Si è consumato da poco
più di un mese il centenario della nascita di
Giorgio Manganelli
(1922-1990), l'eccentrico par excellence della letteratura italiana del secolo ventesimo, oscurato in quest'anno dall'anniversario del più noto e oramai monumentale Pasolini, che di lui
lamentava, nel 1973, il «teppismo mentale», l'attitudine di
chi, inforcati gli occhiali e vestito il doppiopetto, versato del
buon vino su una tavola di ricche pietanze, riduceva all'osso i
«grandi problemi», e dilatava invece sino «al delirio metafisico»
i particolari più minuti. Manganelli, certo, avrebbe snobbato il
suo stesso centenario. «Io punto
ai millenari», disse una volta
con sarcasmo. Eppure, l'anno
che si avvia alla conclusione è
stato nondimeno ricco di eventi e pubblicazioni, a testimonianza che il raccapriccio con
cui lo si guardava in vita è oggi
superato. I suoi libri sono più
che mai richiesti e si è di fatto avverato quanto Calvino preconizzava in tempi non sospetti,
cioè che Manganelli fosse uno
degli interpreti più acuti del secondo Novecento italiano.
Di recente è stata la figlia Lietta a ripercorrere la vita del padre tra lettere, appunti e aneddoti di famiglia (Giorgio Manganelli. Aspettando che l'inferno cominci a funzionare, La nave di Teseo).
E ora i curatori Andrea Corteilessa e Marco Belpoliti ristampano il numero 25 di «Riga»
(2006) «in forma rifatta, e per
tre quarti inedita»: il nuovo volume, Giorgio Manganelli
(«Riga» 44, Quodlibet, pp. 510,
€ 26,00), è diviso in due sezioni, una dedicata agli Scritti di
Giorgio Manganelli, dove si leggono gli inediti Appunti critici risalenti al periodo tra il 1948 e il
1956, nonché le trascrizioni
delle conferenze per il Movimento di Collaborazione Civica; l'altra invece agli Scritti su
Giorgio Manganelli, con sedici
saggi inediti e una ricca antologia della critica, che dai primi
testi di Luigi Baldacci, Pietro
Citati e Umberto Eco, tutti del
1964, giunge sino ai più recenti interventi, a molti anni dalla scomparsa dell'autore, firmati da Giulio Ferroni, Alessandro Piperno e Raffaele Manica (2020), così da fornire al
lettore un quadro complessivo dell'attività in vita di Manganelli e della ricezione delle
opere postume.
Il numero è introdotto da dieci interviste a scrittori contemporanei che si sono formati sui
suoi lavori - sin dalla prima opera Hilarotragoedia, uscita a un anno di distanza dalla formazione
di quell'eterogenea compagine
di intellettuali e artisti che fu il
Gruppo 63, cui pure egli partecipò con obliqua estraneità; e conferma la sua stessa idea anacronica di letteratura, secondo la
quale, scrive Manganelli, «non
esiste un passato come dato,
non esiste un deposito definitivamente chiuso delle tradizioni e delle invenzioni. Noi vediamo scrittori ignorati al loro tempo che diventano improvvisamente scrittori decisivi per
noi». L'esplosività della storia è
imprevedibile, come fu per l'ottocentesco Pinocchio collodiano,
riscritto come «libro parallelo»
e pubblicato nel 1977: quando
cioè una nuova ondata di scontri e rivolte studentesche investiva l'Italia soffiando in particolare sul marzo bolognese e sulla
sua cittadella universitaria, dove lo stesso scrittore, qualche
anno prima, avrebbe dovuto ricoprire la cattedra di Letteratura inglese al Dams, assegnata
poi a Gianni Celati, e rifiutata,
come ricorda Ermanno Cavazzoni, in nome del fatto che nella
culla della cucina italiana si
mangiava proprio male.
Era anche questo Manganelli,
un uomo inattuale, orgoglioso
del proprio inveterato disprezzo per il senso e i luoghi comuni.
Quando, se non allora, si sarebbe dunque potuto ri-scrivere un
libro su una figura così difficilmente afferrabile e scomponibile in forme rigide, come quella di un vegetale, un pezzo di legno che diventa burattino e infine essere umano? E come dimenticare a proposito di autorità e autorialità quell'incipit così
folgorante che azzerava qualsiasi funzione sacrale della letteratura: «C'era una volta... "Un
Re... ". No... (...) Il "c'eraunavolta", è, sappiamo, la strada maestra, il cartello segnaletico, la parola d'ordine del mondo della
fiaba. E tuttavia, in questo caso,
la strada è ingannevole, il cartello mente, la parola è stravolta.
Infatti, varcata la soglia di quel
regno, ci si avvede che non esiste il Re»? E questa la messa in
mora, rileva Giancarlo Alfano
in uno dei saggi critici presenti
nel volume, «della centralità del
destino umano», così come di
qualsiasi centralità o indiscussa
prevalenza: alle Atene o alle Firenze, Manganelli preferì sempre in modo eversivo i luoghi periferici del mondo, così come
preferì, più che le parole, i loro
emblemi o al più gli interstizi
bianchi tra di esse, infinitamente interpretabili e scrutabili.
Si spiegano, in virtù di questa
indefessa critica dell'antropomorfismo, non solo opere come
Centuria (1979), in cui sono inanellati uno di seguito all'altro
«cento romanzi fiume, ma così
lavorati in modi anamorfici, da
apparire al lettore frettoloso testi di poche e scarne righe», ma
anche il perché il suo lavoro sia
stato decisivo per l'esperienza
emiliana del «Semplice», rivista
letteraria aperiodica fondata
negli anni novanta, tra gli altri,
da Celati e Cavazzoni, nella quale sono stati pubblicati molti irregolari della nostra letteratura
come Delfini, Frassineti, Malerba, Benni, Cornia e Benati. Proprio quest'ultimo, in una delle
interviste contenute nel numero di «Riga», ricorda che, pur
con i dovuti distinguo stilistici,
essendo la prosa manierista di
Manganelli lontana dai toni
asciutti del «Semplice», gli scrittori della rivista si sentivano comunque accomunati alla sua
idea di una lingua letteraria
meno mortificante di quella
dei romanzi commerciali («Per
me, diceva Manganelli, sempre meglio un mago che uno
Strega»), e più incline a far
emergere, in un mondo letterario dalla proliferante «pornografia dei buoni sentimenti», la
miscredenza del comico e la
sua forza irriverente verso i modelli consolidati e obbligati.
E questo non l'unico di certo, ma forse uno dei frutti più
interessanti della sua eredità, a
patto che sia sempre tenuto assieme al truce e angosciante
volto del tragico, di cui è costante alimento. Lo ricordano le riflessioni contenute negli Appunti critici sul suicidio di Pavese, avvenuto qualche anno prima, e che, come un tarlo, tornava ora ad assillarlo, mentre leggeva le pagine del Mestiere, nelle quali si specchiava, riconoscendo la medesima solitudine, la medesima frustrazione
nei confronti della vita: «ora
che — scrive nel 1955 — le antiche lave dell'angoscia hanno di
nuovo straripato, a fare guasto
dovunque, e ancora scorrono in
superficie, con le loro correnti
che uccidono lavita (...) con quale indicibile angoscia la ragione
si adegua al deserto senza storia
del suo cielo indifferente»?
A differenza di Pavese, però,
Manganelli sapeva ridere: nevroticamente forse, ma pur sempre era in grado di nutrirsi di
quel riso che ribalta le prospettive e le scale di valore.