Recensioni / Claverini, La tradizione filosofica italiana

Quale sia la tradizione filosofica italiana e perché sia importante parlarne è quello che spiega Corrado Claverini in La tradizione filosofica italiana. In questo volume l’autore analizza quattro filosofi, Bertrando Spaventa, Giovanni Gentile, Eugenio Garin e Roberto Esposito, assai diversi tra loro, che hanno però in comune il fatto, importante per il discorso che Claverini vuole svolgere, di interrogarsi sulla storia della filosofia italiana e di offrirne un’interpretazione. In un certo senso potremmo dire che essi rappresentano, ciascuno a suo modo, la coscienza del pensiero che ha condotto fino a loro. La storia del pensiero è già il primo lineamento della sua identità; la storia della filosofia italiana è dunque, già dal confine che se ne tracci e dai limiti che si assumano, il primo tratto identificante della filosofia italiana. Con ciò intendiamo dire che Claverini, configurando il suo disegno attraverso questi quattro filosofi, imprime da subito una determinata impronta al suo discorso.
Spieghiamoci meglio. La scelta di Claverini ha una ragione oggettiva: tutti e quattro i filosofi scelti si caratterizzano per il fatto di aver teorizzato un’interpretazione della filosofia italiana. Tuttavia, se è logico affiancare Gentile a Spaventa ed è comprensibile, magari con le dovute precisazioni, che si accosti Garin a Gentile, è meno ovvio far seguire poi Esposito (o, più in generale, l’Italian Thought), a meno che non si voglia ricomprendere i primi tre nell’ambito dell’interpretazione di quest’ultimo. E questo è precisamente quello che fa Claverini; lo fa, sia detto subito, con una operazione del tutto aperta e trasparente, che occorre però esaminare in maniera più ravvicinata.
Claverini comincia la disamina dalla dottrina della circolarità del pensiero, che Spaventa poneva a fondamento della sua interpretazione. Quella della circolazione è un’idea dialettica, afferma Claverini, utile anche nel nostro tempo: «Uno degli aspetti più attuali della filosofia di Spaventa è senza alcun dubbio il suo pensiero dialettico. Esso consente di tenere insieme universalità e particolarità così come – mutatis mutandis – cosmopolitismo e patriottismo. È proprio la teoria della circolazione che – “oltre a essere di per sé transnazionale in quanto pone immediatamente in una relazione attiva ed originale il pensiero italiano con la filosofia europea” – permette di ripensare l’universalità secondo una logica del tutto differente da quella dominante nell’odierna epoca della globalizzazione. Oggi che nessun termine medio sembra essere ammesso fra il globalismo imperante e i nazionalismi rinascenti, occorre affermare con forza un “universalismo delle differenze” e – insieme – contrastare il processo di reductio ad unum delle molteplici culture. Ponendo la questione della nazionalità della filosofia e mettendo in relazione la tradizione italiana con il pensiero europeo, Spaventa è un autore fondamentale con cui – non a caso – l’Italian Thought dialoga fecondamente» (pp. 50-51). Il tema del contrasto alla globalizzazione come prevaricante reductio ad unum della diversità culturale è un problema che sta molto a cuore al nostro autore e intimamente intrecciato alla tesi che riguarda la tradizione. Lo ritroviamo anche nell’ultimo capitolo, dove si raccolgono le conclusioni: «Nell’odierna epoca della globalizzazione, l’intento è (…) di promuovere la salvaguardia della diversità culturale, contrastando tanto il nazionalismo quanto la concezione dell’universalità come annullamento di ogni differenza particolare. Solo cominciando seriamente a riflettere sul valore della diversità culturale e sul pericolo dell’uniformazione e omologazione delle culture, delle lingue, degli stili, dei pensieri, è possibile arginare il processo di globalizzazione (intesa nel senso della riduzione delle molteplici culture nazionali ad un’unica “cultura-mondo”) (…) In altri termini, occorre tener ferme le rispettive differenze nazionali, non per innalzare muri e barriere, ma per promuovere il dialogo interculturale e riaffermare una solida unità che non può venire se non dalla cultura. In conclusione, si tratta di salvaguardare le identità e le culture nazionali non a scapito del cosmopolitismo, ma in nome della sua vera natura, a distanza di sicurezza da ogni forma di identitarismo e di nazionalismo. Oggi più che mai bisogna ripartire da qui» (p. 133). Il nesso tra questione della globalizzazione e tradizione filosofica italiana è messo a fuoco, dunque, utilizzando la dottrina spaventiana della circolazione del pensiero.
