Recensioni / I comunisti, dai comunardi ai comunitari

Comunità: a partire da un libro di Curreri

Le parole sono oggetti a cui si dà l’uso che uno vuole, che ritiene più opportuno, che “serve” di più in un dato momento. Non esistono parole il cui significato rimane immutato. E anche la sua forma cambia - le parole perdono pezzi, ricevono aggiunte, cambiano di pronuncia, migrano da un alfabeto a un altro. E il contesto - perché una parola non vive mai sola, ma sempre nel contesto: di una frase, di una intenzione, di un ambiente culturale in cui viene pronunciata.
Metti una parola qualsiasi. Metti “comunità”.
Mi capita di ruzzolare su questa parola a partire da una replica televisiva, di una puntata del programma di storia trasmesso da Rai3, televisione, “Passato e presente” condotto da Paolo Mieli. La puntata 61 della seconda serie si intitola “La Comune di Parigi” e va in onda la prima volta il 12 febbraio 2019. Quale storico viene chiamato Luciano Curreri. Come sempre in questo programma, spezzoni di immagini e video molto belli, in 40 minuti si danno alcune indicazioni su quello che rimane un capitolo della storia europea recente tra i più importanti e densi.
È un argomento che, per chi è stato nella sinistra storica del Novecento, ha avuto molte implicazioni. Un forte interesse. Per chi vive negli anni Venti del Ventesimo secolo probabilmente le cose sono più sfaccettate.
Curreri è autore di un libro intitolato: La Comune di Parigi e l’Europa della Comunità? briciole di immagini e di idee per un ritorno della Commune de Paris (1871). La maceratese Quodlibet l’aveva editato nel 2019. È molto interessante come Curreri riesca a utilizzare fili di paglia secondari per mostrare in controluce, in falsariga, da nuove e diverse minute angolazioni apparentemente marginali, un oggetto su cui credevamo di sapere "tutto".
Indice: 1. La Comune di Parigi e l’Europa della Comunità? Briciole di immagini e di idee: noticine d’utopia e sassolini nelle scarpe 2. Prove per posizionarsi altrimenti. Un microsaggio, quasi une entrée en matière 3. Dal «patron communal» (1870) di Victor Hugo (1802) all’«Europe parallèle» (1976) di Denis de Rougemont (1906). Materiali (e immaginari) 4. Concludendo con la BD. Altri materiali (e immaginari) Bibliografia Abstract Notizia biografica.

