolvono i confini rispettivi in un sapere dell’anima che manifesta il suo senso fragile.
Leggendo le due raccolte si riconosce che il cristianesimo è rottura dell’ordine del discorso, delle istituzioni e delle concezioni religiose costituìte, come è stato per Simone Weil, Michel de Certeau, Ivan Illich, ed è ritorno ad un’escatologia primitiva in cui la contestazione del mondo trova nei segni del tempo la bellezza del creato e il silenzio che chiama.
Questa lettura implica due operazioni: separare Gesù dalla dogmatica ecclesiastica e leggere la storia del cristianesimo come storia delle esperienze in cui lo spirito è conosciuto come tale. Dall’esemplare osservazione di Simone Weil che le religioni possono essere comprese dall’interno e giudicate dall’esterno, deriva un’indagine intorno all’esperienza delle prime comunità cristiane, alla mistica, alle eresie, che risultano altrettante fratture dell’impianto teologico a partire dalle quali prendono forma saperi, pratiche di fede, comunità che dai margini rivendicano l’appartenenza religiosa contro una pretesa identità cristiana.
Il tema è la rimozione dell’escatologia da parte della Chiesa cattolica. L’origine evangelica del cristianesimo “è stata presto fossilizzata nella sua esemplarità di luogo dogmatico, teologico, esegetico e quindi non più compresa per ciò che essa propriamente è stata”. L’assetto dell’istituzione ecclesiastica assume oggi un peso insostenibile essendo più acuta la percezione di vivere un tempo della fine in cui lampeggia l’istanza messianica.
Il primo effetto dell’attuale crisi epocale – il mondo in rovina, la terra devastata, il governo planetario della vita – è la revoca della condizione di esistenza dei viventi, e questa emergenza rende omogeneo il dominio dei mercati, riproduce la guerra elevandola al rischio nucleare, innalza muri e fili spinati, respinge e uccide.
D’altra parte il cristianesimo in frantumi asseverato da Michel de Certeau agli inizi degli scorsi anni Settanta ha liberato una spiritualità diffusa e un movimento verso la trascendenza che assume forme inedite di condivisione, di accoglienza e momenti di comunità. Tra gli esempi, gli spazi sociali organizzati da giovani cattolici in Francia raccontati in un testo seminale, La communion qui vient, oppure l’elaborazione teorico-politica delle “officine Tronti”, la riflessione di Fabio Milana, la recente esperienza di elaborazione politico-spirituale della rivista “quieora” e di altre riviste che affrontano i nodi essenziali della presenza al mondo. Una estesa fenomenologia del credere attraversa la laicità; comportamenti “cristiani” di atei si manifestano in forme di cura, scrittura e meditazione e in pratiche di vita “francescana” in cui studio, poesia, arte divengono forme di preghiera in contrasto al mondo.
La prima raccolta di scritti di Gaeta, Il tempo della fine, è incentrata sulla figura di Gesù nei Vangeli e mostra i nodi più intricati del rapporto tra figura escatologica e teologia. Si tratta anzitutto di una presa di posizione in Cristo che disloca il consueto quadro concettuale che assegna ai saperi i limiti delle diverse discipline e alla conoscenza delle Scritture l’ambito settoriale privilegiato degli studi religiosi.
I comportamenti “folli” di Gesù secondo i suoi familiari, l’essere posseduto dai demoni secondo i farisei, l’essere “fuori di sé”, mostrano qualcuno che “si collocava in una dimensione sociale anomala, che ne faceva uno sradicato indegno di reputazione, ma socialmente e religiosamente pericoloso nella misura in cui la sua predicazione otteneva grande risonanza”.
La rottura con la famiglia, il clan, il villaggio deve esser stato il movente iniziale della vocazione escatologica di Gesù, da quel momento non più ricondotto alle relazioni tradizionali codificate. Quel momento sembra però prevedere sia la croce sotto la quale gli insulti e le accuse di follia sono replicate, sia la crisi messianica in cui sono coinvolti i discepoli in ragione dell’attesa del Regno ed impone la continua rielaborazione del senso delle parole del Cristo da sottrarre allo spiritismo e ricondurre alla storia.
