«E dunque
non si
può
avanzare
che retrocedendo». L’affermazione, che
come sempre nella scrittura
di Giorgio Manganelli (Milano, 1922 – Roma, 1990) ha il
sapore dell’aforisma e del
paradosso, è in una lettera,
«una vera dichiarazione d’amore», inviata alla figlia da
Roma l’8 luglio 1974 e ora
pubblicata in toto nella biografia letteraria e familiare di
Lietta Manganelli, Aspettando che l’inferno cominci a
funzionare (La nave di Teseo, Milano, 2022). Uscito
nell’anno che vede oramai
chiudersi la sua «scommemorazione» - così Manganelli si faceva beffa di centenari
e ricorrenze ne Il rumore sottile della prosa (Adelphi, Milano, 1994) - il volume traccia con uno stile incalzante il
percorso umano e letterario
dello scrittore ristabilendo
alcune verità tra le molte leggende e gli incredibili aneddoti che da sempre circolano
sul «Manga», il più delle volte
da lui stesso promossi. Il ritratto che emerge è commovente perché si muove con il
lettore verso l’accettazione
di un autore (in questo caso
di un padre) geniale e profondamente lacerato.
Sarà dunque «retrocedendo» che troviamo la città di Parma,
luogo mentale con
Milano, di quel «grande
nord» da cui lo scrittore diceva di provenire nel periodo romano. Gli esordi del
Manganelli-recensore risalgono in primis alla «pagina
culturale della “Gazzetta di
Parma” – racconta la figlia
Lietta – primo quotidiano ad
avere una sorta di terza pagina alla fine del secondo
conflitto mondiale».
Ancora prima, siamo a marzo del 1944, Manganelli è attivo nelle squadre dei Sap
(squadre di azione patriottica) e nella sezione del Partito Comunista di Langhirano
e poi di Roccabianca, paese
d’origine della madre Amelia, nella Bassa parmense
dove la famiglia era sfollata.
Il legame inaspettato di
Manganelli con la Resistenza, di un uomo che – testimonia la figlia – diceva di sé
«La mia unica virtù in grado
eroico è la vigliaccheria», è
ricostruito nei dettagli, a
partire dai documenti e dai
racconti dei testimoni, aldilà
delle sue «invenzioni dal vero». Il rapporto privilegiato
con la città di Parma trova
inoltre spazio in una lunga
intervista di Gabriella Filippini, La mia Parma è una città di grande eleganza e grazia («Gazzetta di Parma», 7
marzo 1987) ora riedita nenumero monografico del semestrale «Riga» dedicato a
Giorgio Manganelli, a cura
di Andrea Cortellessa e Marco Belpoliti (n.44/2022,
Quodlibet).
In quell’intervista Manganelli ricorda con affetto Vittorio Sereni,
Schiller Giorgi, Giuseppe Tonna di Sissa (che tradusse i poemi omerici e studiò Teofilo Folengo), Macrì,
Bertolucci e i suoi primissimi lavori per l’editore Guanda. Infine, ritrae «una città di
grande eleganza e grazia sia
urbanistica che di tratto». Il
suo rapporto con questo
pezzo di provincia – racconta – è «lungo e travagliato», i
suoi ricordi ancora «molto
vivi, molto intensi». Un rapporto la cui funzione è definita «emblematica» e, aggiungiamo, determinante
nella sua vita e nel suo percorso creativo. Dei quattro
articoli usciti sulla «Gazzetta
di Parma» e indicati da Graziella Pulce nella sua bibliografia (Giorgio Manganelli,
Bibliografia (1942-2015), Artemide, Roma, 2016) tre
escono nella seconda metà
del 1948 e, solamente uno,
nel 1949. Uno dei primi, I
poeti miracolati della nuova
Inghilterra («Gazzetta di
Parma», 23 dicembre 1948) è
stato recentemente ristampato in Appendice alla raccolta di Poesie del gesuita inglese Gerard Manley Hopkins (Poesie. 1875-1889, Einaudi, Torino, 2022) a cura
di Viola Papetti che Lietta
Manganelli ricorda con il
padre a Roma, entrambi legati all’insegnamento universitario di Gabriele Baldini.
