Recensioni / Liberare il tempo - Paul Bley e la trasformazione del jazz

Paul Bley non è sicuramente un nome di spicco quando si pensa ai grandi del jazz. Parlando di pianisti, quello di Keith Jarrett muove ben altri interessi e numeri. Eppure lo stesso Jarrett riconosceva un fortissimo debito stilistico verso lo stile giovanile di Paul Bley. Un musicista che, come spiega Stefano Zenni nella prefazione al volume Liberare il tempo - Paul Bley e la trasformazione del jazz, non proviene da una “scuola specifica” o da “un’area stilistica”: semplicemente il nostro ha attraversato – e spesso lo ha fatto da protagonista - varie fasi dellamstoria del jazz.

Nella sua biografia lo vediamo partire nelle orchestre, da adolescente a Montreal, nel suo Canada e poi quasi subito approdare a New York. Lì ha la possibilità di sentir suonare tutti, è un ambiente affollato e competitivo, ma ben presto si trova a dover scarrozzare in giro per concerti il numero uno, il sommo Bird, Charlie Parker. L’apprendistato comprende anche un tour con Lester Young che lascia in Bley un vivido ricordo: “la prima cosa che pensai fu che non avevo mai sentito un suono del genere” e ancora tanto lavoro con Charles Mingus e la scuola di Lennie Tristano. Si tratta degli anni eroici del jazz in cui sono ancora in attività i pionieri della prima generazione, tutti i bopper Bird compreso e stanno esplodendo i campioni di una nuova ondata.

A Bley capita di suonare nello stesso cartellone con Louis Armstrong.

Una sera trovai il coraggio di chiedere al proprietario del locale perché avesse scelto di mettere proprio noi in cartellone con Armstrong. «Avevamo bisogno di qualcuno che svuotasse il locale tra un set e l’altro», mi rispose.

In California avviene un primo furtivo incontro con il “James Dean del jazz”, Chet Baker, ma soprattutto si verifica quello decisivo con Ornette Coleman, Charlie Haden e Don Cherry. La musica sta per cambiare, in tutti i sensi.

In questa fase Bley smette di essere un sideman, come potremmo definirlo, e diventa protagonista della storia: come pioniere del pianoforte free, come organizzatore impegnato (The Jazz Composers Guild), come sperimentatore di nuove tecnologie (il sintetizzatore) o di nuovi media (la videoarte musicale).Nel percorso mise tutto il suo vissuto, frutto anche delle compagne dal grande talento che gli furono vicine (Carla Bley, Annette Peacock, Carol Goss).

Il memoir scorre veloce e i racconti musicali sono alternati agli aneddoti, divertenti, un po’ straccioni della vita in tour -non certo milionaria- dei musicisti del jazz d’avanguardia. A una simile routine si sopravvive solo con il giusto grado di humour e serendipità.

«Avevamo anche un test di sopravvivenza per i musicisti. Barry Altschul non lo conosceva ancora per cui decidemmo di metterlo alla prova. Il test consisteva nel prendere un musicista americano che non parlava nessun’altra lingua fuorché l’inglese e farlo scendere dalla macchina a mezzogiorno in una capitale europea. Per passare il test, entro mezzanotte doveva essersi procurato una ragazza, una macchina, un appartamento, qualcosa da fumare e un telefono. Se non ci riusciva, non poteva suonare nel mio trio».

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