Allora l’escatologia si dipana tra resurrezione e parusia e il tempo ultimo è la temporalità sottratta ad una scadenza e ricostituita di continuo al presente dal momento che il Messia è il mistero della non coincidenza delle immagini con la verità della persona. Il tempo al tramonto era già alla nascita di Gesù, ed è forse in questa scadenza che acquista senso l’insurrezione contro il mondo, – “Sono venuto a portare un fuoco sulla terra!”, e l’invocazione contro le istanze di pacificazione: “Non sono venuto a portare la pace ma la spada!”.
Si tratta inoltre dell’esodo dalla società dei morti e la decisione di Gesù per la vita dimostra il suo “radicalismo escatologico”. Rigore estremo della condotta e della predicazione e rigore della sequela sottoposta a dure condizioni non possono essere negoziate né da una sapienza nè da un’etica moderata.
Ciò comporta “essere nel mondo ma non del mondo” come è detto nella lettera A Diogneto, cioè una pratica di vita che suppone lo sguardo sullo spettacolo mondano: “passa la scena di questo mondo”.
Questa convinzione è stata il segno della sequela; tutto l’universo delle relazioni è come visto dal di fuori. Occorre “porsi fuori del mondo in tutta la misura possibile per riconoscere chi patisce la violenza e rendersi partecipe della sua condizione”.
Il Regno non verrà, ma viene, non in un altro tempo ma nel mondo giudicato “secondo la magnifica intuizione di Matteo 25. Il giudizio universale si compie ora, giorno dopo giorno, atto dopo atto, lungo l’estensione di questo tempo. Il mondo come assetto sociale finisce di già in forza di questi atti, perché sono essi…a compiere il giudizio. In questo senso l’ordine di Gesù al seguace può essere inteso altresì come un invito a occuparsi d’ora in poi dei vivi piuttosto che dei morti”.
In questo senso il tempo altro è il tempo della fine, di ogni fine, ma per essere còlto questo tempo deve essere considerato nella distanza tra l’epoca di Gesù e l’attuale, tra tempo storico delle origini e cristologia altrimenti la parola “tende ad appiattirsi fino all’ovvietà”. Se “si prescinde dal contesto viene meno la percezione della distanza che separa un avvenimento reale dalla sua interpretazione”. Già la distanza tra l’evangelo di Marco sulla “follìa di Gesù” e quelli di Matteo e Luca intorno agli stessi gesti, e la distanza tra il portato mistico del vangelo di Giovanni e il cristianesimo istituzionalizzato, mettono in rilievo la differenza cristiana “a vantaggio più dei credenti come singoli e come comunità d’amore che non delle chiese istituite”. Da questa distanza giungono a noi scarti e sdrucciolamenti nella comprensione del tessuto disomogeneo e fratturato del cristianesimo.
Un primo scarto è tra la morte di Cristo e i racconti degli evangelisti. Un secondo è nella differenza di scrittura e di accento tra i diversi Vangeli. Un terzo tra i Vangeli e la ricezione all’interno delle prime comunità cristiane; la distanza tra eventi e significati attribuiti alla Parola nel corso delle epoche e il presente denota quindi lo scarto tra adesione individuale, rito e partecipazione comunitaria alla Chiesa.
Questo accento provoca anche un’altra intenzione che consiste nell’aprire alla comprensione sensibile delle Scritture prima che intellettuale, nel non ridurre l’ascolto alla ricezione della Parola “dall’alto” ma nell’avvertire in sè i vuoti, i paradossi e la caduta dell’ordinaria percezione del mondo.
L’ascolto sensibile di una parola incarnata genera la posizione personale nei confronti della storia dell’occidente, posizione che contesta la civiltà del dominio nell’erranza ed oppone alla norma dell’agire l’anomalia della vocazione.
