Nel 1969 un giornalista di «DownBeat» chiese al pianista jazz Paul Bley cosa ne pensasse dei sintetizzatori a tastiera, di cui iniziavano a circolare i primi prototipi. Bley, un canadese che aveva studiato composizione alla Juilliard, scarrozzato Charlie Parker e tenuto a battesimo i primi esperimenti di free jazz con Omette Coleman, rispose che non ne sapeva niente. Ancora per poco. Spinto dalla curiosità, come altri musicisti in quel periodo andò dall'inventore Bob Moog a bordo di una station wagon e lo convinse ad affidargli l'ultimo synth rimasto. Studiò a lungo circuiti e spinotti con la sua seconda moglie Annette Peacock, anche lei compositrice e jazzista che, nel frattempo, escogitò una maniera per filtrare la voce con lo strumento. Annette firma i brani del Paul Bley Synthesizer Show, un album del 1971 in trio in cui il piano è sostituito dalla nenia elettronata del Moog, poco più che una suoneria telefonica per gli standard di oggi. L'anno dopo registrò I'm the One, misterioso e sensuale, uno degli album elettronici di maggior culto del periodo, per cui David Bowie perse la testa prendendola con sé nel suo management. Durò pochissimo. Quando Bley arrivò in tournée a Milano dopo mille peripezie di viaggio col suo intrasportabile Moog, si sentì dire dall'organizzatore che, per quel che valeva, avrebbe fatto meglio a portarsi dietro il piano. Musicista noto soprattutto agli appasionati e a colleghi, aveva la fama di essere poco incline a ingraziarsi il pubblico: più di una volta le sue residenze nei club di New York e Los Angeles avevano svuotato il locale. Annette Peacock fu scaricata da Bowie, dopo la fine del suo rapporto con Bley. Conosciuta una nuova compagna, il pianista perse il sintetizzatore in un incendio del proprio appartamento a New York. Non se ne preoccupò troppo. Aveva appena ricevuto la telefonata di Manfred Eicher che lo invitava a incidere un disco di piano solo per la ECM. Diventò così uno dei punti di riferimento più ovvi del pianismo di Keith Jarrett, e dell'approdo del jazz a un porto stabile dopo gli anni del terremoto free. Liberare il tempo è il titolo dell'ultimo volumetto della biblioteca jazz di Quodlibet, dopo quelli sull'Art Ensemble of Chicago, Louis Armstrong e Jelly Roll Morton. David Lee, scrittore e contrabbassista canadese, ha raccolto i ricordi di Paul Bley (scomparso nel 2016) una ventina d'anni fa e ha dato forma a questa biografia reinventando la voce del suo protagonista Bley ha guidato le grandi trasformazioni del jazz: il salto nell'atonalità, la "liberazione" degli strumenti, la necessità di un nuovo repertorio oltre il songbook americano. Piena di piccoli aneddoti e di grandi lezioni, questa storia della musica più spericolata tra gli anni 50 e i 70, attraverso avventure e incontri tra il Greenwich Village e Los Angeles, è una lettura di grande piacevolezza oltre che un modello di rigore storico e scrittura critica non troppo frequentata da noi.