Non c'era, una volta, il
design italiano. Oggi
acclamato in tutto il
mondo, ancora all'inizio degli anni
Cinquanta il design
era, nel nostro Paese, un concetto
pressoché sconosciuto. Già il termine
pareva ostico perché straniero (a Milano e in Brianza molti lo pronunciavano alla lombarda: «design»); ma soprattutto esso implicava un passaggio
teorico e operativo non da poco. Significava superare la dimensione dell'artigianato verso quella dell'industria, la
scala locale per quella internazionale,
la tradizione per la modernità, aprendosi a dinamiche che avrebbero caratterizzato la società dei consumi.
Nonostante le precoci esperienze di qualche singolo (Gio Ponti), istituzione (Triennale di Milano) e impresa (Olivetti), ci si trovava insomma
di fronte a un terreno quasi incolto,
che tuttavia si dimostrerà fertilissimo
nel giro di pochi anni - quelli del miracolo economico - grazie a un manipolo di architetti-designer e imprenditori. Tra questi pionieri, una menzione
speciale merita Alberto Rosselli (1921-1976), alla cui opera è dedicato un tomo di 648 pagine curato dal figlio Paolo, fotografo e custode dell'archivio,
dopo anni di silenzio storiografico.
Socio e genero di Gio Ponti, Alberto Rosselli progettò molto insieme al
suocero (il grattacielo Pirelli)e in relativa autonomia (l'edificio per le rotative
del «Corriere della Sera» a Milano; gli
edifici per il governo del Pakistan a Islamabad; l'autobus Meteor; la poltroncina Jumbo; eccetera), ma si distinse soprattutto nel «dissodare» il terreno del
design - l'espressione è di Marco Zanuso - mediante un'opera di tenace divulgazione e promozione. Tra i fondatori dell'Associazione per il Disegno Industriale
e del Compasso d'Oro, Rosselli diffuse
infatti i principi del disegno industriale
con una significativa rubrica su «Domus» e poi, dal 1954, con una nuova rivista intitolata «Stile Industria», in cui
raccolse il meglio della cultura tecnica
italiana e internazionale, con servizi accuratissimi accompagnati da una sofisticata veste grafica e dalle copertine di
Munari, Steiner, Provinciali, Noorda e
altri campioni dell'impaginato. Si sarebbe dovuta chiamare «Arte Industria»; fu scelto «Stile» per continuità
con il titolo di un'altra magnifica rivista
pubblicata da Ponti durante la guerra.
Arte e industria rimasero comunque i due estremi da ricomporre
secondo la visione di Rosselli, «strutturalmente anglosassone» e addirittura vittoriano (disse il collega Giancarlo Pozzi) per rigore metodologico
e fiducia nella tecnica, ma pure attento
agli stimoli delle arti. Come sottolinea
Maria Cristina Tonelli nel volume, nei
suoi scritti (qui ripubblicati) Rosselli si
scagliava contro i pregiudizi degli industriali che dubitavano del contributo degli artisti alla loro causa. In «Stile
Industria» troviamo allora il tentativo
di unire le Due Culture di Charles Percy
Snow (1959), in maniera parallela a
quanto proposto dal poeta ingegnere
Leonardo Sinisgalli con «Civiltà delle
Macchine» (edita dal 1953).
Ostinato e riservato, Rosselli coltivò dunque il sogno positivista di un
metodo industriale da applicare alla
nuova (in Italia) professione di designer,
così come all'architettura. Nel lavorare
al grattacielo Pirelli all'ombra di due giganti come Ponti e Pier Luigi Nervi, seppe trovare il proprio spazio sviluppando
il «progetto come processo», la rivoluzione dell'open space e la precisione delle facciate industriali. Simile scelta di
campo fece in Pakistan, dove - spiegano
Carlo Gandolfi e Luka Skansi- il concetto di Systematic Design è declinato rispetto alla realtà tecnologica locale.
Tante altre sono le tematiche che emergono: dalla forma della scrittura di
Rosselli (Anna Maria Siekiera) alla ricerca «dell'essenza delle cose al servizio
di tutti» nel design (Giampiero Bosoni),
oltre a un apparato iconografico d'archivio arricchito dagli scatti recenti di
Paolo Rosselli, il quale firma un ricordo
in cui le memorie familiari rievocano
un milieu milanese ormai scomparso.
Ma la storia di Rosselli fu anche
caratterizzata da due epiloghi, l'uno editoriale e l'altro esistenziale. Il primo è la
chiusura di «Stile Industria» nel 1963,
dopo appena nove anni, per lo scarso
successo di vendite e pubblicità. Fu un
duro colpo. Il secondo epilogo fu quello
personale, tragico e imprevisto: nel 1976
Rosselli si tolse la vita, proprio mentre
l'Italian Design si godeva l'onda del successo internazionale tributato al MoMA
di New York con la grande mostra Italy:
the New Domestic Landscape (1972), e già
guardava a una nuova stagione creativa
oltre i dogmi del modernismo.
La dimensione privata di quel
gesto fu rotta dalla penna di Bruno Zevi
che lo rilesse in chiave culturale, titolando: Si è suicidato il design. «Personaggio enigmatico, degno di Camus»,
per Zevi Rosselli «incarna un design
tradito che, appunto, si suicida per
esorcizzare la distruzione». Dopo le
contestazioni studentesche del 1968,
che avevano preso di mira alcuni dei
principi a lui cari, fu proprio la mostra
del 1972 - cui aveva partecipato con
un'innovativa casa mobile che sperò di
produrre in serie, ma senza successo -
rappresentò uno spartiacque, accostando visioni in fin dei conti incompatibili. La fiducia in un metodo scientifico fu infatti affiancata dall'entropia -
ora ironica, ora caustica - di un'utopia
critica, in cui la tecnologia assumeva
tutt'altro ruolo nel sollevare dubbi sulla
«logica del capitale» di cui il design era
espressione. Una nuova generazione
cercava insomma di opporsi al design
borghese del miracolo economico; quasi paradossalmente, tale reazione
stimolerà poco dopo anche l'edonismo
più sfrenato delle forme e dei consumi
della postmodernità incombente.
Forse, su questi passaggi si poteva scrivere di più: certo non per scavare
nell'insondabile dimensione privata di
Rosselli, ma per indagare le rapide
mutazioni di una disciplina passata in
Italia, in appena un ventennio e anche
grazie a Rosselli, dall'inconsistenza a
sistema consolidato, celebrato, messo
in discussione, «tradito» e reinventato.