Nella seconda raccolta, In attesa del Regno, la caratura del tempo della fine è più intensa perché Gaeta ha introdotto nella ricerca di questi anni figure e problemi che dal ‘900 giungono alle attuali generazioni. Ernesto Bonaiuti, Dossetti, Luciano Martini, Paolo Dall’Oglio, Wojtyla, Ratzinger, Francesco, Aldo Capitini, Pier Cesare Bori, Boltanski, l’artista Serena Nono, commentati alla luce della storia del cristianesimo, nella propria specifica differenza, si trovano sulla soglia che separa l’adesione alla teologia-politica dalla sua dismissione.
Il discrimine dichiara un’archeologia del cristianesimo nella realtà insieme pubblica e personale, ancora sull’esempio di Taubes, Weil, Certeau, Illich, nonché della teologia di Karl Barth, in una linea messianica della filosofia in cui convergono spiritualità e pensiero.
La posta in gioco nell’elaborare questa genealogia è la destituzione della teologia politica che è stata il testo della secolarizzazione, il cui effetto di ritorno è visibile nell’esercizio del potere e dei tradizionalismi.
Una controstoria della teoria politica che metta in questione la necessità del potere, tanto più nella forma attuale del governo dei viventi, non può che riferirsi alle riflessioni di Michel Foucault e di Simone Weil che nell’ Enracinement (La prima radice) subordina la nozione di diritto a quella di obbligo. Obbligo di accoglienza, condivisione, comune; obbligo che abbia la cogenza di demolire l’ipocrita retorica dei diritti umani presso le democrazie liberali e di pervenire ad una “dichiarazione dei doveri” presso teocrazie e regimi sanguinari. “Per una siffatta dichiarazione non abbiamo bisogno come Carl Schmitt di una teologia”, ma di disinnescare i dispositivi antropologici di governo delle anime. La rottura di cui de Certeau indicava la necessità, passa anzitutto all’interno delle chiese.
Nelle due lettere a Goffredo Fofi a cui è dedicata la raccolta, a proposito delle dimissioni di Benedetto XVI nel 2013, Gaeta scrive che viviamo “in un mondo disincarnato” e questo ha a che fare con il pervertimento che Ivan Illich vedeva nell’antico principio della corruptio optimi quae est pessima. “Il cattolicesimo ha scommesso sul potenziamento dell’istituzione per sopravvivere”. Il tentativo di realizzare il Regno come un potere mondano, di volta in volta imperiale, monarchico, dittatoriale, democratico-liberale, ha rovesciato la Chiesa in un’agenzia di servizi. Gli effetti della scelta sono la lontananza dalle realtà povere, dei diversi, dei senza nome.
Bergoglio assumendo il nome di Francesco sta cercando di ritornare alla parola del Concilio Vaticano II e per paradosso sta cercando di riparare l’istituzione richiamandosi alla forma di vita di colui che ne chiedeva il radicale rinnovamento. Sta comunque segnando una discontinuità nell’“uso del potere” con gesti e parole che incontrano il limite nella stessa istituzione ecclesiastica. Contro la guerra, per l’accoglienza, per la terra “casa comune”, per “l’amore politico”, – queste parole che non si erano più sentite dopo Giovanni XXIII denunciano il colpevole silenzio della politica mondiale. “Di siffatte parole potenti il nostro tempo ha bisogno, ma perché la Chiesa ne faccia uso legittimo deve lasciarsene impregnare, altrimenti risuoneranno a vuoto nel fluire indifferenziato del vaniloquio collettivo”. Questa prassi tradotta in ciò che si può credere chiede che la Chiesa scompaia come potere per essere comunione. E questa non è la speranza malvagia dell’anticristo laico ma la pronuncia messianica di una salvezza. Si tratta di un senso che risiede nell’esperienza di questi giorni che non è proprietà esclusiva delle chiese. Per riconoscersi cristiani “non è più necessario sentirsi in sintonia con il modo in cui la fede cristiana è interpretata dal potere ecclesiastico”.
D’altra parte l’attivismo politico, le esperienze di militanza “dal basso”, il rifiuto della delega, le istanze dei movimenti sociali e delle lotte degli scorsi decenni trovano eco nella ricerca di una forma di vita in cui da tempo sono destituite le appartenenze politiche e le costituzioni collettiva, mentre le singolarità emergono come persone politiche, come porta-parola della mancanza di comune, come attesa. Questo sembra il dono del mondo in rovina, una crepuscolare vicinanza a ciò che sappiamo dell’amicizia, dell’essere compagni e compagne perché fratelli e sorelle oltre la retorica dell’espressione.