Spaventa sosteneva che il pensiero rinascimentale italiano si ritrovasse secoli dopo nella filosofia idealistica tedesca e fosse tornato, infine, in Italia con Galluppi, Rosmini e Gioberti. In questa circolazione, osserva Claverini, risalta che il particolare contesto storico, politico, territoriale, dal quale il pensiero scaturisce, e il valore universale, che esso esprime, possono essere coniugati insieme senza contrasto. È una dialettica di particolarità e universalità, di italiano ed europeo, di ciò che appartiene a un solo popolo e ciò che appartiene a tutti i popoli. La dialettica della circolazione del pensiero può essere riguardata quindi, secondo Claverini, come un modo per concepire il difficile rapporto tra diversità e identità, senza finire necessariamente nell’identità globale o nella differenza particolaristica.
Da qui risulta chiaro che la chiamata in campo dell’Italian Thought è tutt’altro che estrinseca. Infatti, Claverini fa un “uso” di Spaventa che risente delle tesi espresse da Roberto Esposito in Pensiero vivente (Einaudi, Torino 2010). In questo importante lavoro Esposito considera la filosofia italiana non una provincia della metafisica occidentale ma un pensiero intimamente a contatto con la vita, con la storia, con la politica e interagente con queste dimensioni, la considera – in sostanza – fonte di vita essa stessa. È proprio facendo sua l’idea di pensiero vivente che Claverini si può accostare alla dottrina di Spaventa tralasciando ogni cautela per il rigore dell’idealismo, mettendone tra parentesi l’anima logico-ontologica. Si potrebbe dire che questo “uso” è la vita che lo richiede. È la vita che lo consente. E la filosofia non è altro che dialogo con la vita, pensiero impuro – come Claverini la definisce citando Remo Bodei – che nel confronto con la vita trova i problemi e cerca le soluzioni. Quello che Claverini ci mette di fronte è dunque uno Spaventa prosciugato della linfa idealistica e messo al servizio di un diverso scopo. Infatti il pensiero che circola tra le nazioni e in Europa non è più lo stesso pensiero, non è più l’assoluto; e viene anche il dubbio che si possa ancora parlare di circolazione, dato che lo spirito, il soggetto della circolazione è ormai uscito di scena; ma di polarità, sì, si deve parlare, di oscillazione tra globale e particolare; perché solo l’unità e la particolarità sono rimaste, dopo che Claverini ha spostato il ragionamento su questo diverso piano. Insomma, già a partire da quello che Claverini indica come il primo paradigma interpretativo emerge con decisione il fatto che La tradizione filosofica italiana si costruisce con forte riferimento alle tesi di Pensiero vivente.
Il volume prosegue su questa scia per quanto riguarda Giovanni Gentile ed Eugenio Garin. Anche loro, altrettanti pilastri della tradizione, sono riletti con una intenzionalità molto mirata. Come Spaventa, pure Gentile, dice Claverini, «dà una forte impronta speculativa alla propria storia della filosofia ancora teleologicamente orientata, nel senso di una progressiva immanentizzazione verso la vera filosofia che è l’idealismo stesso. Dunque, le loro storie filosofiche della filosofia possono esser viste come una sorta di percorso unitario fatto di precorrimenti e inveramenti, nel quale i singoli pensatori hanno di volta in volta un significato particolare, che spesso consiste nell’aver accelerato il percorso storico progressivo della filosofia grazie ad alcuni e ben precisi guadagni speculativi» (p. 54). Nella Storia della filosofia italiana fino a Lorenzo Valla e ne Il pensiero italiano del Rinascimento Claverini rintraccia i motivi a sostegno dell’idea che tra Umanesimo e Rinascimento il pensiero si indirizzò verso l’immanenza: l’autonomia dello Stato, la rivendicazione di una ragione separata dalla teologia, l’interesse per il mondo umano, il valore divino dell’intelligenza umana, l’autonomia della volontà. È il concetto d’immanenza quello che stavolta si vuole rimarcare e certo il pensiero di Gentile, anche quello storiografico, non scarseggia a tal riguardo. Ma, anche in questo caso, l’intenzione di Claverini è di riempire quel concetto di nuovo e diverso significato: «Insomma, la tematica della dignità dell’uomo, della sua autonomia, del suo essere un “secondo Dio”, della sua virtù che può arginare l’immane potenza della fortuna è sviluppata in molteplici modi. L’impostazione gentiliana non potrebbe essere più chiara: la contrapposizione Medioevo-Rinascimento è nettissima e il percorso progressivo dalla trascendenza all’immanenza è evidente. Come Spaventa, così Gentile insiste molto su questo aspetto: per entrambi la filosofia italiana è pensiero concreto, cioè un pensiero che ha sempre concepito l’essere umano come artefice della propria fortuna e che si è costantemente interessato al mondo della vita storica e politica. Come poi farà l’odierno Italian Thought, prolungandone le feconde sollecitazioni, Spaventa e Gentile hanno sottolineato con forza queste caratteristiche fondamentali della nostra tradizione intellettuale» (p. 68).
