Recensioni / La tradizione filosofica italiana e i suoi paradigmi interpretativi

Non è chiaro se il volume di Corrado Claverini su La tradizione filosofica italiana voglia costituire un saggio di storia della filosofia o di filosofia teoretica. Il richiamo alla «tradizione», nonché la materia di una parte consistente del saggio stesso, parrebbero far propendere per la prima ipotesi: il volume tratta infatti, per larga parte, di intellettuali quali Bertrando Spaventa, Giovanni Gentile e Eugenio Garin, che ormai fanno parte del ‘canone’ filosofico nazionale. Il sottotitolo del saggio, però (Quattro paradigmi interpretativi), col suo riferirsi al «paradigma» e all’«interpretazione», parrebbe rimandare a un modello, a un impianto, più teoretico che storico, come è peraltro nelle intenzioni di quella Italian Theory che di fatto costituisce l’alveo del saggio, sia in relazione alla sua collocazione editoriale, sia come indirizzo di pensiero che definisce il quarto degli autori considerati, Roberto Esposito, a cui Claverini già si era richiamato, in un suo articolo di alcuni anni fa, come a suo punto di riferimento teorico. Claverini lì citava un volume che – raccogliendo i risultati di due convegni sul tema – poteva a buon diritto fungere da punto di partenza per la questione:

Che cos’è l’Italian Theory e perché si dice in inglese? Secondo le parole di Dario Gentili ed Elettra Stimilli, l’Italian Theory è un «orizzonte entro cui riflettere su autori e categorie che caratterizzano il pensiero filosofico e politico (in particolare quello elaborato a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, sempre più tradotto e discusso in altre lingue)».

Nel suo sforzo – che di fatto riproduce, pur se con strumenti ridotti, quello messo in atto da Esposito in Pensiero vivente (2010) – di istituire una continuità tra questa ‘filosofia’ (o indirizzo di pensiero, o «Theory», o «Thought», o come altro altrimenti la si voglia chiamare) e la «tradizione filosofica italiana», Claverini accenna a «tre fasi», ossia a tre momenti cronologicamente o storicamente distinti, di riflessione su questo tema. Il primo sarebbe quello costituito dall’opera di Spaventa, di Gentile e di Garin, opera che studia la ‘storia della filosofia italiana’ vera e propria e di cui variamente si individua l’origine nel Rinascimento, nell’Umanesimo o altrove, oltre a definirne il criterio di sviluppo (la ‘circolazione’, nel caso di Spaventa, il progressivo processo di immanentizzazione del reale, secondo Gentile, il maturare di una ‘coscienza civile’ presso gli intellettuali, nel caso di Garin). Il secondo momento sarebbe quello avviatosi con la stampa, da parte di Garin (dopo la pubblicazione della sua storia della filosofia italiana, nella prima edizione Vallardi uscita nel 1947 in due volumi con il titolo La filosofia), delle Cronache di filosofia italiana (1955), dove «il criterio nazionale non viene abbandonato, ma si preferisce adottarlo prendendo in esame soltanto la filosofia italiana contemporanea, rinunciando a fornire una ricostruzione completa dell’intera tradizione». È questo, in buona sostanza, il momento nel quale la filosofia accademica riflette, nel dopoguerra, sullo stato della disciplina in Italia, cercando di individuare di essa una fisionomia specifica, al di là della prassi allora invalsa di ‘importare’ merce straniera, entro un pronunciato atteggiamento esterofilo. Viene poi il terzo momento, quello coincidente «non più [con la] storia della filosofia italiana, non più [con lo] stato attuale della filosofia italiana, bensì [con] qualcosa che è stata chiamata in diversi modi: Italian Theory, Italian Thought, Italian Radical Thought e Italian Difference»:

Da questo punto di vista, l’Italian Theory è una continuazione della seconda fase della storia della storiografia italiana, ovvero quella che […] si interroga principalmente sul presente della filosofia italiana. In effetti, se seguiamo la definizione di Gentili e Stimilli, l’Italian Theory è innanzitutto una riflessione sui caratteri dell’odierna filosofia italiana dall’operaismo degli anni Settanta alla biopolitica italiana contemporanea. Tuttavia, c’è anche chi – come […] Esposito – opera un approfondito scavo genealogico mirante ad individuare un filo conduttore che tiene insieme la filosofia italiana dal Rinascimento fino ad oggi. Da questo punto di vista, l’approccio di Esposito è più simile a quello degli autori della prima fase della storiografia filosofica italiana che, a partire da Spaventa, offrivano una visione d’insieme dell’intera tradizione di pensiero nazionale. Interpretazioni differenti e, per certi versi, inconciliabili, ma pur sempre con qualche punto in comune. L’individuazione di una costante nella tradizione di pensiero italiana accomuna sia Spaventa che Esposito. Entrambi, fra l’altro, individuano tale costante in una categoria molto generica. Il primo parla di “ingegno precursore”, mentre il secondo di “pensiero vivente”.

Ecco quindi palesarsi la questione della «tradizione filosofica italiana», che Claverini assorbe dal ‘paradigma’ del «pensiero vivente» elaborato da Esposito e posto alla base del suo noto studio del 2010. Il «paradigma interpretativo» di Esposito (così come quello di Spaventa) è qui definito «categoria molto generica», e la cosa merita di essere notata, soprattutto nel momento in cui Claverini (è questa una costante del suo lavoro) viene interamente oscurato proprio da Esposito nel corso della sua esposizione.
Il pensiero vivente – con esso a questo punto occorre confrontarsi – è quindi di fatto la biopolitica. Da più di trent’anni a questa parte Esposito è infatti essenzialmente un filosofo della politica, per quanto la sua indagine sulle «origini» della filosofia italiana (oltre che sulla sua «attualità») rimandi in fondo più ai suoi trascorsi giovanili di storico del pensiero politico che a questa sua dimensione intellettuale più recente. Uno studioso attento come Pietro Piovani ebbe modo di soffermarvisi. Nel 1977, dando conto sul «Bollettino del Centro di Studi Vichiani» della monografia di Esposito su Vico e Rousseau e il moderno Stato borghese (1976), osservò:

L’autore, come appare qua e là da qualche osservazione fine, deve avere del talento. Ma il libro non gli dà occasione di dimostrarlo. Il metodo seguito e il modo di scrivere gli vietano tassativamente una ricerca precisa che possa apportare specifici contributi. Chiuse dentro un gergo di gruppo, le pagine sembrano non voler stabili re un contatto essoterico coi lettori non iniziati, i quali, così, sono scoraggiati, quasi esentati, da uno sforzo di comprensione che, a conti fatti, non appare né sollecitato né gradito. Il sommario del libro, da solo, lo prova [segue qui puntuale resoconto del sommario stesso]. La terminologia già dice come il discorso dell’autore si sovrapponga a quello di Vico e Rousseau fino a coprirlo. Tuttavia, a cercare di sollevare il fitto velame delle formule, ci si accorge che l’Esposito tende non tanto ad appoggiarsi al ragionamento dei due classici inopinatamente chiamati in causa quanto a prescinderne o a prenderlo in considerazione soltanto per indirette allusioni, fondate su numerate citazioni che, appunto, rimangono tali, galleggiando rischiosamente su una superficie di bassi fondali: non sono – e non vogliono essere – giustificazioni di un ragionamento che, in sistematica profondità, se ne documenti e se ne sostanzi. L’introduzione ci avverte: «Il saggio intende tagliare in trasversale, nella produzione dei due autori, una serie di temi dominanti, e leggervi attraverso categorie teoriche capaci di liberare il senso più profondo che li carica e preme sotto la compattezza opaca dell’idea». Ma i testi di Vico e di Rousseau, più che «tagliati» secondo il proposito, appaiono sforbiciati con scelte che vogliono essere rappresentative, ma al lettore sembrano, spesso, del tutto casuali. [N]el ricorso alle «categorie storiche» evocate, Vico e Rousseau sono puri nomina. A inseguirli per i vari capitoli si perde tempo, rischiando di passare dalla onnipresente categoria del «tempo storico» alla categoria del tempo perduto (non in senso proustiano).