La Commune

«La Comune di Parigi è il governo socialista che diresse Parigi dal 18 marzo al 28 maggio 1871.
A seguito delle sconfitte militari sofferte dalla Francia nella guerra franco-prussiana contro la Prussia, il 4 settembre 1870 la popolazione di Parigi impose la proclamazione della Repubblica, contando di ottenere riforme sociali e la prosecuzione della guerra. Quando il governo provvisorio deluse le sue aspettative e l’Assemblea nazionale, eletta l’8 febbraio 1871, impose la pace e minacciò il ritorno della monarchia, il 18 marzo 1871 Parigi insorse cacciando il governo Thiers che aveva tentato di disarmare la città, e il 26 marzo elesse direttamente il governo cittadino, sopprimendo l’istituto parlamentare.
La Comune, che adottò a proprio simbolo la bandiera rossa, eliminò l’esercito permanente e armò i cittadini, stabilì l’istruzione laica e gratuita, rese elettivi e revocabili i magistrati e tutti i funzionari, retribuì i funzionari pubblici e i membri del Consiglio della Comune con salari prossimi a quelli operai, favorì le associazioni dei lavoratori ed iniziò l’epurazione degli oppositori, quali i cittadini fedeli al Governo legittimo e i rappresentanti religiosi.
L’opera della Comune fu interrotta dalla reazione del Governo e dell’Assemblea Nazionale, stabiliti a Versailles. Iniziati i combattimenti nei primi giorni di aprile, l’esercito comandato da Mac-Mahon pose fine all’esperienza della Comune entrando a Parigi il 21 maggio e massacrando in una settimana almeno 20.000 parigini compromessi con la rivolta (la cosiddetta semaine sanglante, settimana sanguinosa). Seguirono decine di migliaia di condanne e di deportazioni, mentre migliaia di parigini fuggirono all’estero.» (fonte: Wikipedia).
L’interesse, parte di una risonanza sentimentale che si attiva immediatamente quasi una sinestesia, al solo sentire la parola - per la Comune di Parigi - con esplosione di colori, i miei sono colori d’autunno, bordeaux e verdi del crepuscolo, strade bagnate - la discesa di Montmartre - le brume nebbiose dei grandi viali - lo debbo come molte cose che riguardano la politica a mio zio, fratello di mia madre, impegnatissimo negli anni del Sessantotto a protestare in Università e molto meno a preparare una sua tesi proprio sulla Comune, argomento in cui convergevano i suoi interessi neofiti politici - spirito rivoluzionario e barricadero, insurrezionalista - d’altra parte lui aveva provato a offrirsi quando era ancora minorenne come volontario in Vietman (ricevendo all’ambasciata vietnamita a Roma un cortese quanto perplesso rifiuto). Sui dettagli delle vicende politico di questo mio zio, ebbi contezza solo molti anni dopo - ma in età adolescenziale qualcosa dovette passare, in maniera indiretta e filtrata - se mi è rimasta - a me e a tutti quelli della mia “generazione”, ovvero per la parte della mia generazione che s’infarinò con la sinistra - questo interesse per l’argomento che mi porta ogni volta inciampo su di esso a soffermarmi, per leggere le righe, scandagliare, accantonare il dato nel ripostiglio della memoria dove spero sempre possa essere nuovamente accessibile per un uso futuro - quale sia non so, la mia è una strategia prudenziale di lungo periodo. Né io ho mai avuto modo di andare oltre la lettura di questo o quel documento o testo. Ma finendo per accumulare credo una buona conoscenza sull’argomento, tale da riuscire a distinguere chi scrive minchiate e chi invece apporta nuovi argomenti di conoscenza. Magari, penso, qualche discendenza un giorno potrà concretizzare maggiormente questo interesse. Perché poi quel mio zio, travolto dall’interesse di partito, mancò di presentare la tesi essendo più urgente per lui l’impegno e il lavoro politico che non il titolo. Aggiungendosi in questo modo alla lista lunga parentale di coloro che fecero il gran rifiuto a mezzo passo dalla laurea.
Attorno all’argomento Comune di Parigi convergono e si aggrovigliano molti temi che interessano la sinistra politica e coloro che sperano in un mondo migliore (le due parti, oggi, non coincidono e da molti indizi si potrebbe persino dire che la separazione tra queste due parti si verificò anche allora), e che rimangono ferita aperta. È un nodo della storia, che ancora pulsa.

Comunisti e localisti

“Nostra patria è il mondo intero, nostra patria è la libertà” cantavano gli anarchici, abbracciando un’idea di comunità internazionalista, che abbatteva i confini e i muri che rinserravano le popolazioni nella finzione delle nazioni. E internazionalista è stato il movimento socialista - salvo poi sbattere il muso contro la prima e la seconda guerra mondiale. Internazionalista il movimento marxista e comunista: a parte la dottrina staliniana del “socialismo in un unico Paese” assediato.
Negli anni Settanta del Novecento si è cominciato a dire: “pensare globalmente, agire localmente”. Ma interpretando l’anelito del pensiero globalista (internazionalista) nell’ambito del problemi e delle vicende dei singoli Paesi. Dopo, negli anni Ottanta del Novecento questo locale si è fatto sempre più ristretto, man mano che si sfaldavano le consistenze dei partiti della Sinistra novecentesca. Il locale diventa così la propria valle, il proprio quartiere, il caseggiato in cui si vive. E i problemi passano da quelli astratti e dottrinari (su cui un ventennio prima si muovevano masse consistenti di giovani indignati), alla rincorsa di un contatto con le persone da convertire al verbo politico attraverso la lotta attorno ai problemi quotidiani: l’acqua, la spazzatura, la cementificazione, l’inquinamento… Con la difficoltà che le persone, anche loro, hanno avuto esperienza di quegli anni precedenti e ora, appena annusano un politico, specie uno che è reduce di così tante sconfitte, tendono a mandarti a quel paese. Quello sì lontano e indistinto, oltremondano. Allora tu (loro) devi (devono - ma davvero “debbono”?) nascondere la tua verità, far finta di essere agnello - una rispolveratina alle metafore bibliche giova sempre.

