Recensioni / L’emancipazione come chimera: Corpomatto di Cristina Venneri

Il corpo, per definizione, è il campo d’azione dell’essere umano: cellule e pelle attraverso cui esperiamo le cose del mondo. A volte il contatto è perfettamente aderente a ciò che ci circonda, altre invece sembra formarsi una patina anestetizzante che insonorizza il fuori e lascia gridare il dentro. Il Corpomatto al centro del romanzo di esordio di Cristina Venneri pubblicato nella collana Quodilibet Storie è, appunto, un corpo impazzito, estraneo al percorso di vita che la società si aspetta da una giovane donna, schizofrenico rispetto alle attese standardizzate. Non è, però, come l’immaginario romanticizzato della “follia” vorrebbe, un corpo accelerato e libero dal giudizio, ma è un corpo addormentato e sospeso a cui è stata sottratta la sua principale funzione, quella di entrare in contatto.
Marta, la protagonista, racconta in prima persona lo stato di salute, anzi, per meglio dire, di malattia, della propria famiglia – genitori separati e ancora profondamente in conflitto tra loro – e le scelte che, nelle intenzioni, lei avrebbe dovuto compiere per distaccarsi da quel nucleo familiare zoppicante, abbracciando una vita finalmente autonoma. Marta decide infatti di lasciare la sua città natale, Taranto, per andare a studiare Lettere Classiche all’Università di Messina. L’allontanamento, però, finisce per essere soltanto fisico: il vincolo emotivo con le problematiche familiari è ancora troppo stretto, ben annodato a quello pragmatico della dipendenza economica.
L’esistenza di Marta stenta a prendere forma, lei fatica quasi a pensarla, a elaborare una forma di sé e per sé, atrofizzata nell’idea di un’emancipazione impossibile. Sostiene pochissimi esami e, dopo poco, è costretta a tornare a Taranto. Nessun vittimismo né responsabilità attribuite ad altri, Marta lo sa: fin qui si è potuta solo perdere perché ancora non si è cercata mai.
Taranto è una città velenosa che sputa fumo all’orizzonte, a livello letterale con l’inquinamento dell’impianto siderurgico dell’ex Ilva che rende il territorio mortifero, e a livello simbolico con l’assenza sistemica di possibilità lavorative che rende altrettanto cupo il cielo del futuro. Marta è costretta quindi a vivere in casa con la madre e la nonna – figura ambivalente, mostruosa e salvifica, che ostacola e allo stesso tempo agevola il suo percorso di formazione. Lo sguardo giudicante della nonna, paradossalmente l’unico occhio che si poggia davvero su Marta senza ripiegarsi su sé stesso, sarà determinante per provocare finalmente in lei una reazione risolutiva.
Nel romanzo il fuori – il fidanzato, gli amici, il divertimento vivo e infuocato tipico della gioventù – risulta sbiadito, un velo opaco sullo sfondo. Marta è così tesa verso un dentro intossicato dal malessere esistenziale dei genitori da dimenticarsi di sé. Il suo corpo, lei, è immobile: non sono i passi a mancare, ma la direzione da intraprendere, il sogno da immaginare. La fantasia è un lusso quando tutto è precipizio. Come talvolta accade, proprio quando la differenza di età si assottiglia e i figli sarebbero pronti ad avere un rapporto paritario con i propri genitori, i ruoli familiari si invertono e i primi indossano le vesti dei secondi, senza poter dimenticare la propria esigenza originaria di accudimento. Il cortocircuito è notevole e piuttosto irrisolvibile. Davanti a sé Marta ha una madre alcolizzata che tenta di nascondere la sua dipendenza e un padre che prova a imporre la propria autorità sperando così di avere ancora un peso nella vita della figlia. La stagnazione dei rapporti d’amore di Marta è lo specchio di questa incomunicabilità dei sentimenti.
La scrittura di Corpomatto è ingombrante e allungata – si espande sull’intera pagina dilatando le frasi a dismisura prima di chiudersi in un segno di interpunzione, oasi per riprendere fiato. Se da una parte questa operazione linguistica rappresenta la difficoltà comunicativa tipica dell’ambiente emotivo della protagonista, difficoltà riflessa nello sforzo del lettore di comprendere in apnea il pensiero lungo, dall’altra questo flusso di coscienza diventa un’esperienza immersiva. Nel romanzo Venneri inserisce in maniera esplicita il proprio riferimento letterario d’elezione: dentro lo zaino di Marta, infatti, c’è sempre un libro, Il male oscuro di Giuseppe Berto. La scelta di un autore così poco contemporaneo nello stile rispetto alle tendenze narrative odierne – caratterizzate, nella maggior parte dei casi, da una cifra dialogica più scattante e veloce e da un discorso organizzato piuttosto che sulla libera associazione delle idee – dimostra originalità e audacia. Come nel romanzo di Berto, Venneri isola un tema e ci avvita intorno considerazioni e riflessioni concentriche che imitano la schizofrenia del pensiero umano grezzo, quello che viene subito prima del discorso razionale. Il tono è distaccato e allo stesso tempo introspettivo, le parole non sono mai miele ma una sorta di resoconto indurito da un’ironia “difensiva”, capace di disinnescare i passaggi più drammatici.
Per Marta, dunque, l’unica alternativa possibile per far accadere finalmente la vita è quella di prendersi carico dei frammenti rotti e provare a ricomporli, diventando il collante di un cuore familiare che ha ancora a disposizione qualche battito. «E però la responsabilità era di ognuno di noi. Ognuno di noi avrebbe dovuto impegnarsi a sostenere un’armonia che non avrebbe vissuto di vita propria perché la felicità richiede una promessa mentre la casualità non porta a nulla».
Corpomatto è un romanzo che mette in scena lo smarrimento della condizione giovanile odierna, tra incertezza lavorativa, opportunità negate e perdita di riferimenti sociali e familiari stabili. La paura si fa congelamento, stasi, sguardo corto verso un’esistenza impossibile da osservare in prospettiva. In un’epoca così brutalmente colma di input e stimoli, che ci spinge verso un ritmo frenetico disabituandoci ai benefici della lentezza, la risposta spesso è un senso di vuoto che rischia di essere condizione permanente, uno stallo che, incastrandosi tra le pieghe della vita, diventa con gli anni definitiva rinuncia del sé.
Cristina Venneri utilizza la scrittura come strumento utile per rendere visibile questa lacerazione, che sia autobiografica – come lascerebbe intuire la terza di copertina dove scopriamo che è nata a Taranto e che ha studiato Lettere Classiche presso l’Università di Messina proprio come Marta – o meno, non importa. Il senso di realtà che pervade l’opera deriva da un vissuto diretto che scava in un repertorio umano ben conosciuto, per assurgere però a modello esemplare di uno spirito che accomuna un’intera generazione, a cui il romanzo dà voce sfruttando il peso profondo e catartico delle parole.
Riprendere a sentire il corpo, allora, di nuovo in contatto con il fuori materiale che torna a parlare con il dentro, in una riappacificazione liberatoria che conduca finalmente a una vita abbacinante.

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