Non vogliamo qui spingerci a sostenere, al pari di quanto faceva Piovani allora, che, nel ricostruire più di trent’anni dopo la fisionomia del pensiero italiano da Machiavelli ai tempi nostri, Esposito si sia attenuto non tanto al «dominio della scienza» quanto ai «capricci della pura fantasia». Esaminando però di quel libro le sezioni più vicine a quelle del saggio di Claverini, ossia le parti in cui si tratta del pensiero di Croce e di Gentile, è difficile sfuggire all’impressione che il metodo seguito non sia lontanissimo da quello appena segnalato, certo all’interno di coordinate teoriche che oggi sono molto diverse.
Nel saggio del 2010 la prassi del «taglio in trasversale» o delle «indirette allusioni» dà luogo infatti, perlomeno, a un difetto di contestualizzazione. Si tratta del caso del «testo» di Croce «rivolto polemicamente a Genti le» e «intitolato Contro la troppa filosofia politica». Ad esso Esposito rimanda con una certa enfasi, peraltro giustificata, evitando però di datarlo puntualmente al 1923. Solo se riferito a quell’anno, tuttavia, questo scritto acquista per intero il significato suo proprio, che è quello di un’anticipazione, da parte di Croce, della sua presa di distanza da Gentile e dalla postura da questi (e dai suoi allievi presso l’Università di Roma, ai quali in realtà quel lo scritto è indirizzato) assunta nei confronti del fascismo, presa di distanza esplicitata poi nella famosa lettera del 24 ottobre 1924, che termina il carteggio tra i due, e ulteriormente argomentata nel ‘contromanifesto’ del 1925. Se riferiti al 1914 invece, come inopinatamente si suggerisce nelle note a piè di pagina al lettore curioso, i contenuti di quello scritto di Croce possono ingenerare qualche confusione, perché è proprio durante la Grande guerra, dopo la polemica intercorsa sulla «Voce» e dopo l’iniziale opzione neutralista di Croce, che il rapporto tra questi e Gentile si rinsalda nell’impegno patriottico, per culminare poi nella riforma scolastica del 1923, che ebbe in Croce un energico patrocinatore.
Si dirà che quello appena menzionato è soltanto un episodio, secondario rispetto all’economia complessiva dello studio. Esso tuttavia allude a una modalità espositiva di fondo, che trova il suo riflesso nel più generale impianto del lavoro. Per limitarsi qui alla sezione presa in considerazione, qualificare come «filosofia e resistenza» e «in interiore homine» rispettivamente il pensiero di Croce e di Gentile, additandone così presunti elementi caratteristici al di là, o al di qua, di ogni possibile contestualizzazione, sortisce in fondo l’effetto di riassorbire questi due autori – dei quali pure si riconosce la centralità nella vicenda intellettuale del Novecento italiano – entro categorie che con il loro pensiero reale, ossia con la loro effettiva attività intellettuale, poco o nulla hanno a che vedere. Restiamo allora a Croce. Claverini richiama ancora Esposito e – muovendo dall’assunto per cui «quella italiana è stata meno una filosofia del potere che della resistenza» – afferma che «se Gentile intende il proprio ruolo filosofico all’interno dello Stato, Croce e Gramsci si pongono, almeno nel periodo fascista, diversamente, contro di esso». Ora, nel caso di Croce ciò non è affatto vero, perché egli – Senatore del Regno, prima, durante e dopo il regime fascista – costantemente intese il suo ruolo, politico e culturale, all’interno dello Stato e non contro di esso e, se fu oppositore o «resistente», lo fu del fascismo, non certo dello Stato. Questa sua strenua fedeltà alle istituzioni, che è il suo vero crisma politico, è provata, se non altro, dalla sua adesione alla campagna per l’oro alla Patria in occasione della guerra d’Etiopia:

quantunque io non approvi la politica del Governo, ho accolto in omaggio al nome della Patria l’invito dell’Eccellenza Vostra ed ho rimesso alla Questura del Senato la mia medaglia che ha la data del 1910.

