Recensioni / L’inafferrabile Paul Bley

Dall’inizio della mia lunga «militanza jazzofila» (più di cinquant’anni fa, l’acquisto del mio primo disco, Smokin’ with The Chet Baker Quintet ), ho ascoltato, dal vivo o registrati, centinaia di musicisti e migliaia di ore di musica. Ma, non saprei dirne il perché, la mia strada ha incrociato raramente – molto raramente – quella di Paul Bley (1932-12016). Nessun pregiudizio (e perché mai, poi?), piuttosto disattenzione o, semplicemente, fatalità, ma la realtà (di cui un po’ mi vergogno, lo confesso) è questa. Dunque, adesso che Quodlibet ha mandato in libreria l’edizione italiana (era ora che qualcuno lo facesse, a distanza di quasi un quarto di secolo da quella americana) della sua autobiografia scritta con David Lee, ho “colto l’attimo” per essere iniziato alla sua conoscenza (ascoltando, di pari passo, ca va sans dire, la sua musica). Se, poi, aggiungete altri ingredienti al potere d’attrazione che un libro esercita sul sottoscritto (copertina e incipit) il gioco è fatto: il libro di Paul Bley “s’aveva da leggere”.
L’incipit, dicevo. Ecco quello di Liberare il tempo. Paul Bley e la trasformazione del jazz : “Nel mio vecchio quartiere, a Montréal, tutte le case hanno una scalinata di metallo che sale lungo la facciata. Non so chi sia stato ad avere quell’idea, ma avrebbe fatto meglio a pensarci due volte, perché a Montréal gli inverni sono freddi e può capitare che quelle scalinate si trasformino in tre rampe ricoperte di ghiaccio. Con la bella stagione, invece, diventano una specie di cortile davanti a casa, e la gente ci passa molto tempo durante il caldo e umido periodo estivo. Avevo cinque anni e me ne stavo seduto sulle scale di fronte alla nostra porta. Ricordo che avevo in mano un pezzo di quella carta velina verde in cui una volta si avvolgevano le arance. La mia vicina, Esther Goldstein, giocava sulla scalinata dell’abitazione accanto. Stavamo chiacchierando, quando d’un tratto, durante la conversazione, Esther disse qualcosa sul fatto che ero stato adottato”. Insomma, siamo negli stessi luoghi, negli stessi anni, nelle stesse atmosfere, nella stessa comunità (quella ebraica del capoluogo francocanadese) raccontati da Mordecai Richler in Le meraviglie di St. Urbain Street (Adelphi, 2008). Le analogie non sono poche, ma si fermano qui: Richler prosegue raccontando le esilaranti storie del suo quartiere; Bley, che lasciò la sua città (sebbene non per sempre) giovanissimo per studiare alla Juilliard School of Manhattan, quelle del jazz e di tanti dei suoi protagonisti, che incontrò fin dall’adolescenza e assieme ai quali percorse lunghi tratti di strada, scrivendone molte, determinanti pagine. Proprio la madre adottiva ebbe un ruolo determinante per fare di Bley il musicista che sarebbe diventato. Per il suo diciassettesimo compleanno (1949), conoscendo il desiderio del giovane Paul di andare a studiare musica negli U.S.A., gli mise in mano 500 dollari e disse: “Va’ a New York, e quando finiscono torna indietro”.
Ma che musicista diventò Paul Bley? Il suo percorso creativo, come ci ricorda Stefano Zenni nella prefazione, non segue il classico sviluppo lineare, così come il suo stile è difficilmente collocabile in una precisa area. Pur incontrandolo in tanti momenti decisivi della storia del jazz, Bley resta un musicista inafferrabile, “una figura a tratti sfocata”, rincalza Antonio Zambrini nella sua “Nota” al volume, “a metà di una linea immaginaria che sembra portare da Lennie Tristano a Jarrett”. Il debito formativo nei confronti di Tristano è chiarissimo allo stesso Paul Bley: “Prima del bebop, il jazz era una musica per tromba, poi divenne una musica per sassofono, ma non fu mai una musica per pianoforte. Fu solo con Lennie Tristano”, scrive, “che il pianoforte divenne fonte d’innovazione e cominciò a venire copiato da sassofonisti e trombettisti”.
In quest’ottica, la sua autobiografia è, dunque, ancora più apprezzabile perché permette all’appassionato e allo studioso di seguirne i percorsi intellettuali ed espressivi, oltre a far immergere entrambi, con una narrazione che nulla ha da invidiare a quella della “forma romanzo”, nelle atmosfere di un mondo popolato da locali notturni, tournée, session di registrazione, lunghe discussioni sul futuro del jazz, aneddoti assurti alla leggenda e musicisti che leggendari lo sono diventati al di là degli aneddoti di cui sono stati protagonisti: Charlie Parker, Charles Mingus, Lester Young, Coleman Hawkins, Louis Armstrong, Lennie Tristano, Chet Baker (ah, Chet Baker. Galeotto fu quel disco per chi scrive), Ornette Coleman, Sonny Rollins e altri ancora, che abitano i sogni di ogni cultore del jazz e la realtà di chi quella musica la fa.
David Neil Lee, scrittore e contrabbassista, ha collaborato a lungo con la rivista canadese di jazz “Coda” e, assieme alla moglie Maureen Cochrane, ha fondato e diretto la casa editrice Nightwood Editions. Oltre a Liberare il tempo, ha pubblicato The Battle of the Five Spot.

Recensioni correlate