Recensioni / Sulla persistenza di una Roma autentica

Roma, non altro (2022) è la nuova raccolta di scritti che Quodlibet dedica a Dolores Prato (1892-1983). Scrittrice e giornalista vissuta nell’arco del Novecento, ha messo in discussione la trasformazione di Roma appena diventata capitale d’Italia, attraverso uno sguardo in controtendenza rispetto alla storiografia risorgimentale. Con il titolo “Voce fuori coro” di Dolores Prato, nel 2016 era già uscito un altro volume più frammentato e vario negli argomenti. Entrambe le preziose pubblicazioni postume sono curate e commentate da Valentina Polci, studiosa e docente dell’Università di Macerata, capace di portare alla luce con rigore il vasto repertorio di manoscritti che hanno affollato i cassetti dell’autrice fino alla vecchiaia.
In Roma, non altro sono riuniti una trentina di brevi saggi giornalistici, di un’intensità inconsueta tanto per lo spessore di conoscenza (diretta e filologica) quanto per la qualità dei sentimenti. Dolores Prato ha un’ossessione: Roma. E non riesce a farsene una ragione: diventando capitale d’Italia la città ha subito una vera e propria devastazione, invece di essere compresa. Nel corso di tutta la sua vita Prato ha provato a parlare di questa profonda metamorfosi (urbana, culturale, morale) negli articoli usciti sui quotidiani. Non moltissimi e, seppure persistenti nel tema e nell’acutezza delle osservazioni, nemmeno molto apprezzati dagli editori.
I momenti epici della trasformazione della giovane capitale del Regno sono dissacrati da una Prato ormai ottantenne che, allo scoccare del centenario di Roma Capitale, non considera chiuso il conto con la storia. I testi controcorrente che vuole pubblicare sono frutto di diverse riscritture e sono raccolti in parte in questo volume, che ne chiarisce la genesi e i ricchi rimandi. Racchiuse dentro la copertina fucsia fiammante di Quodlibet (per la collana Storie) si ritrovano quelle parole rivolte contro i tradimenti operati nei confronti di una città che è vulnerabile alle forze del potere ma non si piega alle forze del tempo.

Qual è lo strumento che Dolores Prato usa per convincere dell’importanza di una persistenza autentica di Roma? Le ridondanze tra le diverse anime della scrittrice – cattolica, antifascista, antimonarchica, comunista – operano un’instancabile interrogazione dei quartieri, delle strade, dei monumenti. L’effetto è quello di un repertorio di immagini fuori dagli immaginari correnti, posate in uno stato di grazia su oggetti, paesaggi, manufatti urbani, molto o poco noti: il fiume, i colli, alcuni edifici, scorci da cartolina. Sono avvolti da questa luminosa visione della città persino alcuni personaggi del tempo, in cui la giornalista inciampa mentre porta avanti la sua inchiesta quotidiana a suon di passi e ricognizioni. Lo sprezzo e l’affetto si depositano sui luoghi di una città che sembra essere soltanto sua ma è molto più fedele a quella reale rispetto alle narrazioni e alle retoriche banalizzanti.
Bisogna avere il coraggio di disvelare e di non adagiarsi sui luoghi comuni. È un esercizio che si impara a fare mentre si leggono le descrizioni incredibili di parti di città dimenticate – o che non esistono più –, riportate in vita dalla perseveranza smascherante di questa scrittrice ancora troppo poco conosciuta. Tutto viene riconsacrato per mostrare che la più autentica natura di Roma – segreta come il vero nome, cui si allude nel primo saggio – forse non può essere mai conosciuta del tutto ma appare attraverso bagliori intermittenti. Non c’è una sola Roma, alta o bassa, dei colli o del Tevere: ce ne sono tante e le contrapposizioni non servono a definirla. Anche se Dolores Prato propende per la bellezza prerisorgimentale, al netto di tutti i rimproveri rivolti a chi non ne ha preservato l’integrità il punto non è stabilire nemmeno se Roma era meglio “prima” o “poi”. Il punto è convincersi della necessità di un patto nuovo tra parole e luoghi.
Il lavoro certosino di Prato infatti non è rivolto solo contro la distruzione e l’oblio dei luoghi ma soprattutto contro «la stanchezza delle parole», quelle parole grosse di cui ci siamo nutriti e con le quali «guerreggiamo», «intontiti» perché non ne conosciamo più il significato. L’esito di un patto tra luoghi antichissimi (o estinti) e parole vernacolari (da reimparare a pronunciare) sembrerebbe paradossalmente l’esplosione di un pensiero leggero e nuovo, che si libera del fardello di quella retorica celebrativa tutta italiana, appiccicata a Roma come succede in un amore tossico: riversandoci sopra qualsiasi pregiudizio positivo e negativo. Il conto in sospeso con l’innamoramento tra Roma e lo Stato italiano, che ha portato al consumo turistico di massa della Roma artistica, terminata la lettura è davanti ai nostri occhi. Il plagio è svelato, sta a noi liberarcene d’ora in poi.
Ma in questo scontro finale, sembra forse dirci Prato, non vince nessuno: perché Roma imperterrita ricrea ovunque quella rena dorata simile alla sabbia del Tevere che vola sul Gianicolo. Questa polvere ricopre le cose per lasciarle scoprire a coloro che sono capaci di conoscerla e non cedono al desiderio di denigrarla. A costoro sono destinati doni prelibati, di cui un assaggio è offerto da Roma, non altro . Il libro ha sicuramente un potenziale diretto per chi di Roma si occupa o a Roma vive, ma contiene anche un secondo messaggio, accessibile con un piccolo sforzo, destinato a chi Roma non la conosce affatto o la vede per la prima volta. Il lettore facilmente si lega al filo critico e poetico che la curatrice tesse, sperando che continuino a uscire altri scritti dagli archivi.