Analogo discorso può farsi per la scelta monarchica di Croce dopo la cauta del regime: in essa può infatti riconoscersi, da parte di un liberale coninto, proprio l’adesione al criterio della continuità dello Stato. Allo stesso modo, rispetto a Gentile, il riferimento all’interiore homine, se ha una sua legittimità in relazione ai Fondamenti della filosofia del diritto (che Esposito erroneamente cita come «Fondamenti del diritto»), ovvero alle fonti – agostiniane e non univocamente hegeliane – della sua concezione dello Stato, risulta quantomeno forzato se utilizzato per stringere, alla luce di un’unica categoria, tutto il pensiero di Gentile, muovendo da Genesi e struttura della società, ossia da uno scritto che origina in un contesto tutto particolare, quello della crisi bellica, e che è integralmente pervaso dal sentimento, anche personale, della fine imminente. Fare di quel sentimento la cifra qualificante l’intero pensiero di Gentile, e giustificare poi su quella base le sue opzioni politiche, o un suo presunto ‘nichilismo’, porta ancora una volta lontano dai lidi della comprensione storica.
Si potrebbero portare qui altri esempi di questo modo di procedere.
Che essi dipendano da un difetto dell’impianto concettuale di chi indaga, piuttosto che dal deliberato intento di riorientare nel lettore la comprensione della storia della filosofia italiana, poco importa. Occorre restare ai fatti, che coincidono con un’intenzione dichiarata, quella di «prendere di contropelo l’intera storiografia idealistica»:

Non soltanto la filosofia italiana non è riducibile al proprio ruolo nazionale, ma trova la sua ragione più autentica precisamente nella distanza da esso. Come già si diceva a proposito della dialettica tra territorializzazione e deterritorializzazione, il carattere più intensamente geofilosofico della cultura italiana sta in una terra che non coincide con la nazione e che anzi si costituisce, per una lunghissima fase, nella sua assenza.

Proprio mentre si invocano Deleuze e Guattari («[i]l pensare si realizza nel rapporto fra il territorio e la terra») però – e la cosa è curiosa – involontariamente si documenta come gli stessi due teorici francesi giustifichino la circostanza che all’Italia, così come alla Spagna, «mancava un “ambiente” [sc. propizio] per la filosofia» riconducendolo al fatto che l’Italia era «troppo “vicina” al Soglio Pontificio». In altri termini, la «geofilosofia» intuisce qui ciò che al «pensiero vivente», al contrario, sfugge, ossia che Chiesa tridentina e libera circolazione del pensiero non erano tra loro facilmente armonizzabili. Il richiamo a Deleuze e Guattari, quindi, piuttosto che mettere definitivamente in mora «l’intera storiografia idealistica», di fatto la riabilita, proprio nel momento in cui si coltivava invece la presunzione di potersene affrancare in nome della ‘nuova’ egemonia: quella, appunto, della Theory.
«Una terra che non coincide con la nazione», scrive Esposito: come è noto, se c’è un tratto che accomuna l’intera – per usare i termini di questo volume – «genealogia» di pensiero coincidente con la triade Spaventa-Gentile-Garin, questo è proprio costituito dalla volontà di sollecitare, nel corpo della nazione, il costituirsi di una ‘coscienza’, nelle forme varie che essa poteva assumere rispettivamente nella prima stagione unitaria (Spaventa), in coincidenza con l’accelerazione impressa alla vita pubblica con l’ingresso nella Grande guerra (Gentile), dopo il trauma dell’esperienza fascista e entro la nuova stagione democratica (Garin). La Theory invece muove da tutt’altri presupposti. Laddove se ne scorra sommariamente la letteratura, soprattutto quella primaria, si nota come essa può essere fatta coincidere con quella variegata galassia di pensiero – radicalmente ‘antagonista’ – che muove dall’operaismo italiano degli anni Sessanta, passa per la crisi del rapporto tra gli intellettuali e il Partito comunista e riceve nuova linfa, da un lato, con l’esperienza della rivista napoletana «Il Centauro», dall’altro con l’«esilio» di Antonio Negri e con la fortuna di questi – e di altri pensatori a lui variamente collegati – negli Stati Uniti a partire dagli anni Novanta.
È innegabile che la rivista fondata e diretta da Biagio de Giovanni abbia costituito il punto di raccordo di un gruppo di intellettuali che ha poi avviato l’approfondimento di temi di filosofia politica – tra Nietzsche e Carl Schmitt, tanto per intenderci –, temi che hanno poi trovato un loro momento di sintesi significativa proprio nello studio di Esposito del 1988 dedicato all’«impolitico». E ci pare altrettanto incontestabile la capacità avuta – da autori quali Agamben, per un verso, e il già citato Negri, per un altro – di recuperare temi e soluzioni (in chiave marcatamente politica, ossia ‘anticapitalistica’) di sapore foucaultiano in funzione di un pubblico americano già aduso, da un certo momento in avanti, a ragionare nei termini di una Theory che inizialmente era qualificata dall’essere French. Ora tutto ciò trova, con il pensiero vivente di Esposito e con la canonizzazione della Theory (o del Thought), legittimazione ‘nazionale’ con l’istituzione di questo ‘paradigma’, quello «deterritorializzato».
Di tutto ciò non vi è se non un vago sentore nel libro di Claverini. O meglio, nell’apparato, che è ricchissimo, di note e di fonti bibliografiche, sono presenti tutti quei materiali che, se studiati, aiutano a ricostruire un quadro di questo tipo; così come è presente una messe di citazioni selezionate di Spaventa, Gentile e Garin che, ancora una volta se utilizzata come spunto per lo studio e per l’accorta contestualizzazione, permette di smentire la tesi «di contropelo» di Esposito, ossia di verificare puntualmente la solidità delle impostazioni ‘scientifiche’ (ognuna valida per il suo problema specifico, ossia per l’insieme di questioni che esse intendevano mettere a tema) di ciascuno di questi tre grandi storici della filosofia. Claverini però non va in questa direzione. Egli fa invece propri, o dichiara di fare propri, certi assunti ‘metodologici’, animati dall’intento di «attivare scandagli genealogici» volti ad «impedire ogni ecumenismo storiografico» («magari anche a costo di qualche salutare forzatura»):

