«Bisognerebbe rinascere oppure
parlare con J. D.». Così recita
ermeticamente una sentenza
che si trova ne L'anarchitetto di Gianni
Pettena, uscito da Guaraldi nel 1973. Il
termine torna in tutte le discussioni
critiche su uno dei fondatori
dell'architettura radicale, spesso fatto
oggetto di discussioni in gioventù per i
suoi attraversamenti di molte discipline
artistiche, che iniziò a Firenze un percorso
che lo ha portato in tutto il mondo. Nel
1968 aveva realizzato una installazione
destinata a lasciare un segno: Dialogo
Pettena-Arnolfo a San Giovanni Valdarno e
nel 1970 andava ad abitare nel palazzo
degli artisti in piazza Donatello, narrando
in un articolo sulla rivista «Domus» la sua
visione. «Era la mia prima casa e io sapevo
che tutto doveva accadere in questa stanza
vuota oppure che in questa stanza vuota
poteva accadere di tutto ma questo tutto
doveva valere la pena di essere vissuto.
Volevo che si riempisse piano piano a
ricostruire un disegno buono, umano, in
cui si potesse stare, e ognuno entrandovi
potesse essere sincero se lo voleva.
Oppure potesse fuggirne se non ci
riusciva».
Sullo sfondo lunghe conversazioni con
Ettore Sottsass, che raccontava l'India e il
Giappone, luoghi in cui le case erano di
materie fragili e andavano accudite come
esseri umani. Ora progetti, scritti,
realizzazioni si trovano in un grande libro
celebrativo edito da Quodlibet, a cura di
Pino Brugellis, Alberto Salvadori e
Elisabetta Trincherini, dal titolo assai
preciso Tutto, tutto, tutto... o quasi.