1 Nel tuo percorso di studioso e di poeta, la scrittura di Pier Paolo Pasolini sembra tornare frequentemente, in molteplici e fecondi richiami. Non soltanto vengono in mente la tua traduzione in versi de I turcs tal Friùl (Quodlibet 2019, affiancata dalla traduzione in prosa di Graziella Chiarcossi) e la tua curatela alla riedizione de El critoleo del corpo fracassao. Litanie a la memoria de Pier Paolo Pasolini (Quodlibet 2021) di Biagio Marin, ma anche tutta la tua esperienza di autore in lingua minore. Infatti, in Friuli scrivere poesie in varianti romanze altre dall’italiano - i cosiddetti “dialetti” – significa necessariamente confrontarsi con un lascito e un’eredità pasoliniana. Quanto secondo te l’esperienza culturale casarsese di Pier Paolo Pasolini, da Poesie a Casarsa del 1942 fino alla fondazione dell’Academiuta di lenga furlana e alla pubblicazione della rivista Stroligùt di cà da l’aga, fu importante per rinnovare una tradizione letteraria in lingua friulana che in quegli anni aveva già una storia e una sua maturazione ben precise?
Io ho sempre pensato che l'aspetto più innovativo dell'esperienza portata avanti da Pasolini, Naldini e dagli altri ragazzi dell'Academiuta, sia da ricercare nel tentativo di individuare un punto possibile di armonioso contatto tra locale e globale, tra passato e presente, tradizione e sperimentalismo, tra mondo popolare e raffinatissima cultura cittadina. Qui ritroviamo, certo, la conoscenza approfondita del Pascoli che accoglie nei suoi testi le parole esatte e fantasmagoriche insieme del mondo contadino; ritroviamo la lezione di Gauguin e Picasso che contemplano, con il cannocchiale della più estrema modernità, lontani mondi arcaici, sospesi in dimensioni parallele, non ancora intaccati dal tempo frenetico delle macchine. Con la differenza che Pasolini si spinge oltre; come al suo solito getta il suo corpo nella lotta; non si accontenta di lavorare con inserti, frammenti rivisitati, a minore o maggiore distanza; ma deve possedere fino in fondo la materia con cui si confronta, fino a darle voce impiegando la sua stessa voce. Per far questo non è possibile impiegare astratte koiné: bisogna attraversare a piedi i campi per parlare con i contadini, stare assieme ai ragazzi ubriachi nelle sagre, per assorbire ogni più impercettibile sfumatura di una lingua, ascoltare le parole profonde e sempre diverse che la terra rilascia come il vapore che si leva dalle zolle nelle albe friulane. Questa severa e appassionata educazione all'ascolto del mistero della differenza, permette a Pasolini e compagni di mettersi in colloquio con autori di ogni tempo e paese, dai cantori provenzali ai moderni poeti spagnoli all'ermetismo italiano, inventando un modo completamente nuovo, dominato dal plurilinguismo, di approcciarsi alla scrittura in lingua minoritaria o in dialetto. Con una capacità di sovvertimento dei destini della poesia che va ben al di là dei confini del Friuli. Che non solo vuole orgogliosamente essere giudicata allo stesso livello di quella scritta nelle lingue nazionali ma mette implicitamente in crisi il concetto omologante, basato su confini innaturali, di una lingua asservita al potere politico ed economico, per ribadire un diverso modo di abitare il mondo, nell'esaltazione continua della sua inafferrabile varietas.
2 In El critoleo del corpo fracassao (prima edizione Scheiwiller 1976) un incontro tra Biagio Marin, ormai ottantacinquenne, e Pier Paolo Pasolini avviene solamente in forma poetica: infatti, come suggerisce il sottotitolo Litanie a la memoria de Pier Paolo Pasolini, i versi contenuti nel libro nascono in un momento di profondo turbamento del poeta gradese dovuto alla notizia del terribile assassinio all’Idroscalo di Ostia. Tuttavia, Marin e Pasolini precedentemente avevano già avuto modo di conoscersi di persona in più occasioni e, anzi, una prima diffusione dell’opera poetica di Marin in Italia, nonché un suo iniziale inquadramento critico, si deve proprio a Pier Paolo Pasolini. In tal senso, non si può non menzionare l’inserimento del lavoro poetico del poeta gradese nella fondamentale antologia Poesia dialettale del Novecento, curata da Pasolini e Dell’Arco nel 1952 per Guanda, lavoro che ha segnato un’intera stagione secondo - novecentesca di scrittura in lingue minoritarie. Riusciresti ad abbozzare una breve storia per occasioni fondamentali di un dialogo tra Pasolini e Marin?