In quell’articolo del dicembre del ‘48, Manganelli recensisce la raccolta di Liriche Religiose Inglesi di Alberto Castelli (Morcelliana, Brescia, 1948). Monsignor Castelli (Siziano, 1907-Roma,
1971) poi nominato arcivescovo, insegnava Lingua e
letteratura inglese all’Università Cattolica di Milano
ed è stato, oltre che autore di
numerosi studi sulla poesia
inglese, il prete che «ha sposato i miei genitori …in un
momento di follia» come
racconta Lietta Manganelli
in una sua intervista (Francesco Verso, Giorgio Manganelli, il teppista della letteratura, Oblique Studio, Roma,
2009). Gli altri tre articoli
non ancora raccolti in volume sono, rispettivamente,
del 7 settembre e del 13 novembre di quello stesso
1948. Il primo, firmato con le
iniziali g.m., è intitolato Raymond Roussel ha inventato
la “macchina che scrive romanzi”.
Qui Manganelli analizza il procedimento combinatorio utilizzato dallo
scrittore francese,
padre spirituale della Patafisica, rivelato in Come ho
scritto alcuni miei libri (ora
in Locus Solus, Einaudi, Torino, 1975). Secondo il recensore, Roussel, perseguitato in vita dall’insuccesso e
vissuto al di fuori degli ambienti letterari, è vittima del
suo stesso procedimento
crittografico, della freddezza
da cui nasce la sua scrittura.
Poco letto in Francia, del resto, nel 1948 Roussel non era
ancora stato tradotto in Italia. Eppure Manganelli sembra affascinato dall’originalità di questo scrittore eccentrico, che scrive di mondi
lontani senza che gli fosse
necessario vederli e che anni
dopo, in un articolo uscito
su «Il Messaggero» il 23 marzo 1990, accosta per originalità a Dino Campana recensendo in quell’occasione
l’antologia sui Narrabondi
(a cura di Ottavio Fatica,
Editori Riuniti, Roma, 1989)
che ora è possibile leggere in
Concupiscenza libraria
(Adelphi, Milano, 2020). L’esordio di Manganelli è comunque nel segno della
scrittura come bizzarria, invenzione e gioco; il suo interesse per uno scrittore «oulipiano per anticipazione»
(Paolo Albani, Raymond
Roussel, oulipiano per anticipazione, «Bérénice»,
n.38/2007) mostra in nuce
uno dei fili conduttori della
sua narrativa.
Il secondo articolo è dedicato invece alla Critica mitologica di D.H.
Lawrence e alla natura
mitografa dello scrittore, anche lui viaggiatore sedentario. Manganelli ne elogia lo
stile, rapidissimo e ferino,
negli stessi anni in cui Bertolucci pubblicava la sua traduzione dello studio di Lawrence sui Classici americani (Bompiani, Milano, 1948).
Ancora una volta su un volume della collana «Portico.
Critica e Saggi» è il quarto e
ultimo articolo, Lettura di
Milton, uscito sulla «Gazzetta di Parma» il 21 aprile 1949.
Manganelli legge i Saggi elisabettiani di Eliot (trad. di
Alfredo Obertello, Bompiani, Milano, 1947) e anche in
questo caso la scelta sembra
avere un suo compimento
nel 1952 quando l’autore
traduce e pubblica, sempre
di Eliot, Appunti per una definizione della cultura
(Bompiani, Milano, 1952).
Chissà se da questa definizione, o meglio delimitazione, del concetto di cultura,
lo scrittore si ricorderà anni
dopo, a Roma, quando l’8
aprile del 1968 terrà il suo
Discorso sulla cultura per il
«Movimento di Collaborazione Civica».
Il testo della conferenza, insieme con altri tre interventi, sono stati ritrovati nel
2009 all’Archivio Centrale di
Stato e sono adesso nel già
citato volume monografico
«Riga.44». Ma come conciliare con il movimento, che
promuoveva «una maggiore
partecipazione dei cittadini
alla vita democratica del
Paese (art.2)», con l’assioma
secondo cui l’arte, anziché
pacificare, «è essenzialmente traumatica; è esperienza
per sua natura selvatica, segregata, discontinua alle più
agevoli consuetudini collettive» (G. Manganelli, Anarchia, «Riga 44», p. 172)? Forse la spiegazione, come suggerirebbe Manganelli, è banalmente lessicale perché la
cultura è propria di «una società fedele alle proprie leggi» mentre l’arte «continua
ad essere la metafora di un
radicale altrove […] il non
luogo nel quale la società è
definitivamente impossibile». Un nonluogo, in via definitiva, simile all’inferno
verso il quale discendiamo.
Ma, se è vero che «non si può
avanzare che retrocedendo», ecco allora ricomparire
l’orizzonte della «mia Parma» con la sua «aura mentale» e la sua piazza del Duomo, «una delle cose più belle
da vedere in Italia»