«La tragedia di Amleto è
molto diversa da quello che riteniamo: lunga com'è, è quasi
sempre tagliata e le riduzioni
ne favoriscono interpretazioni parziali. Questa versione
con testo a fronte è completa,
mantiene la distinzione fra
versi e prosa, e mira a rispettare gli aspetti fonici, la complessità immaginativa e metaforica, la compressione e tensione del linguaggio di Shakespeare, che ha registri e toni
diversificati per i vari personaggi, badando anche in italiano non solo al significato
ma al significante: allitterazioni, assonanze, richiami interni, rime. O si fa parlare anche
in italiano Shakespeare o non
serve, conta la voce, la phoné:
lo si traduce per la scena, non
perla pagina».
Sergio Perosa arriva oggi in
libreria con una nuova traduzione dell'Amleto si Shakespeare "La tragedia di Amleto, principe di Danimarca",
edita da Quodlibet (488 pagine con testo originale a fronte) quattromila versi, 180 pagine di commenti. Un lavoro
enorme quello del vicentino,
professore emerito all'università Ca' Foscari di Venezia e
dal 1969 collaboratore del
"Corriere della Sera". Ha
co-diretto il "Tutto Shakespeare" bilingue per Garzanti, ne ha tradotto nove drammi (anche per il teatro e la
TV), introdotto i Sonetti, e
scritto estesamente su di lui,
su H. James, F. S. Fitzgerald,
Virginia Woolf, Melville, Poe,
Dickinson, la narrativa e il teatro inglesi e americani. Da ultimo, Studies in Henry James
(2013, 2015), Il Veneto di Shakespeare (2018), Venice-Manhattan and the Routes of the
World. A Memoir (2020).
«Si tratta del decimo dramma di Shakesperare che traduco, non credo sarà l'ultimo, ci
sono altri scritti sui quali sto
lavorando, ma non posso fare
anticipazioni», prosegue Perosa.
Novant'anni, casa a Venezia, legami sempre molto
stretti con Vicenza. Dopo
aver frequentato il liceo classico Pigafetta, nel 1957 si laurea
in Lingue e letterature straniere a Ca' Foscari, specializzandosi alla Princeton University
(e poi all'Indiana School of
Letters,1957-1958), dove conclude le sue ricerche sui manoscritti e sugli inediti di F.S. Fitzgerald, ma il poeta inglese ritenuto il più eminente drammaturgo della cultura occidentale resta al centro dei
suoi studi.
Professore che cosa c'è in questa versione?
Innanzitutto c'è da dire che
Amleto non è uno come noi,
non è un mentecatto oppure
uno scemo, come si usava dire in quegli anni con quel nome. Ma figlio ed erede di un
Re a cui è stato scippato il trono che dovrebbe riconquistare fra difficoltà e ostacoli, fra
incertezze e dubbi, procrastinando, menandola per le lunghe ma gli ostacoli quasi insormontabili della corte e dell'animo sono sempre sul suo
cammino. Volevo dare esattamente il senso di chi era. Identificarsi e immedesimarsi con
lui, per l'uomo comune come
noi, come si fa da due secoli,
sembrerebbe un po' arduo, dato quel che è Amleto, e quelle
che sono le sue circostanze:
eppure lo si fa. Infatti forza e
complessità si fondono assieme.
Il testo sembrerebbe molto lungo?
Quella che tutti conosciamo
è metà del dramma, se ci fosse tutto durerebbe ore e sarebbe difficile da portare a teatro.
Ma il linguaggio di Shakespeare, soprattutto in questa
opera, è grumoloso, complesso, non scorre. Amleto come
dicevo si esprime in maniera
colta, gli fanno da contraltare
Polonio, Ofelia, la madre, lo
stesso Re usurpatore, lo stesso Spettro pauroso. È il metodo della doppiezza e dell'opposizione che conduce Shakespeare per la sua strada. Occorre assecondarlo, senza lasciarsi sviare, seguirne le giravolte e i nascondini, smarrirsi, subissati da una forza di linguaggio e da una costante onda di alta e bassa poiesi: questa è la caratteristica sua e del
suo mondo.
Ed Ofelia?
È una vittima delle sue torture, la svilisce in continuazione
fino a farla impazzire e fanno
bene le femministe a riconoscerla come un'eroina.
Che cosa l'ha affascinata di più
in Shakespeare?
Di per sé era ben poco, un attore della compagnia da cui traeva i suoi cespiti, con ambizioni di avanzamento sociale ed
economico, non proprio un
guitto, ma qualcuno di non
troppa importanza, di cui si
sa quasi nulla, perché nessuno, tantomeno lui, si prese la
briga di lasciar traccia: nessun manoscritto, lettera o diario, solo qualche firma legale
e, quasi per caso, i drammi,
che non si curava di pubblicare. Inventava poco di suo e
molto elaborava da spunti
presi qua e là, dove indirizzava la moda o la richiesta del
tempo e del momento. Non si
spiega come trovasse tutta
questa novità, padronanza,
ricchezza, forza e genialità di
linguaggio e pensiero.
Il dramma che preferisce?
Diciamo che il Mercante di
Venezia è quello in cui mi riconosco meglio, ma anche Giulio Cesare. Amleto l'ho affrontato in tarda età spinto anche
dalla pandemia che non mi
ha permesso, per lungo tempo, di raggiungere gli Stati
Uniti. Shakespeare lo scrisse
attorno ai 40-45 anni e nel
Seicento non era poco.