I precorrimenti e gli inveramenti di cui parla Claverini erano per Gentile le scansioni del pensiero idealisticamente concepito, che proprio in quanto era uno e identico, e dialetticamente aveva luogo nel mondo delle differenze, consentiva di pensare queste in termini di precorrimenti o inveramenti. A questa dialettica e all’assoluto che con essa si strutturava apparteneva una specifica concezione dell’immanenza. Ma quella concezione non viene fatta sua da Claverini e tuttavia nemmeno rigettata. Piuttosto viene “usata”, ovvero presa nel suo involucro esteriore e riempita di nuovo. L’immanenza è adesso «pensiero concreto», cioè pensiero versato nel mondo umano e nella politica, pensiero animatore della storia morale e civile. Fuori da ogni prospettiva idealistica, fuori dal pensiero concreto – cioè in atto – come lo aveva pensato Gentile, la stessa immanenza che trovava in quell’atto la sua giustificazione è ora guardata invece come il mondo della vita umana che il pensiero pervade, sì, ma senza più esserne padrone. Possiamo davvero dire che questa è l’eredità – questa l’immanenza – che Gentile ha consegnato alla tradizione filosofica italiana?
È evidente che proprio questo “passaggio” da un significato all’altro è la scommessa di Claverini. Sta qui la forza della sua interpretazione, se forza ha, oppure la sua debolezza. È nella conversione, nel piegare al nuovo sguardo, che si riassume il senso della scoperta della tradizione italiana. Avvicinare i suoi autori è dunque allo stesso tempo necessario e pretestuoso. Certamente necessario, perché Claverini vuole che la tradizione, il contatto con questi filosofi, sia «fonte», cioè potenza vitale di nuovo pensiero. Tuttavia, pretestuoso, perché il pensiero, che deve scaturire dal contatto con la fonte, in effetti c’è già e anzi è proprio lui che, precisamente, permette di accostarsi, di “usare”. È un pensiero già orientato e sapiente che, con abilità, mette al suo servizio anche tutta la storia del pensiero italiano che Spaventa prima, Gentile poi, hanno ricostruito in funzione delle loro proprie filosofie e che ora subisce un effetto di trascinamento all’interno della nuova interpretazione.
Lo stesso vale anche per quanto riguarda Garin. Il più famoso storico della filosofia italiana, quello che ha dimostrato con la sua storiografia che la filosofia è sapere storico (La filosofia come sapere storico, Gius. Laterza & Figli, Bari 1959), è, secondo Claverini, colui che ha rivendicato il valore civile del pensiero italiano: «Quali erano, per cominciare, gli intenti di fondo che guidavano Garin? Essenzialmente due e fra loro connessi: innanzitutto tornare a indagare la storia nella sua concretezza, concependola dunque come processo libero e non teleologicamente orientato dalla trascendenza all’immanenza. Quindi, e soprattutto, mostrare nella vicenda culturale italiana la prevalenza di una vocazione etico-civile che sa incidere nella vita effettuale più di qualsiasi astrattezza teorica» (p. 92). Ma affermare la concretezza della storia significava, per Garin, criticarne l’impianto idealistico, fare una critica della storia che era insieme anche critica della filosofia. Lo sforzo di concepire la filosofia come sapere storico scaturiva dalla necessità di fuoriuscire da un determinato orizzonte culturale, con la consapevolezza della carica filosofica potente che questo procedere portava con sé. La vocazione civile, della quale Garin parlava, era la logica conseguenza di una filosofia che, riconoscendosi come storia, si avvicinava quanto più possibile all’empirico, al dato di fatto anche materiale, evitando, però, di finire tra le braccia dell’empirismo. Anche nel caso di Garin, Claverini fa risaltare l’importanza di un elemento, di una categoria, se vogliamo dire così, recidendo il legame che lo tiene essenzialmente stretto all’ambito teorico dal quale è nato. Questo elemento viene messo in piena evidenza qua talis, affinché sprigioni una valenza che brilli anche in contesto nuovo e inedito.
