Scrittore e pittore Henri Michaux
(1899-1984) è il tesoro meglio custodito della cultura europea del dopoguerra. Belga di adozione francese,
l'avergli dedicato una strada nel tredicesimo arrondissement parigino è
già qualcosa; così come averlo tatto
accomodare, sul piano cartaceo, tra
i santi autori della Pléiade a partire
dalla fine del secolo scorso.
Con tutto ciò è dubbio che Michaux,
scomparso da una quarantina d'anni, diverrà, come invece merita, un
indirizzo obbligatorio nella costellazione moderna. Ugualmente l'anno
è passato senza che siano stati dati
copiosi segni di ricevuta di un libro
anomalo e scardinante, pubblicato
nel 1967 e che ha ripreso a camminare da noi con la migliore delle
scorte. Viaggi immaginari in Paesi
che non esistono, con nomi impossibili e personaggi fintamente veri
che aspettavano solo che qualcuno
lí inventasse. Il tutto tirato fuori con
una scrittura che «viene Jnori come la
bava delle lumache o come gli escrementi
che ogni giorno evacuiamo». Così, benissimo, li descrive il sondriese Gianni
Celati, scomparso un anno fa.
Quanto a questo scrittore che non
assomiglia a nessuno e a nessuno
sembra rimandi, da noi circolava già.
Einaudi lo fece salire a bordo già a fine anni Sessanta. Adelphi timonata
da Calasso pubblicò quanto poteva:
imperdibili Passaggi e Brecce che, fin
dal titolo, introducono il lettore a
questa pagina fatta di schegge, una
prosa che fa a meno della prosa. Un.
grande lavoro di diffusione dell'opera di Michaux è stato fatto dall'editore Quodlibet. Meno noto il fatto che
in tempi non sospetti Michaux sia
stato tenuto d'occhio dagli storici
d'arte (in senso ampio). Già nel primo numero di «Paragone», nel 1950,
Longhi offriva estratti dello scrittore
allora cinquantunenne.
La prima cosa da lare con libri privi
di istruzioni per l'uso e segnaletica
varia è quella di levarsi i guanti.
Evitare ogni profilassi. Smettere di
esercitare il mestiere dì rubricatori
e incasellatori, preparandosi a una
pagina senza un centro prospettico, che viene dal nulla e non va
da nessuna parte. Un Proust o, se si
vuole, un Céline deflagrati in limatura di ferro irriducibile a una forza
magnetica. Michaux rimane lì: in
una zona franca tra K1ee e Twombly,
tra ideogrammi e improvvisazioni
del jazz modale (in cui gli accordi
non necessariamente rispondono
alle regole dell'armonia tonale). E
lascia sgomenti. Certo, tornando al
volume, la traduzione di Celati è un
valore aggiunto. Michaux più Celati: paghi uno e porti a casa uno
e mezzo. Però non riemerge un
ibrido, non foss'altro perché ciò che
Celati dice di Michaux si adatta più
o meno bene anche a sé: «Michaux
insegne un rilassamento senza programmi, senza strategie, per lasciarsi prendere di sorpresa dalle frasi che spuntano
sulla pagina».