Secondo André Gide, solo i poeti e gli scrittori hanno licenza di tradurre altri poeti e scrittori. La questione è molto delicata, e non è questa la sede per approfondire l’evidente provocazione – forse non del tutto priva di verità –, ma la nuova edizione dei Turcs tal Friùl di Pier Paolo Pasolini si colloca chiaramente su questa scia – per la traduzione poetica di Ivan Crico, che sarà particolare oggetto di questa recensione. Ed è, va detto subito per non eludere una critica responsabile che si appelli a un giudizio di valore (secondo l’insegnamento del Raboni di I bei tempi dei brutti libri), un’operazione convintamente riuscita (un punto, quindi, a favore di Gide – con la consapevolezza che l’unico modo di sostanziare l’assunto gidiano è uno studio caso per caso, tassello dopo tassello, in una mappatura di per sé infinita).
Prima di esaminare la resa in versi di Ivan Crico (notevole poeta in proprio, si ricordi qua almeno L’antro siel del mondo. L’altro cielo del mondo, per la collana “gialla” di Pordenonelegge-LietoColle), qualche riga sulla nuova edizione che inaugura Ardilut, collana di poesia bilingue a cura di Giorgio Agamben. Ardilut è la forma alterata di ardile, fitonimo friulano che indica la valeriana selvatica, fiore che compare sulle copertine delle pubblicazioni, gli Stroligut, almanacchi, dell’Academiuta di lengua furlana di Pasolini. La prefazione di Agamben e la nota al testo, di carattere filologico, di Graziella Chiarcossi sono due testi illuminanti – quello di Agamben nell’inserire l’opera giovanile nel complessivo tessuto della produzione pasoliniana; quello della Chiarcossi nella presentazione materiale delle varie carte ed edizioni, con puntuali riflessioni sul problema della grafia e dei rapporti con la coeva produzione in friulano (ponendosi I Turcs come “forse la migliore cosa che io abbia scritto in friulano”, così l’autore stesso in una lettera a Gianfranco D’Aronco del novembre 1945).
Chi ha la possibilità di leggere il friulano, noterà una situazione piuttosto magmatica (grazie all’opportuna scelta della Chiarcossi di intervenire il meno possibile sul testo originale, conservato al Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa della Delizia, evitando arbitrarie uniformazioni); situazione magmatica di grande interesse per lo studio dell’evoluzione del friulano pasoliniano: ad es., l’alternanza di duçu e duçus (tutti), viot e jot (vedo/vede); le forme oscillanti çuant, cuançu, quant; l’uso di ades (adesso), registrato dal vocabolario Pirona, punto di riferimento di ogni friulanista, Pasolini compreso, anche se nessun parlante si sognerebbe mai di usarlo in luogo di cumò; ecc.
Ma veniamo alla traduzione di Crico. Qualche precisazione preliminare, per inquadrare meglio l’operazione. Innanzitutto va ricordato che Pasolini, convinto della necessità della presa diretta del friulano, non fornì alcuna traduzione del testo, scritto in prosa. Inoltre, che un poeta traduca la produzione in dialetto di un collega, non è fatto così inusuale nel Nord-Est, basti ricordare la magnifica versione di Amedeo Giacomini dei Mistieròi zanzottiani. Infine, come ricordava Montale (e non solo, naturalmente), la traduzione è una forma di scrittura tout court, operazione artistica e (ri)creativa a tutti gli effetti. Forte di tutti questi capisaldi, la traduzione di Crico tende alla misura nostrana per eccellenza, quella endecasillabica (ma spesso e volentieri sbrigliandosi in novenari o long verse), con un notevole effetto musicale – laddove il testo originale, in prosa, gioca di più su ripetizioni di suoni, rime, assonanze, allitterazioni. All’interno di questa efficace gabbia, le soluzioni di Crico sono varie, difficilmente raggruppabili in costanti, con un occhio magari al lessico dell'opera lirica italiana, dei migliori libretti verdiani – ma senza esagerare. Così Crico ora alza il registro (plen di fen > “colmo di fieno”), ora espande verso una sorta di parafrasi (spalutis di muarta > “magre spalle, quasi di morta ormai”), ora condensa in sentenza (“I si lu meritàn duçu di murì” > “Ad ogni uomo spetta la morte”, glaciale novenario, spiccato quasi dall’Ecclesiaste), ora spariglia le carte (il colloquiale “I farin na bevuda insièmit, al casu” diventa un cantabile “Una bevuta insieme si farà, semmai”). Questo valga come assaggio, e per dire come la versione di Crico meriterebbe un attento studio sistematico.
Invece certe stratificazioni di senso si perdono: tempiestis dal sèil, ad apertura di dramma, può essere, sì, un italianizzato “tempeste del cielo”, ma sarà soprattutto “grandini del cielo”, con immagine molto più vibrante e apocalittica (del resto, alla voce Tempieste il vocabolario Pirona dà “gragnuola, grandine”, ancora oggi significato prevalente, se non unico, in ogni parlante). In modo particolare si perde una certa dimensione contadina: frut è ragazzo, ma viene direttamente da fructus, frutto (proprio dalle colonne degli Stroligut Pasolini ricordava che “parlare friulano è parlare latino”); gustà è gustare/mangiare, rotondo verbo materico; copà è uccidere, cioè colpire la cope, la nuca (così si abbattevano gli animali); gota è goccia, ma usato in accezione quantitativa (gota di ambitiòn); tajut di neri è il “taglietto di nero”, la tacca che indica l’ottavo di litro. Parimenti si perdono certe riverberi sonori, pascoliani si direbbe: ad es., in “tornant dal çamp” la ribattitura della vocale a, a riprodurre lo zoccolio del contadino, e la quasi rima baciata – per sonorità e stringatezza il friulano, come tutti i dialetti soprattutto settentrionali, è quasi più vicino all’inglese che all'italiano, come suggeriva provocatoriamente Luigi Meneghello, e come di recente ha rilanciato Massimo Bocchiola.
Nel complesso, il giudizio sull’edizione e sulla versione in versi di Crico è positivo, perché esse danno nuova vita e nuova linfa a un’opera spesso poco letta e studiata di Pasolini, ma centrale (si pensi, per fare un solo esempio, a tutto il discorso che l’autore svilupperà negli anni a venire sul teatro, sulla nozione di realtà e linguaggio, ecco tutto nasce qui).