Dalla Comune alla comunità di territorio

Fare “comune”, fare “comunità” mi sembra cosa diversa del discutere sul “territorio”. Da una parte c’è un contenuto, dall’altra un contenente. E sia del contenuto che del contenente non si può fare di tutta erba un fascio. Chi fa parte della comunità e chi no? chi decide chi ne debba far parte e chi no? Chi decide all’interno della comunità e con quali modalità? E ancora: territorio è termine generico, che poi va sostanziato nella concretezza di ciò che si trova nella delimitazione (chi decide la delimitazione? cosa fa parte del territorio e cosa no?): collina non è lo stesso che pianura, e le risorse che è possibile ricavare dagli ambienti portano a una diversificazione tra chi si trova nel territorio. E ancora: l’appartenenza a un territorio, chi decide la sua assegnazione? con quali criteri? e questi criteri, chi li decide?
Ogni “territorio” è in realtà condizionato dalle stesse sperequazioni economiche, sociali e di classe che si verificano e riflettono nel “macro” (a livello via via espanso: provinciale, regionale, nazionale, continentale ecc.). Nel piccolo non si sfugge a ciò che è nel grande. Non solo: nel piccolo non si ha la possibilità di vincere se a livello sovrastante non avviene un analogo sovvertimento. Se “il socialismo in un solo Paese” non è possibile, non lo è neppure il “socialismo in un solo quartiere” o “in un solo condominio”. La “guerra” immaginata dai territorialisti nel loro piccolo cortile di casa è solo il gioco di una banda di bambini, i ragazzi della via Paal che - appunto - giocano “alla guerriglia”. Replicano la violenza e la crudeltà del mondo immaginato degli adulti nei loro giochetti infantili che scimmiottano i grandi. Riproduttori della violenza, non sono meno violenti e i loro meccanismi meno perversi di quelli accusati nei “grandi”. La favola del territorio facilmente si involve nella favola del signore delle mosche.
Certo, l’idea di “Comunità” è stato declinato ora in maniera diversa con l’Unione Europea (UE) e la Comunità Europea (EC). Ma già con la Commonwealth inglese la “cosa” aveva avuto una prima deviazione. Fu Cromwell a coniare il termine per indicare il “benessere” (wealth) comune; poi divenuto comunità delle Nazioni, aderenti alla corona imperiale britannica.

Second life e i Social
L’idea di community si trasferisce ai Soviet, ai kibbutz, e dopo gli anni delle comunità hippies e di quelle dei tossicodipendenti degli anni Settanta del Novecento, nell’Internet. L’idea libertaria dello scambio e della condivisione delle idee, da cui deriva Girodivite e Wikipedia viene deviata dall’idea della comunità ludica e ad usum commerciale. Attorno al 2000 è la grande "bolla" che rafforza, in Internet, la nuova declinazione dei "social network" che favorisce poche grandi corporation (una struttura sociale e di potere tipica del mondo anglosassone). L’Internet viene privatizzato, i "navigatori" diventano clienti e fornitori gratuiti di contenuti e di profili socio-economici da poter rivendere e quotare in borsa. Il gratuito diventa mercato delle vacche (e la vacca sei tu). La community nei social network è un recinto all’interno del quale belano gli utenti/utonti, adeguatamente controllati da un sistema semi-automatico di elaborazione di dati (l’algoritmo: con effetti comici per chi utilizza questa parola senza sapere cosa sia, in maniera superstiziosa).
Si passa dall’open source e open content, al sistema di controllo digitale del nuovo mondo (il capitalismo 4.0). Dagli ICR e forum (le community basate sugli interessi in comune) alle chat e ai flussi di post in cui in cambio dello sfogo di una comunicazione, pensare di essere circondati da un mondo di "amici" si viene settorializzati, circoscritti, manipolati nella "cerchia" dei risultati di ricerca che è possibile ottenere, della pubblicità targhettizzata da cui si viene raggiunti, e continuamente profilati su tutte le "azioni" che si compiono online.