forse non c’è stato un solo filosofo, vero, che non sia stato tramandatore/traditore del passato, e perciò spesso inviso ai gelosi detentori del già acquisito, comodo e confortante. Un gesto che, certo, non rispetta in modo devoto e commosso il passato, ma proprio così facendo, proprio nel profanarne il profilo canonico, tanto più lo mantiene vivo nel saperci dire qualcosa che ci riguarda da vicino – oggi e proprio oggi.

Sono parole, queste, di Enrica Lisciani-Petrini, che Claverini ringrazia per aver «segnato in maniera indelebile» il suo lavoro, e che – rispetto a quella che questi definisce una «modalità di ripensare la tradizione italiana in una chiave squisitamente speculativa» – si esprime in questi termini:

La rivisitazione della tradizione messa in atto non è anodinamente storiografica (ammesso che la vera storiografia sia mai davvero tale), ossia volta al semplice recupero o alla banale custodia «museale» di un patrimonio di pensiero ereditato. Non si tratta insomma di lavorare con operazioni di cesello su questo o quel concetto, su questo o quell’autore del passato, indifferenziatamente accolti. Ciò che peraltro, come ebbe a dire Foucault con la consueta, icastica lucidità, è «il più commovente dei tradimenti» rispetto alla tradizione che pur si vuole gelosamente custodire. Si tratta di ben altro. E cioè di guardare al passato partendo da una precisa visione delle cose, che nasce dal nostro presente ed è impiantata sugli assi categoriali prima ricordati [sc. la vita, la politica, la genealogia e il linguaggio]. Nella chiave di quella «ontologia dell’attualità» verso la quale Foucault per primo ci ha insegnato a guardare.

Si tratterebbe di capire se Spaventa, Gentile e Garin si siano dedicati, ciascuno per parte sua, alla loro opera di storici della filosofia animati dalla volontà di un «semplice recupero» o di una «banale custodia “museale” di un patrimonio di pensiero ereditato», o se piuttosto chi ritiene di poterli mettere sullo stesso piano di autori più recenti non debba perlomeno interrogarsi sulla solidità scientifica, in relazione al loro utilizzo storiografico e al fine del reale intendimento della «tradizione italiana», di certi «paradigmi interpretativi».

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