Sei anni fa è stata ritrovata nell’archivio Marin una lettera dattiloscritta di Pasolini, che merita di essere citata, all’amico poeta datata Roma primo dicembre 1952. La lettera, davvero importante per comprendere anche quelli che saranno i rapporti futuri tra i due grandi poeti, ci offre un quadro molto vivo e dettagliato del loro primo incontro. Traspare da ogni riga una grande stima reciproca; ma non mancano le riserve pasoliniane, con la consueta schiettezza e acume critico, nei confronti di quelli che egli riteneva dei punti deboli del lavoro del poeta gradese.
Caro Marin,
(scusi il pezzo di carta su cui le scrivo, ma mi sono trovato improvvisamente sprovvisto di carta ad hoc, e non mi va di scendere dal tabaccaio). La sua lettera mi è riuscita assai cara, e mi ha commosso. Per quanto sta in me, la incito a non disperare: i critici verranno, e intanto stia certo che la sua è una delle più delicate poesie del Novecento dialettale.
Lei lavori sulla linea di “Minudagia”, che dovrà essere la sezione centrale della sua ideale antologia di poesia, contrapposta alla non-poesia che è coloristico-ambientale. Spero molto che la mia Antologia (che dovrebbe uscire entro Natale) le sia di conforto e di sprone.
Quanto a “Il Belli” (così si chiamerà la nostra rivistina) è bimensile: (...)
Intanto risponda subito (il più brevemente possibile) alle domande di questa inchiestina che le accludo: e mi mandi qualche “minudagia”.
Tanti cordiali saluti dal suo
Pier Paolo Pasolini
La collaborazione con Marin inizia così con la recensione de I canti dell’isola di Biagio Marin sulla rivista di poesia in dialetto “Il Belli”
(Anno I, n.1 – dicembre 1952) e con la già citata antologia. Il poeta friulano.bolognese continuerà regolarmente, con grande generosità, ad occuparsi dell'opera di Biagio Marin, in molte occasioni, aiutandolo a pubblicare con grandi editori e a raggiungere quella meritata visibilità negata dal mondo editoriale per molti decenni. Citiamo ad esempio la splendida scelta di poesie contenute in La vita xe fiama Poesie 1963- 1969, pubblicato da Einaudi, a cura di Claudio Magris, con una fondamentale prefazione dello stesso Pasolini.
**3 Ne El critoleo del corpo fracassao ad incontrarsi sono due misure d’uomo e di intellettuale, quella di Marin e Pasolini, apparentemente molto diverse: il primo, proveniente dalla prima metà del Novecento, personalità decisa e ormai lontana per scelta dal clamore e dalle contingenze storiche del suo tempo; il secondo, sempre immerso e presente nel discorso attuale, nella dialettica più stingente e immediata. Eppure, i due mantengono un’innegabile e fondamentale appartenenza interiore comune. Lo nota bene il poeta gradese quando scrive:
Mé, gero fato in oltro modo:
co’ tu vevo in comun Idio,
de là del mio diverso nìo,
e del bocon e de l’amor che godo.
Ma Dio in comun xe tanto!
Xe ‘l sielo su i alburi diversi;
xe l’alto fin del canto
e la ragion ma ultima dei versi.
El canto mio, col tovo el se confonde:
su la linea del canto semo nûi,
e più no conta gerî e incùi,
el mar xe un, co’ le so tante onde.
