Recensioni / Gianni Celati, Il transito mite delle parole

Nel 1989, vicino a Firenze, a San Casciano in Val di Pesa-località di sedicimila abitanti famosa per la produzione del Chianti - lo scrittore Gianni Celati incontra gli studenti della scuola media statale Ippolito Nievo. L'evento è promosso dall'assessorato alla Cultura e Celati è uno dei tre o quattro scrittori che fanno parte della rassegna. Tutto auspicherebbe al meglio, al ritrovato senso di appartenenza della cultura italiana che fa in modo che gli scrittori contemporanei entrino in contatto finalmente con i giovani, se non fosse che quel mattino di novembre inoltrato gli studenti si trovano davanti uno scrittore in grado di rovesciare il tavolo delle certezze, uno che dal primo momento tenta di metterli in guardia da una realtà che dice di essere, ma non è, e che quindi attenti, perché esistono solo apparenze e senza il loro beato inganno non avreste desideri, uno che alla prima domanda che gli viene posta (immaginiamo una domanda fatta con una certa tensione, scritta magari nero su bianco la sera prima da un ragazzino voglioso di fare bella figura) risponde: "Adesso vi devo dire una cosa: vi dico quello che penso sulle domande e sulle risposte! Io non credo che a tutte le domande bisogna rispondere, perché quasi sempre le domande le facciamo tanto per fare".
Oggi le conversazioni e le interviste di Gianni Celati sono raccolte sotto il titolo Il transito mite delle parole e sono pubblicate da Quodlibet, sotto l'attenta e amorevole cura di Marco Belpoliti e Anna Stefi. Sono tanti i temi ricorrenti all'interno del volume: la finzione, la tradizione letteraria, la scrittura, l'attesa, ma forse, su tutti, l'importanza di muoversi a vanvera, come rabdomanti nella nebbia, senza avere l'ossessione di una Verità odi uno scopo; conservare una voglia infantile e matematica di impantanarsi nella melmosa fanghiglia delle impressioni, dell'indicibile. Emergono le idiosincrasie di un uomo che oggi può essere definito una tra le voci più genuine e avventurose del secondo Novecento italiano, ma che uno scrittore vero e proprio non si è mai sentito ("può darsi che la mia carriera letteraria finisca qua, oggi. Scrivere non è una professione, io non sono uno scrittore", ripete spesso come fosse un mantra a chi gli chiede cosa scriverà da lì a breve oppure che tipo di scrittore è).
Con toni spesso spavaldi e comici problematizza le domande che gli vengono poste prima ancora di offrire le risposte, rende gloria a ogni tipo di banalità ("per esempio quando ci si innamora: innamorarsi vuol dire accettare di dire e fare delle banalità"), rifugge da ogni schema apodittico e da ogni tipo di scrittura cronachistica ("se la scrittura non si basa su questo non capire bene, io non so proprio quale sia il suo spazio") e di risposta in risposta danza, schizza, scarta, si muove con la palla della parola, da un'area semantica a un'altra