Recensioni / Gabriele Gimmelli, Un cineasta delle riserve

Gianni Celati è uno degli scrittori più interessanti della letteratura italiana a cavallo tra Novecento e Duemila. Uno scrittore atipico, «insofferente alle etichette» (p. 7), come giustamente lo definisce Gimmelli. La sua letteratura si confronta con varie arti e discipline, come l’antropologia, la sociologia, le arti visuali, la fotografia, il teatro, la cultura pop, per citare solo le contaminazioni più evidenti e più fruttuose. L’opera di Celati, allo stesso tempo, propone una costante riflessione poetica intorno a temi cruciali, quali ad esempio la letteratura come fantasticazione, la liberazione dei codici espressivi, la rappresentazione della realtà e le apparenze, scavando a fondo nelle mutazioni che hanno interessato la società italiana. La pubblicazione del Meridiano nel 2016, a cura di Marco Belpoliti e Nunzia Palmieri, dovrebbe averlo ormai assegnato alla schiera dei classici contemporanei, tuttavia (o forse proprio per questo) la sua opera offre ancora molti spunti di approfondimento per gli studiosi. Da uno di questi spunti nasce il libro di Gabriele Gimmelli – Un cineasta delle riserve. Gianni Celati e il cinema – che parte dalla costatazione dell’importanza del rapporto tra Celati e le arti visive, oggetto di molti studi e nel 2018 al centro del convegno La scrittura dello sguardo. Gianni Celati e le arti visive, tenutosi all’Università di Strasburgo.
Nel rapporto con il cinema Gimmelli individua un filo conduttore che unisce l’intera traiettoria artistica di Celati, allineandosi a quella parte della critica celatiana che negli ultimi anni ha sottolineato i fattori di continuità nell’opera dello scrittore, al di là delle svolte poetiche ed espressive che pure sono presenti nel suo percorso: si pensi in particolare a quella degli anni Ottanta, che Calvino ha definito come «un rovesciamento dall’interno all’esterno». La passione per il cinema si rispecchia nell’esperienza letteraria e le dà forma, rendendo possibile una lettura in parallelo dell’opera letteraria e di quella cinematografica di Celati.
Il primo capitolo – Il corpo comico del testo – indaga il cinema inteso come modello linguistico e stilistico della prima scrittura celatiana. Tale derivazione si concretizza, in particolare, nella ricerca di uno stile di scrittura che ricalchi la gestualità del cinema comico muto. Gimmelli evidenza il rapporto con le slapstick comedies, con il fumetto e il teatro nomadico. Il capitolo analizza alcuni lavori poco noti di Celati: il copione La farsa dei tre clandestini, che riprende scene dei film dei fratelli Marx, e gli iconotesti Il chiodo in testa e La bottega dei mimi, realizzati in collaborazione con il fotografo Carlo Gajani. Nel cinema muto e nell’esperienza dei mimi Celati trova inoltre dei riferimenti utili per le sue riflessioni sul comico.
Il secondo capitolo – Qualcosa su Alice – ruota attorno alla contestazione a Bologna nel 1977 e al personaggio di Alice nel Paese delle Meraviglie di Lewis Carroll. In quell’anno Celati scrive, insieme agli studenti del DAMS, il volume Alice disambientata. L’episodio dimostra un interessante tentativo da parte dello scrittore di coniugare la componente fantastica della scrittura all’impegno civile. Gimmelli riporta alla luce alcuni materiali filmici girati in Sicilia, che costituiscono un tentativo poi non andato in porto per la realizzazione di una pellicola su Alice. Nel capitolo troviamo, infine, un’analisi del documentario di Mili Romano Il rumore del tempo, tratto da materiali girati da Celati in occasione del Convegno Nazionale contro la Repressione di Bologna.
Il capitolo terzo – L’arte della sceneggiatura – ripercorre l’attività di sceneggiatore di Celati e la sua collaborazione con Alberto Sironi. Sono oggetto di studio quattro sceneggiature celatiane: un soggetto poliziesco, una sceneggiatura tratta dal libro Il grido della civetta di Patricia Highsmith, una dedicata alla vita di Fausto Coppi e un’ultima derivata dalla novella L’isola in mezzo all’Atlantico dello stesso Celati. Delle quattro, solo quella su Coppi sarà utilizzata in parte da Sironi per una miniserie televisiva del 1995. Anche se questi film non furono mia realizzati, Gimmelli nota come la scrittura celatiana degli anni Ottanta, quella della svolta stilistica, sia debitrice alla grammatica cinematografica.
A partire dal quarto capitolo Gimmelli analizza i film di Celati regista, soffermandosi più dettagliatamente su Strada provinciale delle anime (1991) e Case sparse. Visioni di case che crollano (2003). Oltre ad un’attenta lettura dei film in relazione alla poetica e alla scrittura letteraria celatiana, i capitoli offrono un importante percorso di scavo nelle carte del Fondo Celati della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, attraverso il quale Gimmelli ci restituisce i percorsi genetici che portarono ai film, in un continuo confronto tra le intenzioni iniziali dello scrittore e le modifiche apportate al momento di dover metter mano alla realizzazione effettiva dei film. Lo studio scava in questo modo nella tensione che si viene a creare tra scrittura letteraria e realizzazione cinematografica.
Il libro di Gimmelli si nutre di varie fonti, dalla bibliografia critica sull’autore alle testimonianze di collaboratori, e compie un intenso lavoro di ricerca nell’archivio dello scrittore, dal quale emergono interviste, lettere, film inediti, materiali preparatori delle opere. Il percorso proposto da Gimmelli esplora una produzione poco conosciuta e in alcuni casi inedita di Celati e riesce a coniugare abilmente gli strumenti del critico cinematografico, dello studioso di letteratura e del filologo, restituendoci per la prima volta un’immagine nitida della profondità del rapporto tra Gianni Celati e il cinema, finora solo intuibile per frammenti sparsi.