Recensioni / Alla rivoluzione con falce e rastrello

Alla rivoluzione con la faIce,e il rastrello. Il grido di battaglia arriva dal francese Gilles Clément, autore di un Manifesto del Terzo pae­saggio sovversivo come l'appello a una rivoluzione mondiale. Pubblicato l'anno scorso in Francia tra l'attenzione di amministratori e politici (pizzicati sulle loro responsabilità), la sor­presa di filosofi e architetti (sti­molati dalla densità e dalla crea­tività del testo), l'entusiasmo di ecologisti e ambientalisti (pun­golati nel vivo della loro causa), il documento ‑ ora tradotto e cu­rato da Filippo De Pieri per Quo­dlibet, pagg. 88, € 12 ‑ non espone però un programma di partito, né una meraipotesiteo­rica, né un progetto urbanisti­co. Nemmeno i punti di una campagna per l'ecologia, parola portata fino al livello più bas­so della disaffezione da tante battaglie e radicalismi», dice Clément. O per l'ambiente, ter­mine che «dispiega tutta una batteria di macchine per miete­re il sapere e farne balle da fie­no», insiste.
Estraneo a definizioni ideolo­giche, politiche, accademiche, partitiche, il suo estensore com­batte per uno spazio ‑ il «Ter­zo» ‑ che sta appunto «fuori» dalle divisioni tradizionali: de­stra/sinistra, natura/cultura, campagna/città, urbano/selvati­co, ordinelcaos. E che, sviluppa­to com'è oltre i confini metropo­litani, i margini dei campi, il bor­do delle strade, il limite delle aree industriali, non va perciò considerato periferico, margi­nale, utopico o borderline. E an­zi la più concreta riserva del po­tenziale di trasformazione del «Giardino planetario» (o «Giar­dino in movimento»). Lo dice Clément, con espressione che, dalla Genesi in giù, non suona come una stravagante metafo­ra e può anzi fondatamente no­minare l'intero pianeta terre­stre. Né suona pertanto come un capriccio stravagante il fatto che il suo paladino, eclettico out­sider, tra tutte le sue qualifiche ‑ agronomo, ingegnere, botani­co, entomologo, progettista di grandi parchi parigini, paesag­gista alla scuola di Versailles, scrittore ‑ una ne elegga per pre­sentarsi: «Sono un giardinie­re», dice.

Una boutade, una vocazione o una provocazione?

«Io ho un giardino, metto le ma­ni nella terra, so che cosa vuol dire lavorarci. E l'orto, che offre nutrimento, è il giardino per ec­cellenza: il piacere di raccoglie­re quel che si ha seminato si av­vicina a una certa idea di felici­tà. Proprio sul giardinaggio ho stabilito le mie teorie e la mia pratica di paesaggista. Tradizio­nalmente il giardiniere è chi col­tiva un giardino, ne segue lo svi­luppo nel tempo. Deve conosce­re piante e animali, essere un sapiente, a volte un mago. Non pretendo di esserlo, ma credo che quella sapienza vada rivalu­tata».

La sua nozione dl giardino si estende a tutta la terra, ab­braccia spazi coltivati, incolti. Cos'è il «Terzo paesaggio»?

«Propongo di chiamare Ter­zo paesaggio l'insieme dei territori sot­tratti all'azio­ne umana, il terreno di rifu­gio della diver­sità respinta dagli spazi do­minati dall'uo­mo. E dunque la somma dei residui (urbani o rurali), le zone incolte, il ciglio delle strade, le rive dei fiumi, l'orlo dei campi,le torbiere... Comprende anche le "riserve" naturali dove la diversità biologica è generalmente forte. Scelsi il termine all'epoca della mia analisi di un paesaggio del Limousin che, in un primo tempo, avevo ridotto a un sistema binario: ombra, cioè le foreste gestite dall'uomo, e luce, cioè radure e pascoli. Era il
90 per cento del territorio del Limousin, ma raccoglieva meno del 10 per cento della biodiversità, raccolta  invece ne‑
gli spazi sottratti  all'intervento umano: il Terzo paesaggio».

Diversità: sarebbe?

«Dipende dalla natura del luo­go. Se si tratta di ecosistemi ori­ginari, come lande o torbiere, ci vivranno con una certa stabilità piante e animali infeudati. Nei residui recenti, invece, ci saran­no specie pioniere, comparse dopo la riconquista del terreno spogliato. Infine, nei luoghi ab­bandonati ai confini o all'inter­no delle città, troverà spazio la diversità umana ‑etnica e socia­le ‑ per dare espressione alla propria cultura. Si vede benissi­mo negli orti abusivi, per esem­pio, diversi a seconda di chi li coltiva».

E una diversità che aspira al potere? A un potere politico?

«No, il Terzo paesaggio non aspira a un potere, bensì a un riconoscimento. Né costituisce un potere, bensì un potenziale politico: è un territorio di inven­zione».

E trova voce nel suo manifesto che proclama l'indecisione co­me un programma e aspira a lasciare le cose come sono. Per­ché un manifesto?

«Il Terzo paesaggio è un luogo d'indecisione perle amministra­zioni. Non per gli esseri viventi ‑piante, animali e uomini ‑ che lo abitano, che
deciono di agirvi in tutta libertà e lo impiegano in base alle loro urgenze. Sempre urgenze biologiche e imprevedibil. Penso sia necessario conservare zone di indecisione,  frammenti di Terzo paesaggio in seno agli spazi amministrati: predisporre cioè politicamente la loro esistenza.Perciò un manifesto: il testo vuol essere nel  contempo una constatazione e  un grido».

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