Leggendo l’intervento di Pericle Camuffo Pier Paolo Pasolini nei diari di Biagio Marin: appunti di un itinerario privato, emerge tra i due una volontà reciproca di messa in discussione, in particolare da parte di Marin nei confronti di Pasolini: ad esempio quando il poeta gradese si chiede, di fronte a ciò che Pasolini scrive di lui nella prefazione a Poesia dialettale del Novecento, se l’intellettuale friulano non abbia in realtà «cercato sé stesso nei [suoi] versi», stupendosi di trovarsi accostato ad altri autori che non conosce (come Machado) e irritandosi per un utilizzo non pertinente di una «fraseologia marxista e della mitologia corrispondente». Com’è da leggere secondo te questa parziale presa di distanza continua di Marin dal giudizio critico di Pasolini sulla sua opera? In effetti, è difficile non notare, nel tentativo pasoliniano di ricondurre la scrittura mariniana (e in generale tutta una tradizione poetica in lingua minore del primo novecento italiano, come nota Franco Brevini in La poesia in dialetto) al modello di Pascoli, un cercare prima di tutto sé stesso. **
Marin era sì un uomo nato nell'Ottocento, che incontra Pasolini quando già si sta avviando verso la fase ultima della sua esistenza; ma forse, grazie ad una cultura filosofica sicuramente più vasta e metabolizzata in modo più diretto e consapevole (attraverso la lettura dei testi nella versione originale in lingua, anche libri molto recenti all'epoca di autori fonamentali come Heidegger), più attrezzato a scorgere i limiti e le interne contraddizioni di alcune letture pasoliniane del mondo reale. Quando Marin incontra Pasolini è un uomo che ha dovuto rimettersi in discussione molte volte. Un uomo che ha vissuto sempre con grande passione, entusiasmandosi e poi rimanendo profondamente deluso da cause, ideologie, persone in cui aveva riposto ogni fiducia. Con questo animo profondamente inquieto e allarmato Marin nel dopoguerra, con la sua solita coerenza, evita di abbracciare senza riserve, come tanti solo per convenienza, il pensiero che si rifà al mondo marxista. Da qui un'evidente allergia di Marin di fronte a letture dei testi poetici affrontate utilizzando questi filtri interpretativi. In più Pasolini, come per ogni cosa che lo riguardi, è sempre “di parte”. Pasolini – almeno mi sembra - cerca ossessivamente nell'altro uno specchio in cui riconoscere un segno salvifico di fratellanza, una conferma di ciò che, osteggiato dal mondo, riconosce in sé come giusto, elevato: tipico di chi vive una condizione attanagliata da un senso di sovrumana solitudine. Ciò che non acquista per lui questa dimensione salvifica, come un tronco a cui aggrapparsi in mezzo ad una tempesta furiosa, lo scarta a priori. Non ha tempo per soffermarsi: Pasolini agisce sempre come chi debba prendere una decisione drastica; tutto diventa sempre una questione di vita o di morte.
4 Marin mostra la morte di Pier Paolo Pasolini nel verso «el critoleo del corpo fracassao», ovvero «lo scricchiolio del corpo fracassato». Critoleo in lingua gradese è parola precisa che riguarda il suono delle conchiglie quando si spezzano sotto ai piedi in riva al mare: uno scricchiolio marino, appunto. In questo sostantivo vi è una poeticità altissima. Il morire, come il nascere, è sempre momento di confine e di appartenenza e nel contempo stesso non appartenenza dell’Io a una biografia di individuo. In questo è l’esperienza continua della poetica mariniana, naturalista e spirituale assieme. La parola critoleo, che tanto dice del fatto in sé (il corpo fracassato sul lido di Ostia, vicino al mare), traspone però quest’ultimo in altro piano, in cui la morte è dell’uomo, non dell’intellettuale Pier Paolo Pasolini. Come in Comizi d’amore Giuseppe Ungaretti risponde a Pasolini che tutti gli uomini, a loro modo, sono anormali e in contrasto con la natura e che dunque ogni primo atto di civiltà è atto di prepotenza umana contro natura, così Marin, nei versi de Il critoleo del corpo fracassao, sembra rimproverare a Pasolini di non aver compreso questo. Per Marin, in Pasolini, sembra come esserci un “accettazione incompleta” del proprio sé che lo porta a continue identificazioni con immaginari ideologici. Nel morire, sembra dire Marin, cessa la postura, il continuo controbattere pasoliniano che appoggia il suo sé solamente nel ruolo dell’offeso: «desso tu son rivao de gloria ai moli». Credo che questa lettura potrebbe anche spiegare quel continuo insistere di Marin su un Pasolini che, nei versi degli altri, cerca prima di tutto sé stesso.
