Scrittore autonomo, Gianni
Celati lo era per indole: autonomo rispetto alla sua propria professione, all'ambiente letterario italiano, allo stesso destino
che lo aveva fatto esordire grazie
a un primo interessamento da
parte di Italo Calvino poi tradottosi in una proposta editoriale della stessa Einaudi. Nonostante tale istintiva libertà, a lui connaturata e che ha significato anche
ariosità di spazio creativo e di fervore scrittorio, il «cerimoniale del
narrare», come lo stesso Celati lo
chiamava, ha significato per lui far
fronte a più di una frattura, interna ed esterna, e addivenire a consapevolezze tutte dettate da una
sua intransigenza che era sì mite,
ma anche decisa e ferma, la stessa che lo ha portato con analoga,
non indurita radicalità, a separarsi da cose, forme, persone.
Di questo attraversamento racconta l'imponente volume che
raccoglie le sue interviste (Il transito mite delle parole. Conversazioni e interviste 1974-2014, Quodlibet, a cura di Marco Belpoliti e
Anna Stefi, pagine 644, euro
24,00). Una silloge di dialoghi da
Gianni Celati intrattenuti con interlocutori diversi - studenti e
giornalisti, scrittori, editori, Franco Marcoaldi e il compianto Severino Cesari, artefice delbeltitolo poi ripreso per questo volume.
Intervistato, Celati sempre replica
pacato, generoso nell'offrire condivisione dei propri ferri del mestiere di narratore e osservatore
minuzioso, accurato, paziente testimone, cosciente che «si osserva davvero qualcosa soltanto
quando si ha voglia di trasmetterlo ad altri».
La mitezza del transito delle parole è allora forma di buona educazione, un creare immagini e poi
comunicarle attraverso ciò che
viene detto nello scritto, e sempre
facendolo nel segno di un garbo
sommesso, prudente se pure fiducioso nel valore del rispetto, ovvero mai gridando, mai nulla imponendo, mai muovendosi in una
dinamica di rapporti di forza. Fedele a stesso garbo, Celati su ogni
suggestione si sofferma, riflette
meditabondo, sempre "preparato'; nelle risposte sviscerando le
questioni narrative che più gli
stanno a cuore, quelle che se pure con la mitezza di tutto quanto
lo riguarda, lo assediano. La questione della lingua intesa come ricordo, dello scrivere e usare il linguaggio come gesto di memoria
involontaria, mai pensandolo come oggetto oggettivo, a sé stante.
O l'altra idea letteraria parimenti
fondante per il suo lavoro, quella
secondo cui ogni racconto è
un'inserzione nel tempo, un «processo di attesa, attesa di una voce
che venga a me e ricapitoli il passato e crei la memoria».
Ampia silloge di conversazioni variegate e tra loro diverse per misura, statura, tenore, contesto, ma
che tutte ribadiscono un principio a cui lo stesso Celati avrebbe
forse accordato plausibilità. Quello di una "vera" voce di scrittore
che tragga originalità, e spessore,
e autonomia, soprattutto dalla virtù della riflessione, del saper pensare sé stessa come voce, e così
pensandosi, libera di stagliarsi da
uno sfondo che rischierebbe altrimenti di opacizzarla, renderla
mero automatismo di esercizio,
mera sfida.
Proprio perché amava il vivere appartato, laterale, lontano da ogni
assertività gridata e dalla cruda luce artificiale del successo cercato
artatamente, proprio perciò, mite
e affilato Gianni Celati sapeva
concedersi ampi margini di tempo e di spazio così da poter pensare cosa sia scrittura, e cosa una
voce, e cosa, ancora, l'incunearsi
di quella voce in stessi spazio e
tempo. E lui a condurre per mano
i suoi molti intervistatori e interlocutori, facendolo con la saggezza e la compostezza di chi sa bene che ogni dialogo è l'eco che semina, è sedimento trovato in un
tempo successivo, memoria che
va costruendosi nell'atto del ripensare. Così come, con stessa pacata sapienza, in altri dialoghi è
lui a portare la conversazione sullo sguardo, e cosa sia guardare; lui,
Celati, che a un certo punto della
carriera (termine quanto mai al
suo caso alieno, da sostituirsi forse piuttosto con "percorso; o addirittura con "strada") aveva incominciato ad affiancare allo scrivere il filmare, fare documentari
(primo dei quali, prodotto da RaiTre, fu una liberissima versione
filmica del libro Verso la foce).
L'importanza della fotografia di
Luigi Ghirri, quella anche emerge
bene da alcuni di questi dialoghi.
Ghirri fu per Celati maestro di
un'attitudine insieme critica e
contemplativa del paesaggio italiano, osservato nel dettaglio nitido dei suoi incessanti mutamenti. E la sintonia tra i due fu per Celati tappa decisiva del suo cammino verso la «scrittura come visione»: una ricerca che lo rese ancora più appartato, più profondo, e
riflessivo, e lento, di una lentezza
tesa a costruire, lasciar sedimentare, mostrare, far pensare il lettore, mai distanziandosi né distanziandolo dalla mite esattezza del
tempo, e neppure da quella, più
mite ancora, delle parole, còlte e
trattenute nel corso del loro inarrestabile, infallibile transito.