Il transito mite delle
parole. Conversazioni e interviste.
1974-2014, appena
edito da Quodlibet,
a cura di Marco Belpoliti e Anna Stefi, raccoglie
buona parte delle interviste di
Gianni Celati. Dentro al libro,
che è piuttosto corposo (644 pagine, euro 24), possiamo seguire
per quarant'anni il continuo variare e ritornare dei principali
interessi dello scrittore: il linguaggio e il precoce interesse
per la linguistica, l'arte del narrare e le sue differenti posture,
la filosofa, il rapporto col mondo, il rapporto con la fotografia,
il rapporto con il paesaggio, gli
incontri fortunati, il mettersi a
fare documentari e così via, la lista potrebbe essere lunghissima.
Per di più tutti questi centri di
interesse si incrociano e si riannodano continuamente, dando sempre luogo a nuove tappe
di un lungo cammino. Riassumere tutti questi materiali è
troppo difficile e le parole di Celati troppo belle. Proviamo
quindi a fare degli esempi in
cui mostrare alcuni di questi
nuclei di interesse.
Il potere del linguaggio
Partiamo per esempio dall'antropologia e da quello che può
mostrarci dell'effettiva potenza del linguaggio. In un'intervista con Rebecca West del 2007,
Memoria su certe letture, Celati ricorda un saggio di Lévi-Strauss,
L'efficacité symbolique, dove si
parla si un vecchio rituale usato dai Cuna nei casi di parti difficili. «Uno sciamano lo cantava,
e le sue parole narravano una
penetrazione negli organi genitali femminili come in un inferno mitologico, avendo l'effetto
di sbloccare l'utero e permettere il parto. Mi colpiva il fatto che
le parole potessero produrre simili effetti fisici, curativi». Quello che più colpiva Celati era che
questa pratica sciamanica trasformasse, attraverso il canto, il
linguaggio in un «campo affettivo, un campo di emozioni».
A quei tempi, negli anni Settanta, dice Celati, di "campo affettivo" e di emozioni non si parlava
mai e anche in riferimento ai testi letterari si parlava piuttosto
di "valore conoscitivo". Invece
nella visione del mondo dei Cuna, dove l'utero della partoriente si riempie di mostri che personificano i dolori del travaglio
del parto, il canto dello sciamano fornisce alla partoriente un
linguaggio per seguire le diverse fasi della sua esperienza. «Il
fatto fisiologico diventava intellegibile attraverso proiezioni fantastiche, dunque affettive: cioè un campo di emozioni
che aiutavano la partoriente a
superare un blocco organico».
Lévi-Strauss paragonava quei
processi a quelli della poesia
«definendoli una forma di "induzione" per trasformare le parole in effetti corporei. Il che mi
portava a pensare che questo
potesse essere il senso proprio
del lavoro letterario: un uso delle parole per produrre effetti curativi che sbloccano qualcosa,
nel corpo e nella mente»; ecco
dunque una pratica della lettura e della scrittura come terapia
e autoterapia.
Racconto e immaginazione
Sondiamo un'altra questione,
completamente diversa, che ha
molto interessato Celati: che
cos'è una novella? Che cos'è un
racconto? Un racconto è qualcosa che ti fa immaginare qualcosa, può essere «anche solo un
barbaglio di visione». Celati cita
per esempio la Divina commedia: in Dante «spuntano voci da
tutte le parti, e certe volte una
frase, due frasi, sono già racconti. Il racconto di Pia de' Tolomei
è lungo quattro versi. Un esempio più estremo si trova nel girone dei ladri, dove spunta questa
voce: "Cianfa, dove fia rinvaso?"
Letta nel suo contesto, quella
frase è già un racconto».
Senza aver bisogno di creare un
personaggio completamente
caratterizzato, dato uno sfondo
di voci e una certa circolazione
di parole, un contesto di altre
narrazioni, a volte basta soltanto una scintilla, un nome come
Cianfa per costituire una grande fantasticazione. Un altro
esempio Celati lo pesca dai Diari di Antonio Delfini: «"Se io sapessi scrivere dei racconti, dei
veri racconti, cioè ordinati convincenti attraenti, mi sarebbe
piacevole e facile parlare di Washington Caldini, di colui che
andava sotto il nome dell'attacchino folle...". Anche questo è
già un racconto, e quel nome,
Washington Caldini, detto l'attacchino folle, basta da solo a
farti immaginare un personaggio. È un frammento legato a
un modo di intonare le parole,
... per intuire uno sfondo verso
cui ci proietta».