La saggezza derivante dal Páthei Máthos, "impara soffrendo", di cui parla nell’Agamennone Eschilo,
quando il coro intona l'Inno a Zeus, assume fisionomie molto diverse nei due autori, entrambi segnati da tremende tragedie familiari e personali. La religiosità aconfessionale ma convinta di Marin lo porta a ricondurre sempre ogni avvenimento in una dimensione superiore in cui tutto si riconcilia e trasfigura, convertendosi in canto. Memore della lezione di Eckart, di Lao Tzu, la sfera più profonda dell'uomo si rivela sempre attraverso un farsi da parte di tutto ciò in cui ci identifichiamo per lasciare parlare, senza i filtri della nostra soggettività, ciò che non sappiamo di noi e del mondo. Pasolini muore a soli 54 anni. Dopo aver preso dal desco oscuro della vita tutto ciò che gli si offriva, anche nei modi inquietanti condannati da Marin, con la foga di chi aveva guardato negli occhi la morte da troppo vicino. Negli ultimi mesi di vita, nella sua ultima poesia scritta in friulano, nelle sue dichiarazioni riguardo a progetti futuri, lampeggiano di tanto in tanto i segnali di un'auspicata conciliazione con il mondo. Luci di straordinaria intensità concettuale ed espressiva. Una nuova stagione che si stava affacciando, forse, distrutta sul nascere con il sinistro «critoleo del corpo fracassao».
5 Concludiamo con una domanda diversa, più filologica se vuoi. Nella prefazione a El critoleo del corpo fracassao menzioni l’influenza musicale e prosodica del canto liturgico patriarchino (del Patriarcato aquileiese e gradese) nella versificazione di Biagio Marin. Alla stessa maniera, Pasolini è stato uno studioso delle villotte, antichi canti popolari friulani: basti ricordare la fondamentale antologia Canzoniere italiano. Antologia della poesia popolare pubblicata nel 1955). Come queste diverse voci di comunità entrano nel fare poetico dei due autori?
Come ho scritto in un mio saggio, a partire dalle letture di studiosi come Zucco e Vercesi, “nell'isola di Grado si conservano le ultime, corrose tracce di una rara e preziosa forma di canto liturgico connesso al relativo rito patriarchino, specifico delle diocesi di Aquileia. Marin ricorda nei suoi testi più volte la forte suggestione creatasi in lui dall'ascolto di questi canti. Consapevole o inconsapevole che sia, in tutta l'opera di Marin è stata rilevata l'influenza sulla sua opera del canto patriarchino, anch'esso fortemente caratterizzato anch'esso da ritmi ternari, con un andamento solenne, simile a certi ritmi orientali, ascoltato durante l'infanzia quasi tutte le sere nell'antica Basilica di Sant'Eufemia, la
“Ciesa granda”, assieme alla nonna durante la celebrazione dei vespri”.
Come in Marin, l'amore per le forme chiuse, le rime, nel Novecento quasi ovunque abbandonate in poesia ma ancora vive nel canto popolare, ritorna anche nella prima produzione lirica di Pasolini, le cui idee fondanti sono state analizzate nel saggio fondamentale di Giorgio Agamben, curatore della collana “Ardilut”, che introduce l'edizione del dramma teatrale in friulano I Turcs tal Friul.
Nel 1955, nella sua recensione de La meglio gioventù, Giorgio Caproni scriveva a proposito della prima produzione in friulano di Pasolini: «non era difficile notare in lui l’intento [...] d’uscire dall’impressionismo amorfo del frammento lirico per rientrare (con pudore che ricorda, mutato il secolo, la verdezza di certe origini nostre e occitaniche) la ricomposizione d’un discorso chiuso, per non dir proprio, tout court, la composizione».
“Discorso chiuso”, regolato impianto compositivo che sicuramente rimanda anche alla struttura tipica delle antiche villotte friulane, da cui deriva la predilezione nella maggioranza delle sue poesie friulane di versi brevi, come settenari ed ottonari, attestati anche nelle suggestive rivisitazioni intitolate Vilotis del 1944 (quattro villotte sullo «Stroligut» dell’aprile 1944). Una delle più riuscite e folgoranti poesie che troviamo nel canzoniere del 1954 (nella sezione Linguaggio dei fanciulli di sera), una quartina di settenari con la rima finale a b c b, si intitola proprio Vilota:
Vilota
O ciamps lontàns! Miris-cis!
fresc cianti e fresc i vai,
vustri antìc soranèl,
in miès dai muàrs rivaj.
Villotta
O campi lontani! Mirische!
fresco canto e fresco vado,
vostro antico ragazzetto,
in mezzo alle morte prodaie.