Recensioni / Un “corpomatto” che sconfigge nessuno

Diceva Jacques Le Goff che non esiste un’era che non sia di passaggio; anche quelle che sembrano tese verso la definitiva e più stabile consacrazione di un certo equilibrio, sono arcignamente braccate dallo scorrere della linea del tempo. Anche quelle quindi, con il loro carico di velocità, cambiamento, superamento, non fanno che condurre a un’altra epoca anch’essa di trasformazione, di cambiamento, di passaggio in definitiva.
La vita di Marta contraddice esattamente questo assunto storico: si trova sempre sulla soglia, sempre sull’orlo di un cambiamento che però – in questo caso – viene trattenuto da un passato che non se ne va. Marta è la narratrice in prima persona del primo romanzo di Cristina Venneri (pubblicato nella collana Storie dalla casa editrice Quodlibet): nata e cresciuta a Taranto, Marta si trasferisce a Messina per studiare Lettere Classiche. Al di là dello Stretto riuscirà a sostenere un solo esame; ad innamorarsi di Tobia (il batterista di una band passata in tour in Sicilia), con il quale aprirà una relazione fatta per lo più di mancanza e privazione del corpo, di continua tensione irrisolta; a trovare l’affetto sincero di un professore universitario che tenta di farle attraversare il confine che invece il suo “corpomatto” non si azzarda a lasciarsi alle spalle.

Forse in quel momento aveva la sensibilità aumentata dall’amore che è un vasodilatatore che ossigena l’ovvietà che quotidianamente ci circonda. (p. 53)

La soglia è rappresentata da Taranto – città che ammala e uccide – e dalle macerie della propria famiglia: i genitori separati senza un chiaro processo di uscita dal rapporto, la madre con problemi di alcolismo, il padre vittima di una solitudine che si incarta su se stessa. Il ritorno a Taranto dall’esperienza messinese rappresenta per Marta l’ulteriore discesa in un nuovo girone dell’inferno: la convivenza con sua madre e sua nonna, una tivù costantemente accesa e la fuga verso un ricongiungimento necessario con suo padre.
Marta riesce a ricomporre l’altro corpomatto del romanzo, la sua famiglia, pagando per questo però un prezzo enorme: gli anni di Messina sono così lucidi che non sembrano veri, Tobia è talmente lontano da non apparire più come una chimera, piuttosto come un bene a cui tendere idealmente.

L’avevo atteso così tanto che non mi sembrava sufficiente tutta quella adesione di epidermide, mi sarebbe servito squartarci il torace e scambiarci gli organi, liquefare i cervelli, mischiarli e deglutirli in piccoli shot. (p. 140)

Tutto questo è per Cristina Venneri il materiale essenziale intorno a cui costruisce un monologo di così detta autofiction che si sposta di lato rispetto a quanto, in questi anni, l’editoria italiana ha prodotto. La scrittura è meno compiaciuta, quasi prettamente storica: sembra che la verbalizzazione – troppo spesso innalzata a “cura” per lo scrittore – appaia come un ostacolo, il frutto dello sforzo di definire qualcosa che una forma non potrà mai avercela.
Il linguaggio assunto dalla Venneri è per niente enfatico, spesso indefinito: le lunghe frasi, l’assenza o quasi dei punti di interpunzione, il contorcersi vibrante intorno a un fatto, una cosa, un evento, sembrano pescare a piene mani dallo stile iconico di Paolo Nori. Con la grande capacità, però, non di imitarlo ma di usarlo soltanto come riferimento, come un oggettivo metro di paragone. Nella sintassi, così come nel flusso narrativo, in Corpomatto si aprono nuove vie che non vengono esaurite, che rimangono aperte, innescate e mai definitivamente esplose. Questo lascia la sensazione di una eterea non-conclusione che è poi l’impedimento di Marta nell’attraversare la soglia a cui resta, per certi versi, aggrappata, forse anche per sopravvivere.

Eravamo tutti colpevoli ma avevamo scelto di assolverci. (p. 114)

L’altro grande pregio della scrittura di Cristina Venneri sono le variazioni del tono: non c’è mai un appiattimento della voce sul sentimento o sull’evento descritto. Si racconta con enfasi un fatto minuscolo, liquidando al contempo un evento drammatico e potenzialmente decisivo; si scherza sulla morte e il dolore e ci si arrovella sui sentimenti più passeggeri e superficiali. Questo rovesciamento – insieme alla singolare costruzione sintattica dei periodi – permette al processo di lettura di essere costantemente ribaltato, mai pienamente lineare. Ma perché questo aspetto è così decisivo? Perché troppo spesso, negli ultimi anni, in quel filone narrativo che si è andato definendo come autofiction la lettura invece sembra sempre uguale a se stessa, sovente sembra di star assistendo alla disvelazione di un segreto inenarrabile e che ci viene concesso in anteprima dallo scrittore. In Corpomatto ci troviamo nelle pieghe di una storia difficile e complicata ma, come tutte le storie, elemento in mezzo agli altri, granello mescolato agli altri. Il suo essere così modesta la rende, pertanto, eccezionale.

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