Recensioni / Poesia in dialetto di Pasolini e Marin rivisitata e tradotta da Ivan Crico

Il poeta Ivan Crico non è nuovo al cimento con la traduzione, anche se il precedente diretto costituiva un tentativo (pienamente riuscito) di volgere nel registro linguistico di una lingua minoritaria, il bisiaco, il sublime lirismo del biblico Cantico dei Cantici (“Me bàʃesto cu’i baʃi de la boca sòa! / Sì, i to cocolezi i xe più dolzi del vin. / I to sparfumi, pa ‘i só mili / bóni udori, i fa vignìr / le stralùcule; e la nomanza / la xe un sparfumo che ‘l se sparniza, / pra quél, le ƺovenéte le te vól bén. / Vienme drio, coréno!”, Al Cant dei Canti, Capìtul un, A. C. B., Ronchi dei Legionari 2018). In seguito invece ha accettato la sfida, su commissione di Agamben per l’editore Quodlibet, di misurarsi con due pietre miliari della poesia in dialetto del Novecento, vale a dire I Turcs tal Friùl di Pasolini (2019) e El critoleo del corpo fracassao. Litànie a la memoria de Pier Paolo Pasolini (2021) nel gradese di Marin, nell’ambizioso intento di confrontarsi con questi testi in dialetto come se si trattasse di lingue straniere al fine di ricavarne una traduzione poetica, piuttosto che una versione di puro servizio. E nessuno avrebbe saputo farlo meglio di un poeta che padroneggia, oltre al proprio dialetto bisiaco e ad altre varietà del veneto, anche il friulano, nelle sue molteplici varianti, il tergestino (una modalità ottocentesca del triestino urbano ormai dimenticata), come pure alcune parlate istriane o ladine. A questo proposito, oltre a raccolte di versi che gli hanno meritato premi importanti (il Marin, ad esempio, o l’Ischitella, più recentemente), il goriziano ha all’attivo la pubblicazione di un dizionario del bisiaco di cui ha appena curato una preziosa integrazione assieme a Mauro Casasola (ZONTE aggiunte al Vocabolario fraseologico del dialetto “bisiac” , Associazione Culturale Bisiaca, Cormons 2022), con l’aggiunta di nomi, proverbi e filastrocche.

Pietà, Cristo, del nostro Paese.
Non per farci più signori di quello
che siamo. Non per darci la pioggia,
non il sole. Nostro destino è patire
caldo e freddo e tutte le tempeste
del cielo, lo sappiamo. Quante
volte abbiamo intonato le litanie
nella nostra chiesetta di Santa
Croce! Per avere da Te, per questa
nostra terra, un po’ di compassione
(I Turcs tal Friùl, incipit).

Già questo basterebbe a rendere lo spessore culturale di Crico, artista di prima grandezza e intellettuale a tutto tondo. Una conferma ulteriore viene dagli autori coi quali il nostro ha voluto misurarsi sul terreno della traduzione, ovvero Pasolini, appunto, e il Marin del Critoleo (bellissima, per inciso, questa voce onomatopeica a rendere lo “scricchiolio” delle ossa maciullate lungo il litorale di Ostia, e altrettanto vale per l’epigrafe dedicata a Pasolini dal poeta di Grado, uno dei testi più intensi e sofferti di Marin, che amava Pasolini, ma non poteva perdonargli le sue scelte di campo e di vita), per la ragione che solo nel dialetto Crico può trovare quella lingua che lo pone in contatto immediato col mistero profondo delle cose, una lingua sorgiva, cioé, e ad un tempo una lingua madre che sa restituirci quell’intreccio di anarchia, magia, invenzione e libertà propria di ogni cultura popolare.

Della tua vita l’oscuro
groviglio non sei riuscito
a sciogliere: solo il cadavere
giallo l’ha reciso.
Rosse le tue carte
del sangue torbido, le chiare
pellicole, le tue giornate più rare
e persino la tua arte.
Eppure c’era la luce del sole
nei tuoi giorni, i canti
dell’usignolo e l’oro
risplendeva degli incanti.
Quel nodo l’hanno sciolto;
ti è rimasta l’ala che si leva
sicura in cielo, nel grande
celeste rinnovato.
(Lo scricchiolio del corpo fracassato, I lassa)

Ma per quale ragione Crico ha voluto confrontarsi proprio con loro, volgendo questi testi dal dialetto in lingua? Esiste, evidentemente, una consonanza di fondo e di sensibilità fra questi poeti: fatte le dovute proporzioni, Crico si avvicina a Pasolini nell’apertura alla complessità del reale, nell’impegno civile e nella denuncia, nella frequentazione di forme espressive e di lingue molteplici (letteratura, poesia, arte, critica, filologia), nella ferma indignazione al cospetto delle ingiustizie, nel religioso rispetto della sacralità di ogni vita, come nella pulsione alla ricongiunzione al sacro e al divino. Esemplare, a tale proposito, una delle sue ultime raccolte, Seraie (Cofine, Roma 2018), nella quale l’attenzione si focalizza sugli ultimi (gli immigrati, i trans, le donne, i bambini mutilati da tutte le guerre), ma anche sugli sfregi inferti ai diritti dei lavoratori (la nota vicenda della Thyssen) o su alcuni eroi dei nostri giorni come quell’anziano direttore di un museo iracheno che accettava la morte pur di salvare opere d’arte di inestimabile valore dalla furia iconoclasta dell’Isis o ancora Livio Librescu, oscuro insegnante di origini balcaniche assassinato in un college d’America da uno dei propri studenti. Non solo: lo sguardo di Crico si focalizza di preferenza sulle pietre d’inciampo, sullo scarto tra reale e ideale al limitare del sacro, su ciò che agli occhi dei benpensanti suscita scandalo, quello della morte per eccellenza, e della morte di Pasolini in particolare.
C’è un’altra cosa su cui vale la pena richiamare l’attenzione, vale a dire l’amore viscerale che Crico nutre da sempre nei confronti dei dialetti, pur restando strettamente italofono, e di riflesso la generosità con cui si spende nelle sue ricerche linguistiche che non hanno mai fine, com’è nella natura di ogni amore e di ogni innamorato. Una disposizione naturale che si traduce, nei fatti, nell’orientamento all’incontro senza pregiudiziali di sorta, nell’apertura agli altri, nell’accoglienza, in particolare dello straniero, con il medesimo rispetto per la sacralità della sua persona che già valeva per gli antichi, ovvero l’antidoto più efficace per prevenire e contrastare – proprio sul terreno più delicato, quello delle frontiere costituite dalle culture e dalle lingue – ogni deriva xenofoba e intollerante così fortemente radicata nel cuore della nostra Europa.