«Quando lo dico nessuno mi
vuole credere, ma sono ormai
quattro anni che non scrivo più
poesie, considero finito il mio lavoro».
Emilio Rentocchini si schermisce com'è nel suo carattere, trincerandosi dietro il sorriso mite e
l'incerta chiarezza di quel suo
sguardo timido e impavido allo
stesso tempo: lo sguardo imprendibile di un vagabondo
stanziale, che cambia spesso
luogo di residenza ma continua
a dimorare nella terra dei padri
e soprattutto in quella «Lingua
madre» alla quale è intitolata la
sua definitiva (garantisce lui)
raccolta di poesie appena edita
da Quodlìbet (350 pagine, €22).
Se il libro non fosse qui davanti
a noi, prisma a sei facce rettangolari dalla consistenza solida e
incontrovertibile, verrebbe la
tentazione di adattare al poeta
sassolese quel che dicevano di
E.M. Forster, l'autore di "Passaggio in India": «La sua fama aumenta ad ogni libro che "non"
scrive».
Invece eccole qui, le trecento
ottave composte tra il 1994 e il
2019, a testimoniare la fedeltà
poetica di Rentocchini alla forma metrica cara ai poemi di Boiardo e di Ariosto, da lui reinventata in una chiave lirica capace
di racchiudere in soli otto versi
«una goccia di vita» che continua «a muoversi, senza scivolare via e prosciugarsi». Giorgio
Agamben, che di «Lingua madre» è prefatore autorevole, oltre a dirigere la "Collana di poesia bilingue" che la ospita, sottolinea che raramente un poeta si
è così integralmente identificato in una forma metrica. «Praticando l'ottava - commenta Rentocchini - mi accorgevo via via
che l'angustia del metro offriva
spazi insperati. Al punto che
non mi sono mai sentito così libero come prigioniero dell'ottava»: un gorgo che l'ha risucchiato inesorabilmente, trasformandosi in un rifugio e in un mondo,
a partire dall'inaugurale primavera del 1988, quando si rilesse
d'un fiato l' «Orlando furioso» e
restò folgorato da quella struttura di otto versi, «coi quali tutto era stato detto, e così bene, un
tempo».
Ma il Novecento non crede nei
poemi, non conosce cavalieri.
Di qui la necessità di ripensare
l'ottava, innanzitutto attraverso
la scelta espressiva del dialetto:
«Vengo da una terra operaia e
artigiana, di pavimentatori caparbi e scaltri. Le mie ottave sono scritte nel dialetto di Sassuolo, e quando le leggo sottovoce
mi sembra un po' di pregare. La
parola "mistér" in dialetto significa mistero, ma anche mestiere. Mestiere come tecnica e mistero come magia. Una voce
doppia che dice tutto». E qui bisogna capire l'antifona, perché
questa doppia voce la ritroviamo nella struttura stessa della
raccolta, dove ogni ottava dialettale si rispecchia nella sua
sottostante versione in italiano:
non una semplice traduzione,
ma una sorta di bilinguismo che
diventa parte integrante del procedimento creativo, raddoppiando l'effetto poetico. Un'antifona, appunto, un canto eseguito da due voci tra loro in ottava.
Due voci che però sono una sola: quella, inconfondibile, di Rentocchini. «Ma l'è acsè fina
ch'l'an per gnanch na vous», è
così pura che non pare neanche
una voce. Il primo a riconoscerla nella sua originalità, annidata
nelle pieghe d'una lingua madre ormai parlata da pochi, fu
non a caso un sassolese cosmopolita come Gian Paolo Biasin,
italianista a Berkeley, che alle
proprie radici era tenacemente
attaccato. E sapeva che, proprio come l'ottava, sono un vincolo necessario per leggere il
mondo.