A metà dicembre del 1788, sei
mesi dopo il ritorno a Weimar, dopo quasi due anni
..,., in Italia, Goethe annotava:
«Non so dire quanto abbia sofferto
lasciando Roma. Quel che mi circonda al momento non m'invita granché
all'esercizio e alla contemplazione
dell'arte». Disperatamente solo, né lo
rincuorava l'intimità con Christiane
Vulpius, la giovane operaia con cui
aveva allacciato una relazione clandestina, di cui tutta Weimar sapeva. Gli
amici non lo comprendevano più, né
lui capiva più loro.
In quei mesi, Schiller, l'altro grande
scrittore della letteratura tedesca,
confidava, riferendosi a Goethe, che
«il suo mondo non è il mio». Anche il
giovane autore del Don Carlos si sentiva incompreso, non accettato, escluso dalla cultura ufficiale, ma aveva un
progetto che voleva realizzare e lo
strumento più adeguato era una rivista: Die Horen («Le Ore»). Aveva già
dato prove convincenti di organizzatore culturale, ma questa volta il piano era veramente ambizioso e per realizzarlo aveva bisogno degli intellettuali e artisti più affermati e soprattutto determinante sarebbe stata l'adesione del principale scrittore dell'epoca, di lui: Goethe. La manovra di avvicinamento fu graduale e strategica,
culminata con una ossequiosa lettera
del 13 giugno 1794, in un momento
particolarmente propizio per entrambi, come conferma il deferente finale
dell'invito: «Quanto più sarà grande e
attento l'interesse di cui degnerete la
nostra impresa, tanto più ne crescerà
il valore presso quel pubblico, la cui
approvazione è per noi di somma importanza. Con la più alta considerazione rimango, Illustrissimo, il Vostro
devotissimo servitore e lealissimo ammiratore Schiller».
L'alleanza che si creò significò anche il superamento di spigolosità caratteriali e generazionali. Goethe era
del 1749, Schiller del 1759; inoltre
Goethe era dell'alta borghesia, nobilitato nel 1782 (a quel tempo il titolo
contava ancora molto), ministro del
Duca di Weimar; Schiller era uno
scrittore già celebre, ma senza una
vera "sistemazione" sociale. Il patto
tra i due si saldò nella comune opposizione al massimo evento dell'epoca: la Rivoluzione francese. A differenza dell'entusiasmo, almeno iniziale,
di numerosi intellettuali - da Kant a
Hegel e Hölderlin - Goethe e Schiller
compresero che la via tedesca alla politica era quella del «compromesso
storico» tra aristocrazia illuminata e
borghesia colta nel nome dell'umanesimo classico. Gli ideali del neoclassicismo ispirarono quell'accordo culturale fondato sul patto di tacere, di
non accennare mai ai fatti di Parigi.
Di fronte ai clamori e ai proclami filo-rivoluzionari, la scelta "inattuale"
dei due scrittori, ormai alleati, era di
non parlarne mai e mai silenzio fu
più assordante. La coalizione si cementava nel patto sottinteso di ignorare la Rivoluzione e la guerra con un
chiaro atteggiamento di distanza e di
irreversibile disprezzo per il «sanculottismo letterario», secondo
un'espressione di Goethe. L'epistolario diventa così la pietra miliare di
quella cultura tedesca radicalmente
antipolitica, culminata nel 1918 nelle
Considerazioni di un impolitico di
Thomas Mann, ripresa e aggiornata
nel «Passaggio al bosco» (Trattato del
ribelle) di Ernst Jünger nel 1951.
L'ostilità antirivoluzionaria è il filo
rosso che attraversa il Carteggio tra
Goethe e Schiller, ora tradotto per la
prima volta integralmente a cura di
Maurizio Pirro e Luca Zenobi, autori
di una superba introduzione, per
l'editore Quodlibet e l'Istituto italiano di studi germanici. Sono circa mille lettere (e più di 1000 pagine, euro
60). L'epistolario s'interrompe il 27
aprile 1805: Schiller morì il 9 maggio
a 45 anni, consumato dalla malattia e
dall'eccessivo lavoro. Il carteggio è il
vero trattato del classicismo, punto di
riferimento insostituibile per l'intera
cultura europea. Le lettere sono, inoltre, l'esempio di una intensa collaborazione culturale. Sollecitato da Schiller, sempre generoso nei consigli e
nella fiducia, Goethe porta a termine
il Wilhelm Meister, riprende a scrivere il Faust, mentre Schiller viene, a
sua volta, incoraggiato da Goethe a
concludere i suoi lavori teatrali, soprattutto a non interrompere la stesura della trilogia del Wallenstein e
dell'ultima tragedia, il Wilhelm Tell
(da cui Rossini prese lo spunto per
l'opera omonima).
Accanto all'impegno "impolitico"
(in realtà assai "politico") vi era un'altra battaglia che vede ancora alleati i
"dioscuri" di Weimar: la lotta contro
il romanticismo, o più esattamente
contro i tentativi della nuova generazione romantica - soprattutto i fratelli August Wilhelm e Friedrich Schlegel - di sabotare l'estetica neoclassica. Nel carteggio affiora una gioiosa
vis polemica, culminata nell'esortazione di Schiller: «Bisogna dar fastidio, turbare la pace, mettere in agitazione». E l'olimpico Goethe era pienamente d'accordo a «incommodiren».
Neoclassicismo e romanticismo
vennero poi travolti dal comune tramonto della "età dell'arte" di fronte
alle nuove tendenze che dal 1830 imposero una letteratura politica, liberale e sociale, insomma engagée. Quando nel 1828-1829 Goethe pubblicò in
sei volumi il carteggio, era consapevole che un mondo, il suo mondo, era
tramontato: «Ci sta davanti questa testimonianza di un'epoca trascorsa
che non tornerà più e che tuttavia esercita ancor oggi i suoi effetti producendo un influsso vivo e potente». Ormai anziano, di nuovo e definitivamente isolato, intuisce che il carteggio rappresenta il testamento di una
stagione "epocale": «Se si considera
che nel 1806 ebbe inizio l'invasione
francese, si vede subito che queste
lettere chiudono un'epoca della quale non ci rimane quasi più traccia».
L'epistolario è l'estrema reliquia della "socievolezza" settecentesca, il monumento a quella che venne chiamata la Goethezeit, l'«età di Goethe», presto dimenticata, ma più tardi riscoperta e, a ragione, "canonizzata" come il secolo d'oro della letteratura tedesca.