Nel suo volume Corrado Claverini si pone il problema se esiste una
peculiarità del pensiero filosofico italiano, un elemento caratterizzante che
ovviamente non può consistere in una visione meramente nazionalistica
come se una filosofia si potesse rinchiudere all’interno di un mero contesto
geografico. Pertanto, «parlare di filosofia nazionale non vuol dire ridurre la
pretese di universalità della filosofia, considerandola un mero fenomeno
storico e geografico, ma significa essere consci che la verità, pur avendo
sempre una genesi particolare, mantiene la sua validità universale» (p.19). Il
che significa, a ben vedere, che la peculiarità del contributo deve comunque
andare ben oltre la nazione territorialmente intesa. In altri termini Claverini
afferma che la filosofia non si può ridurre ad una pluralità di filosofie
locali, ma occorre individuare una corretta conciliazione di nazionale e
universale (p. 23).
Alla luce di tali premesse, egli si sofferma su quattro filosofi, Bertando
Spaventa, Giovani Gentile, Eugenio Garin, Roberto Esposito, i quali hanno
offerto dei paradigmi del rapporto tra filosofia e nazione.
Per Spaventa, «il particolare è momento dell’universale e le nazioni
sono soltanto punti in cui sosta temporaneamente il pensiero nel suo eterno
cammino. In base a tale prospettiva, dunque, il concetto di filosofia
nazionale è ammesso solo nella sua relazione dialettica con l’universalità del
pensiero e, se si può parlare di una peculiarità della tradizione italiana, essa
risiede – appunto – nel precorrere prima e nell’inverare poi i più importanti
guadagni della speculazione moderna» (p. 33). Così la grande filosofia,
troncata in Italia con le condanne di Bruno e Campanella, dopo aver trovato
oltralpe grandi pensatori come Cartesio e Spinoza che ne riprendono lo
spirito, ritorna in Italia con i filosofi risorgimentali. Quella di Spaventa è
dunque, per Claverini, una storiografia militante in cui prevale il taglio
etico-politico.
Da parte sua, per Gentile «il concetto di nazionalità non contraddice
quello di universalità del pensiero e la storia della filosofia italiana […] è
ancora spaventianamente orientata dalla trascendenza medievale
all’immanentismo assoluto» (p. 38). Pertanto per il filosofo siciliano la
caratteristica della tradizione italiana filosofica sarebbe il processo di
immanentizzazione (p. 66): «dimostrare che l’intero svolgimento del
pensiero italiano aveva in sé, in nuce, la potente visione dell’idealismo in
cui tutto è portato a grande sintesi»(p. 81). La tradizione italiana della
filosofia diviene così, per Giovanni Gentile, un impegno etico, politico,
pedagogico.
Diversa in qualche modo la posizione di Eugenio Garin, il quale affronta
la questione più da storico che da teoretico. Ciò spiega il rigetto delle
categorie di unità, precorrimento e superamento e il riconoscimento della
«vocazione etico-civile» (p. 89). Claverini riassume in tal modo la posizione
di Garin: egli «evidenzia tanto i caratteri ricorrenti, quanto le irriducibili
differenze che contraddistinguono i principali movimenti di pensiero in
varie epoche storiche. […] Insomma […] vi è un’attenzione particolare per i
“piccoli problemi” – filosofici, morali, politici, civili – che sorgono dalla
concreta situazione storica» (pp. 97-98). Si tratta di una vocazione eticocivile su cui in vario modo convergono Giuseppe Cacciatore, Carlo Augusto
Viano, Remo Bodei e particolarmente Michele Ciliberto.
Al contrario Roberto Esposito sottolinea che la peculiarità del pensiero
filosofico italiano è il non-filosofico, la territorialità (pp. 106-107).
«Resistenza, esilio, assenza di vocazione nazionale: è questo la galassia
concettuale, che meglio definisce il pensiero italiano» (p. 109). Ed Esposito
cita la bio-politica presente in pensatori come Toni Negri, Agamben,
Cacciari, Vattimo e altri.
Dalla disamina svolta Claverini giudica ragionevolmente che «oggi è più
che mai necessario salvaguardare la pluralità delle tradizioni filosofiche e le
loro rispettive peculiarità per arginare quello che sembra un processo
inarrestabile: la riduzione delle culture e la loro uniformazione mondiale»
(p. 126). Infatti il suo discorso manifesta l’importanza della riscoperta delle
varietà culturali rispetto ad una soffocante omologazione. Ma l’autore si
spinge ancora oltre. Infatti, pur rilevando le diversità delle prospettive dei
pensatori su cui si è soffermato, ritiene che l’elemento comune che risulta
dall’indagine è che nella tradizione italiana emerge «il primato della ragion
pratica su quella teoretica»(p. 131). Sotto tale profilo il discorso di Claverini
tende anche lui a individuare una peculiarità – la tradizione appunto - che
costituisce un elemento trainante e positivo. Ed è opportuno a questo punto
rilevare che se tale elemento è meramente legato alla attenzione al
contingente, come in alcuni pensatori, difficilmente può avere un carattere
positivo in quanto è privo di quella forza unificante che è propria della
filosofia come ricerca (se non proprio come affermazione) della verità. Si
aggiunga che il concetto di tradizione implica una continuità storica che non
è riducibile all’essere meramente figli del momento, poiché l’impegno
educativo che è proprio della filosofia è andare oltre le seduzioni del
contingente, che poi è quella delle opinioni, di ciò che Spinoza chiamava il
primo (e il meno consistente) genere di conoscenza.
Per tutto questo il libro di Claverini, oltre a fornire una illustrazione di
alcuni significative tesi filosofiche, e quindi ad avere un’utile collocazione
all’interno della analisi storiografica, apre e mantiene un dibattito teoretico
per nulla secondario.