La transizione possibile intrapresa da Papa Francesco e annunciata nell’Enciclica Evangelii gaudium coglie la Parola in conflitto con l’economia mondiale. L’indicazione è ardua e consiste nell’evitare di fare dell’annuncio cristiano un’etica. La prassi di Gesù non è stata innocente sul piano sociale e l’istanza dell’“amore politico”, cioè della condivisione del mondo comune, prevede di superare l’antropologia dell’umanesimo, che è l’altro nome del dominio, e di lasciarsi alle spalle la secolarizzazione che ha prodotto una filosofia politica dell’oppressione e della distruzione.
Una pratica della vita comune che risale alle origini incerte, travagliate, violente, del cristianesimo, segna il tempo nuovo di un ritorno sottratto alla ragione strumentale. Per questo qualsiasi cosa si pensi e si dica di Papa Bergoglio, “per capire cosa sta succedendo occorre una lettura non schiacciata sul presente”. Ciò significa forse molto di più e implica forse una replica al presente della conversione che avrebbe il senso che già de Certeau gli assegnava, di chiudere i duemila anni di cristianesimo e riportare la sequela di Gesù all’assenza di un luogo proprio. Un’esperienza tellurica sostituirebbe le garanzie di un “universo senza smentita” e riporterebbe alla crisi l’essere cristiani, perché crisi è l’essere di questo tempo in cui cadono il fondamento, l’identità, la società e il governo. Cadono perché la fine è continua, tragica, ironica, abissale, gioiosa, ed è terrestrità del sole, luce nella notte, attesa dell’aurora.
La pretesa all’universale si scontra oggi più di ieri con lo spirito che soffia dove vuole e chiede al presente come abitare un mondo in rovina. Un’antropologia “barbara” dell’amicizia echeggia, oggi più di ieri, nel “fate come non” di Paolo. Non più nella forma della setta o dell’utopia eretica, ma nella forma comune del creato, della terra e delle cose. Coloro che “usano il mondo” siano come non usandolo.
La questione cristiana dunque è quella della posizione in cui si trova chi oggi è straniero, in esilio permanente dalla modernità, in posizione geopolitica marginale: “il prossimo” abita nei dannati della terra. Il prossimo è il lontano che è presente, non il cittadino, – il prossimo è il residuo dei popoli che si può “lasciar morire”, è la politica mondiale soggetta al tempo che resta.
Il valore messianico del presente è la sua interna contraddizione. “Sono venuto a portare la spada” non è fomentare la guerra e le religioni armate, ma disattivare i dispositivi locali della politica mondiale. Il senso per l’attuale generazione è, scrive Gaeta, la pratica del giudizio “sostenuto dal desiderio di un fuoco che muti la faccia del mondo secondo giustizia. Non dunque un’accomodante concezione storico-salvifica buona a tutti gli usi…”, ma il gesto che risale la storia scoprendovi la genealogia dei conflitti nel tempo-ora in cui il passato echeggia nel presente. Il tempo compiuto è questo, in cui c’è da riconoscere una fede in cui la figura storica del Cristo regredisce al luogo in cui la memoria personale avverte del passato del mondo.
Un sentire riflessivo percepisce che né la predicazione di Gesù né quella dei suoi discepoli, né Paolo avevano il fine di costituire una nuova religione. Jacob Taubes ha scritto che il messianesimo di Gesù e di Paolo è l’annuncio del tempo che viene, tempo che dissolve il potere regolativo della legge sui corpi e sulle anime. L’ecclesìa è il luogo di questo annuncio ed è lo spazio in cui il singolo è in comune con e per gli altri. È, come ricordava Ivan Illich, il luogo dell’osculum, del bacio bocca a bocca nella conspiratio, il respiro comune nello spirito.