Struttura e distopia

Una città è una "comunità"? o è solo una struttura al cui interno agiscono strutture sociali le più diverse, anche conflittuali, che mostrano i più diversi livelli e stratificazioni sociali? Chi sono "i più" chiamati a governare la città, contrapposti all’uno che domina la città?
Esiste un’idea di comunità che l’utopismo borghese del Novecento ha perseguito: si pensi al tentativo di Olivetti. E sono esistite, sparsi nella letteratura, le più varie visioni di utopismo comunitario provenienti dalla trattatistica e dalla letteratura (occidentali): da Thomas More a Campanella via via. Ultimamente mi è capitato di leggere sull’idea comunitaria in letteratura, tra gli intellettuali (la rivista "Cenobio" e derivati). E un romanzo appartenente al genere della fantascienza (luogo per eccellenza della distopia comunitaria): "L’alveare di Hellstrom" di Frank Herbert. Qui la costruzione della nuova società e dell’uomo nuovo avviene - nella forma della città-alveare, i singoli come parte di una comunità superiore come le api nei confronti dell’alveare - non nella condivisione con il resto dell’umanità, ma nella separatezza e nel superamento del resto dell’umanità, tenuta a bada prima con l’arma distruttiva (la tecnica) per poi essere destinata al superamento bio-ecologico.
In realtà chiunque voglia maneggiare strumenti concettuali come comunità, locale e territorio, dovrebbe sempre porsi davanti il problema strutturale, e delle forze reali sociali (di classe) in campo. I contadini possono anche organizzare rivolte - e magari qualcuno può anche inebriarsi sul momento nell’esaltazione della distruzione - ma il barone locale vince perché ha dalla sua la protezione degli altri baroni. La struttura sociale del potere dominante è più forte della "forza rivoluzionaria". La sconfitta subita dalla Commune di Parigi ha pesato fino ad oggi nella storia del movimento; così come la presa del potere della minoranza che, sostituendosi ai baroni, ha perpetuato e inasprito (modernizzandolo) il sistema di sfruttamento e di dominio del sistema baronale precedente (il modello leninista).

Dal piccolo al grande

Di fronte al problema dato dalla globalizzazione si risponde con l’idea localistica. Oppure si prova la strada dell’indebolimento delle strutture statali a favore del formarsi e del rafforzamento di una struttura più grande, continentale - a imitazione di quanto sta avvenendo con la formazione dei nuovi super-Stati continentali "vincenti" nella partita internazionale. L’Unione europea tenta i suoi passi con la doppia faccia della sua moneta (l’euro): il subcontinente da una parte, il simbolo dello Stato nazionale dall’altra. Se avesse voluto fare un discorso nuovo e aperto avrebbe scelto un altro nome per la sua moneta; ha invece scelto questo nome. Che restringe e separa nel momento in cui vuole coagulare gli Stati europei attorno a sé. L’idea insomma della "fortezza Europa" che nasce con Napoleone e per pochi anni ha il nome sinistro di Hitler.
Nata come compromesso tra Stati, all’interno di una Costituzione che - ad es_ per la parte italiana ha il volto, le fattezze e la cultura e storia politica di Giuliano Amato - non è fatta dai popoli per le libertà e la felicità dei tutti, ma da una élite per gli interessi e i privilegi dei pochi. Strumento di governance da parte dei ceti già al potere. L’Europa nasce con questo "equivoco" o "contraddizione" (per dirla in termini buonisti) scippando l’idea comunitaria, "europeista" a chi intendeva la federazione delle regioni europee in senso diverso e altro. Nata non da una rivoluzione sociale, ma da un compromesso di ceti al potere all’interno dei singoli Stati i "limiti" sono immanenti al "progetto europeo".
Curreri ci invita a riguardare questo "progetto europeo", declinato nella realtà del dominio di potere sulla comunità, alla luce di un altro progetto. Forse sarebbe il caso di ricominciare a studiare e ricordare chi siamo e da dove veniamo.