Con il quarto interprete della tradizione italiana incontriamo una discontinuità rispetto ai precedenti, ma anche una continuità. Roberto Esposito è per Claverini l’autore che ha ripreso la questione della tradizione italiana in maniera nuova e più feconda. Egli ha costruito una genealogia filosofica nettamente antistoricistica e si è servito di categorie, come quella di «territorio», per radicare ancora di più la specificità del pensiero italiano. L’interpretazione che Esposito dà della tradizione è però, anch’essa, tutta interna a una determinata filosofia, che s’impernia sui concetti di vita, storia, politica. Per dire meglio, questa filosofia e l’interpretazione di quella tradizione sono, in buona sostanza, la stessa cosa. La tradizione è la fenomenologia del pensiero che vive e si allarga, e adesso, giunto all’autocomprensione grazie al filosofo che lo ha riconosciuto, meglio si riconosce e si sa. Della fenomenologia, naturalmente, fanno parte gli autori già esaminati. Si ribadisce, dunque, il senso che ha accostarsi alla tradizione. Farlo, vuol dire cercare nella tradizione nuovo alimento, vedere nella tradizione, come si è detto, una fonte. Ma la tradizione può essere fonte solo perché la filosofia è essa stessa pensiero vivente, cioè, per dirla succintamente, vita, storia, politica. Come potrebbe alimentarci altrimenti, se non le appartenessimo e non ci appartenesse? Come potrebbe farci rinascere, se non fosse così?
È facile, allora, scorgere qui il punto di raccordo tra la tesi di Claverini e il pensiero di Esposito. La tradizione è contatto profondo con la vita e in essa si possono trovare le risposte alle domande che la vita pone. Questo chiarisce l’approccio che Claverini ha rispetto al più ampio e complesso organismo categoriale del rappresentante dell’Italian Thought. Non a caso nel capitolo conclusivo, dove si raccolgono tutti i motivi presenti nello svolgimento del saggio, si riprende l’idea di «un nuovo rinascimento», idea motivata dal modo in cui, come si è visto, Claverini intende la tradizione: «Dunque, ricapitolando, la “differenza italiana” sta assumendo una fisionomia sempre più chiara e precisa (…) L’idea di concretezza storica e di rinascita sempre possibile è ciò che caratterizza il nostro patrimonio culturale dal periodo umanistico-rinascimentale a quello risorgimentale. Non è difficile comprendere allora per quale motivo, nell’odierna epoca della ragion cinica, in cui nessun “nuovo rinascimento” sembra essere concepibile, la filosofia italiana può svolgere un ruolo fondamentale» (p.131). Come uno scrigno prezioso, la tradizione conserva il segreto della vita e del suo rinnovarsi, tiene in serbo la possibilità di dare risposta alle domande che la vita porta. Tra queste c’è quella di come ci si salvi dalla globalizzazione, il problema che Claverini suggerisce di affrontare alla luce del pensiero vivente.
Abbiamo cercato di mettere in risalto quello che ci è parso il nucleo filosofico principale del libro di Claverini. Ma esso contiene anche altri temi, che potrebbero essere discussi. Quello che si deve ancora osservare è che questo saggio spira molta fiducia nella ragion pratica, che vede all’opera nella storia del pensiero. Ma la fiducia non elimina il dubbio che essa sia capace di coniugare davvero universale e particolare, filosofia e storia, e lascia invece aperto l’interrogativo se questo non resti piuttosto un desiderio. Desiderio che, però, finora neanche la ragion teoretica è riuscita a soddisfare.

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