L’Evangelo è messianico perché “il passato non ha un significato autonomo ma solo in quanto è citato nella situazione presente”. L’attesa è l’evento in cui sono condensati i tempi, in cui il futuro è già accaduto come avvenire. L’attesa del Regno vuol dire che il regno è già qui, “in mezzo a voi”.
La genealogia messianica che in Taubes corre da Gesù a Paolo a Marcione, Shabbettai Tzevi, Jakob Frank, Walter Benjamin, è il segno dei tempi. Come ha acutamente scritto Giorgio Agamben qualche anno fa in Il tempo che resta, la vocazione messianica non ha un contenuto specifico ed è la revoca di ogni vocazione mondana, di ogni azione e di ogni finalità.
Nel saggio Messianismo e fine della storia Gaeta evidenzia il fatto che “nel tempo della fine nulla evidentemente permane di ciò che per propria volontà si costituisce”. Pensare il tempo della fine è vivere il tempo della fine, cioè “opporre alla volontà di potenza estesa a tutto l’ecumene una politica mondiale come nichilismo”. Benjamin nel Frammento teologico-politico definisce le due direzioni contrarie dell’ordine profano e del messianico coincidenti nella felicità come passione e della passione come tramonto del potere del mondo nel mondo stesso. Il tempo della fine arresta il dispositivo della produzione che è produzione consumatrice nel rito sacrificale della religione capitalista.
La vita messianica è vita che revoca la storia come sviluppo lineare e come decorso della volontà umana e risale all’origine della temporalità. La debole forza della vocazione è la potenza che trattiene. Ma a differenza di Carl Schmitt che individuava il kathekon nell’Impero e nella Chiesa, il potere che frena la venuta dell’anticristo è la storia in cui il tempo si contrae, ed è la prassi dei viventi impegnati contro i poteri mondani.
Il potere che frena non è un altro potere e non è un contropotere che contrasta il regime politico dei mercati; ma non è neanche un potere spirituale che si oppone alla produzione di consumo. Esso è, all’interno di questo potere, l’anarchia, il girare a vuoto dei poteri, l’opera discriminante e follemente autonoma di ogni forma di potere. Per questo “ciò che è accaduto nel ventesimo secolo impone un arresto in cui sia posta la domanda sul potere in termini radicalmente escatologici”.
Il potere che frena è nichilismo, che è la risorsa in cui l’attuale, inconsapevole forma di vita mondiale incontra la parola. Parola che è arte del vivere, pittura, canto, scrittura, azione teatrale, musica, poesia. Il nichilismo dei cristiani è insopportabile “perché nega significato alla radicale volontà di esserci…ma allo stesso tempo patisce in sè stesso la passione del mondo”. Sentire il mondo come creazione e la terra come redenzione. E avvertire che creazione e redenzione, mondo e terra si comprendono, si abbracciano. Che produrre è far morire mentre l’opera è far nascere, generare, far fiorire.
La compassione è la direzione messianica in cui il mondo si svela per come è. Il disincanto riguardo a qualsiasi fondazione distingue una vocazione non ridotta a ragione. “Non si tratta di elevarsi al cielo o di affondare nell’interiorità, ma di sfamare gli affamati; e allora il regno è presente, come un di più che è tutto”. Tra le rovine erba e gigli dipingono il suolo. Piccole specie non vogliono più edificare, costruire, annientare, ma cantare, ballare, amare.
Non si comprende mai abbastanza il “fate come non” della prassi messianica, che non è privarsi dell’opera nel mondo bensì la sua più piena affermazione, ottenuta però disattendendo l’imposizione dei compiti mondani, cioè rimanendo nella propria condizione. D’altra parte abitare una forma di vita esclusivamente individuale non scalfisce la presa sulla vita. “Passa la scena di questo mondo…ma non ancora sparisce, semmai si fa più incombente e tragica”. Il tempo che resta dopo la storia non è il tempo scarico di eventi, al contrario, è il tempo in cui si fanno più intensi i conflitti, in cui si acuisce la contrarietà a questo stato del mondo e in cui la violenza, le ingiustizie secolari, la politica mondiale emergono mostrando la radice delle cose.”. Di fronte a questa realtà si misura un modo impossibile di stare al mondo.