Recensioni / Il mondo è davvero cambiato dal 1970? Il design di Victor Papanek

Il fatto che da cinque decenni ricorrano le stesse domande – quale è la responsabilità del designer? il designer è responsabile dell’oggetto che progetta? – finisce per produrre una domanda più ampia: che cosa non sta funzionando nel nostro modo di intendere i bisogni?

Il libro “Design per il mondo reale” di Victor Papanek, appena tradotto in italiano da Quodlibet, con la curatela di Alison J Clarke e Emauele Quinz, nella sua versione più radicale del 1970 pubblicata in Svezia e poi in inglese del 1971, è un manifesto necessario per leggere – e forse correggere – questo mondo reale, il nostro.

Contestualizzare questo libro offre qualche argomento per superare alcune posizioni incerte dell’autore, criticato per il fatto che non abbia un vero e proprio metodo o che le sue parole e i suoi toni siano guidati da una forma di emozione, tuttavia questi sono gli aspetti meno importanti.

Il contesto in cui ha senso inserire questo libro è la nostra epoca nel senso più ampio: il mondo è davvero cambiato dal 1970?

Certo le reti, la tecnologia che accorcia i tempi del cambiamento, la geopolitica stravolta. Ma quando parliamo del piano morale, sono così cambiate le cose? È un ragionamento, questo, che non poggia sulla nostalgia, ma sulla considerazione portante del testo di Papanek: quando ci riferiamo al design non stiamo parlando, appunto, di tecnologia o di sistemi di produzione industriale. Ogni uomo è designer – e per questo è pericoloso, aggiunge Papanek – e il design affronta sfide morali prima che tecnologiche. Il design produce per i nostri consumi o per i nostri bisogni?

Victor Papanek è un designer che scrive di design. Ma è anche un emigrato ebreo viennese che arriva negli Stati Uniti degli anni ’40 e che, superati i conflitti mondiali, vive l’America degli anni Cinquanta e Sessanta, gli anni del design industriale, dei messaggi pubblicitari al neon nelle metropoli, di un certo mito dello standard e della democratizzazione dell’oggetto secondo cui se è standard costa meno, se costa meno è per tutti. Ma è necessario?

È all’interno di questo mondo non-reale che crescono le convinzioni di Papanek, insieme al fatto che il punto di vista è quello di un emigrato incuriosito dal mondo là fuori, un outsider le cui posizioni lo portano verso le pratiche sociali del design, collettive, locali, artigianali, un co-design comunitario.

“Papanek non smette di viaggiare e di confrontarsi” spiega Emanuele Quinz, curatore del libro e docente di storia del design a Paris 8, “Papanek mette la sua nozione occidentale di design alla prova con quella di altre civiltà. Questo metodo lo porta a spostare l’attenzione dal nord al sud, ed è uno degli aspetti più rivoluzionari del suo pensiero, quest’impulso a confrontarsi con quello che c’è fuori dalla sua visione di design”.

Nell’America del design industriale e in corsa per produrre a ritmo serrato oggetti per la classe media, c’è un critico che, osservando quel che accade nel restante 90% del mondo, prova a immaginare un design svincolato dallo sfruttamento delle risorse, sull’estrattivismo, alla prova dei fatti insostenibile.

“Papanek, tra i primi, ci aiuta a pensare al design come un elemento che ha un impatto sulla società” continua Emanuele Quinz “non si tratta di continuare a produrre innocentemente oggetti da usare nelle nostre case, ma di trasformare la nostra casa-mondo. Occorre quindi ripensare il design a partire da un fondamento di responsabilità morale su oggetti e progetti che hanno un impatto su chi li sceglie e su chi li usa”.

La parola chiave di questa visione è “innocentemente”, è da qui che riemerge la domanda: il designer è responsabile? Victor Papanek sembra prendere il principio di responsabilità di Hans Jonas per applicarlo al design. Se il sistema industriale ha delle responsabilità nei confronti della società, queste passano attraverso il design. La svolta, che Papanek vuole introdurre nel design, è morale, non tecnologica.

“Il fine ultimo del design è trasformare l’ambiente umano, i suoi strumenti e, per estensione, l’uomo stesso” scrive Papanek “il quale uomo ha sempre cercato di trasformare sé e l’ambiente circostante; ma solo da poco tempo la scienza, la tecnologia e la produzione di massa hanno reso più realizzabile questo intento”.

Il design abbraccia così ogni aspetto dell’attività e delle scelte umane, per questo due sono i punti che l’autore sottolinea: il design, per non fallire e per non finire la propria corsa nella produzione di soli oggetti di consumo, prima di tutto dev’essere inclusivo e, secondo, deve saper mediare. Il design è olistico, certo, ma il designer dev’essere un mediatore tra i problemi complessi che la realtà presenta. “Sempre più spesso i problemi più complessi possono essere affrontati solo da gruppi di specialisti, che naturalmente sanno esprimersi solo nello stretto gergo della loro disciplina” scrive. È da questo sistema eccessivamente focalizzato che la proposta di Papanek vuole allontanarsi: è necessario, al contrario, un design mediatore tra antropologia, sociologia, psicologia, tecnica e ingegneria e tutte le discipline che intervengono – per analisi o per generazione di nuove spinte – sul mondo reale. Ed è necessario un design inclusivo che smetta – forte critica alla modernità industriale – di produrre per un’infima minoranza di individui in una minoranza di paesi privilegiati, e si riconnetta ai bisogni primari della società, e allo stesso tempo rispetti il contesto ambientale.

“La riconnessione del design da un’economia dei consumi a un’ecologia dei bisogni, é uno dei temi per cui oggi questo libro è così attuale” conferma Quinz “Papanek parla di design del care, dei trasporti, per i disabili. Oggi si parlerebbe di design riparativo: un design che ripara i danni del design. Come spiega Papanek: dove ci sono bisogni reali, c’è un reale bisogno del design”.

La crisi non è temporanea, non è un conflitto, non è una pandemia, le risorse sono scarse per loro natura. Victor Papanak utilizza un’immagine: “l’orologio dell’umanità segna sempre mezzanotte meno un minuto”. La crisi è immanente al sistema sociale stesso, la società è immersa nelle necessità e nei bisogni che devono essere affrontati e risolti, il designer e l’industria non sono chiamati a produrne di nuovi. Se il designer, quando incontra il sistema sociale, crea un punto di attrito, il design perde di significato. E il design, secondo Papanek, deve essere sempre e solo significativo. “Significativo rimpiazza il suo suono di espressioni ricche di implicazioni semantiche quali bello, brutto, freddo, grazioso, discuso, realistico, oscuro, astratto e carino” scrive. Il design non è un oggetto di consumo.