Il paesaggio nel momento
Negli anni Ottanta Gianni Celati viene imbarcato da Luigi Ghirri e da altri fotografi nell'impresa di andare a cercare un nuovo
paesaggio italiano. Da quell'impresa nascerà il libro Verso la foce. Qual era il problema che Celati va scoprendo mentre realizza
questo lavoro? Celati cercava
«dei fatti di ordine sensibile, visivo, percettivo; e poi il fatto primario, che gli aspetti di un luogo li cogliamo come apparizioni». Se uno non fa questa esperienza, di un luogo vede soltanto le sue presupposizioni, cioè
che un luogo deve essere così e
così, come già sappiamo che deve essere. «In questo non si viene mai all'esterno, si resta sempre intrigati nelle nostre interiorizzazioni».
Celati scopre la differenza tra
prendere appunti sul momento, nel posto in cui sei, e poi scriverne a distanza. «Quando scrivi a distanza sei già nelle generalità dei discorsi, e tutto prende un aspetto di completezza
nel pensiero». A distanza si fa
avanti una teoria sulle cose che
hai visto che riempie tutti i buchi, e sostituisce le interrogazioni con le risposte. Invece all'aperto è tutto diverso: «Scrivi la
strada su cui vai, e quel che vedi
nelle cunette o ai lati della strada, e le case di abitazione che vedi intorno, e il tipo di traffico
che vedi, e il tipo di persone. Ti
guardi attorno, vedi cosa c'è per
terra, se asfalto o spazzatura o
altro, poi guardi l'orizzonte e vedi che rapporto c'è tra l'orizzonte e quel pezzo di terra dove stai
mettendo i piedi. Lì spunta il
senso del limite, che è anche il
senso delle visioni e delle apparizioni. Magari spunta solo nei
gesti della gente che vedi, nell'apertura dello spazio, o nelle rughe di un vecchio».
Alcuni filosofi hanno rilanciato questo problema: Husserl voleva ritornare »alle cose stesse»,
cioè ritrovare un possibile
«sguardo non determinato da
categorizzazioni rigide», visto
che l'abitabilità di un luogo
non può dipendere da modelli
scientifici, ma da elementi sensibili, percezioni e fatti visivi.
«Tutta la varietà e l'eterogeneità
delle cose viene cancellata attraverso certi nomi: New York. Parigi o Valle Padana. Quei nomi formano dei copioni, come uno
sfondo tramandato nel deposito del sentito dire». Il problema
è di riuscire a smontare l'apparato discorsivo intorno ai luoghi, per riuscire a vederli sul momento della loro apparizione.
Essere in relazione
Altra questione: che cosa siamo, ognuno di noi? Siamo tribù, come diceva Deleuze. E ci
stendiamo continuamente in
vari rivoli. «Non siamo mai esseri unitari. Siamo sparpagliati,
contraddittori, sempre in balia
di alti e bassi». Detto in altre parole l'uomo non è fatto tutto
d'un pezzo. E il mondo quasi
mai funziona secondo «alternative nette: sì/no, bene/male, vero/falso, io/gli altri». A questa
immagine di individualismo oltranzista, e forse di oggettività
rigida che lo rispecchia, bisogna sostituirne un'altra. Per
esempio siamo esseri che vivono dentro una lingua dove «si
parla sempre in due... ogni parlare nasce da una collaborazione. E le narrazioni, come le conversazioni, ci fanno capire che
noi siamo sempre esseri collettivi, e dunque in noi e negli altri il
narrare e l'ascoltare sono intricati e presi in una collaborazione con gli altri, che continua anche se siamo nella massima solitudine». Ma, come viventi e come animali, siamo sempre anche dentro un umore che ci porta di qua e di là: «Per concludere
dirò questo: la cosa che apprezzo di più nei libri è l'allegria. L'allegria è un tipo d'esuberanza
che può mescolarsi al dolore, alla disperazione, alla cupezza,
anche al pensiero della morte.
L'allegria è un moto espansivo
che abolisce la grigia indifferenza del mondo, e pochi fenomeni mostrano in modo così evidente la tendenza dell'individuo umano a proiettarsi fuori
di sé. In altre parole: l'allegria è
un modo essenziale dell'andare fuori di sé, verso l'esteriorità
di tutto ciò che non siamo: le cose, i sassi, gli alberi, le bestie, gli
spiriti dell'aria e il buio che è
dentro il nostro corpo».