Recensioni / La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera

Ugo Fantozzi oggi ha trent’anni, non fa più il ragioniere e vive a casa dei suoi nella provincia lombarda. Nullafacente laureato, senza una donna, si consola chattando col suo Mandingo dopo che la frequentazione compulsiva del porno lo ha quasi transessualizzato.

Senza quasi: il ragionier Ugo si chiama Guglielmo Sputacchiera e un mattino d’agosto si sveglia “col muso sprofondato in un bel paio di seni: i suoi” (p. 1). Inizia così La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera, romanzo d’esordio di Alberto Ravasio (Quodlibet, 2022).

L’artificio comico della transessualizzazione trasforma il personaggio nell’alter ego “donno”, Carmela Pene, che ripercorre con sguardo straniato la storia del suo desiderio, inteso come pulsione erotica (cui sono dedicati, più strettamente, i capitoli Falluce, p. 15, Vulve umanistiche, p.23, e Il primo amore e altre sciagure, p. 97) ma anche, in senso lato, come volontà di potenza nel mondo, realizzazione della propria identità.

La ricostruzione autobiografica non porta a nessun risultato se non quello di elencare le ragioni della sua castrazione esistenziale. Sua e della sua generazione, di cui diventa il portavoce paradossale. Eccolo lottare vanamente contro il sistema universitario, preambolo del precariato a vita (“Ora che tutti l’avevano, la laurea non bastava più, occorreva rafforzarla con specialistiche all’estero, viaggi di studio, conoscenza di lingue esotiche, tutte integrazioni che facevano rientrare dalla finestra quel che la massificazione aveva cercato di cacciare dalla porta, vale a dire il classismo insito nell’esperienza universitaria”, p. 26-27).
Allora eccolo inveire contro la provincia (Il paesello stercoso, p. 47) che lo ha rinchiuso in un limbo retrogrado (“Immune dal bacillo della cultura, ripulito e ingrassato dal boom economico ma eternamente mezzadro nella calotta cranica, il paese […] non ha altro obiettivo a parte quello di reiterare se stesso, in un circolo gastrico chiuso, lavoro-casa-chiesa, dove il battesimo coincide con il funerale, la bocca con lo sfintere”, p. 47), adolescente eterno prigioniero in casa dei suoi (“Mi sono ridotto a essere l’animale domestico dei miei genitori, un lussuoso e nullafacente gatto d’appartamento”, p. 157).

Eccolo denigrare il cattolicesimo stagnante della sua famiglia (Famiglia cristiana, p. 37), in cui sfiorisce la femminilità della madre (“Dopo il matrimonio e la nascita di Sputacchiera, aveva lasciato il suo impiego e dunque la dignità per occuparsi della casa, insomma per disoccuparsi con la scusa dell’allucinazione collettiva femminile chiamata polvere. […] Dato che il suo unico contenuto culturale era la fiaba del cristianesimo, le venne la follia con sbocco mistico”, pp. 41-42) e in cui domina il machismo piccolo-borghese del padre (“Calciomane, ipervirile e dunque naturalmente omofobo, tifoso della fica e di chi la castiga, munito di camper allungapene, era quel tipo di sessantenne, giovanile e giovanilista, che si mette a torso nudo appena possibile e in piscina si tuffa di testa davanti alle signore”, p. 39).

Non gli resta che la consolazione onanistica del porno (Pornogonia, p. 31 e altrove) che lo svuota definitivamente di ogni desiderio, metafora dell’impotenza vitale sua e dei suoi coetanei (“Il destino dell’uomo virtuale poliamoroso è morire sessualmente di overdose pornografica”, p. 127).

Non c’è soluzione: dopo aver tentato invano di rivolgersi a medici, psicologi e santoni (La manipolatrice testicolare dottoressa Casoncelli, p. 73, L’incoscienza di classe, p. 83 e Anche Dio puzza, p. 109) arriva all’ammissione del proprio stato di minorità che diventa dichiarazione politica di un’intera generazione: “(Io provo, ndr) Vergogna, anche se sento di non essere il solo. Di non più tanto giovani, mantenuti dai genitori come adolescenti, che non studiano e non lavorano da anni, ce ne sono molti, troppi: plurilaureati precari, dottorandi nullatenenti, eremiti del Porno. Ma purtroppo, finché continueremo a muoverci in un individualismo straccione, convinti che il successo di poche eccellenze sia una prova sufficiente della democraticità del sistema, non ci assoceremo mai per cambiare davvero le cose» (p. 93).

Ogni pagina è delineata con un espressionismo linguistico travolgente. Ci si sorprende a ridere davanti ai neologismi e ai giochi di parole che intessono l’epopea fantozziana del protagonista (fra i tanti: “labirintite cognitiva” p. 23, “paese musuerolato dall’analfabetismo” p. 57, “arpionaggio pubico” p. 71, “orari andreottiani” p. 74, ” mattatorizzava la conversazione” p. 92, “magnetismo mondano del tostapane” p. 98, “vulvolatra acritico” p. 100, “pelle glandica” p. 148).

Come Marcello Snàporaz nella città delle donne, Carmela Pene si muove fra i modelli dell’eros contemporaneo sino ad arrivare a un parricidio dalle modalità stranianti, una sorta di rito di iniziazione verso una rinascita identitaria, il premio per aver affrontato di petto, seni annessi, le storture della sua vita.

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