Recensioni / Le Eliadi di Ovidio e il corpo rappreso di Marta. Note in margine a Corpomatto di Cristina Venneri

Perdersi nei boschi narrativi può essere persino più piacevole che limitarsi a passeggiarvi. Ma perdersi è un lusso che ai filologi non è concesso. E dunque queste mie note in margine al recente Corpomatto di Cristina Venneri, edito per i tipi di Quodlibet nella bella collana ‘Storie’ con la sobria eleganza che contraddistingue da sempre l’editore maceratese (qui, come spesso altrove, fin dalla splendida copertina: una foto in bianco e nero, assai intensa, di Michela Forte), si propongono il fine, invero modesto, di riflettere brevemente intorno al finale del libro. Con ricadute che finiranno per investire, sia pure entro limiti ben definiti e assai più nella chiave del cenno rapsodico che in quella del puntuale, impegnato scandaglio analitico, il senso complessivo del libro, senza però aspirare a trasformarsi in ciò che non potrebbero essere, ovvero in una recensione, per così dire, militante. Prescindendo qui dal valore intrinseco del libro, che mi è parso bellissimo (questo, almeno, mi sia lecito dirlo), nella specifica prospettiva dello storico delle letterature classiche questa prova di esordio è interessante perché lo straordinario finale che fulmineamente la suggella si presenta come un caso di riscrittura di un ipotesto classico, notissimo: l’episodio della metamorfosi delle Eliadi raccontato da Ovidio nel libro secondo delle Metamorfosi. Su questo cercherò dunque di riflettere: sui modi e sul senso di questa riscrittura, con un’avvertenza preliminare che sento doverosa in relazione a coloro che dovessero leggere questo mio pezzo senza avere prima letto il libro: non lo facciano! O almeno, ove proprio vogliano, lo leggano soltanto dopo avere letto il libro: scoprirne il finale rovinerebbe loro irreparabilmente il piacere della lettura.
Sarebbe intanto opportuno, per cominciare, un tentativo di riassunto dei temi in gioco nel libro. Il quale, però, non mette in scena una storia, né si dipana lungo il filo di una narrazione fatta di eventi memorabili: una circostanza che rende difficile il compito di chi voglia provare a dire in breve di cosa vi si parli. Il ritmo è piuttosto quello della successione di una folta, densa serie di microeventi narrativi, centrati prima sulla carriera universitaria della protagonista, Marta, poi, nella seconda parte, sui suoi rapporti con i familiari (il padre, la madre, la nonna materna), che però occupano un posto importante fin da subito, specie per ciò che attiene alla figura della madre. Tra gli spunti comuni ai due tempi del libro, la relazione d’amore che la protagonista stringe con Tobia, un batterista conosciuto in occasione di un concerto tenuto dalla sua band a Messina, la città nella quale Marta segue i suoi corsi universitari. Se nella prima parte il libro appare incamminarsi sui binari del romanzo di formazione, tra ricorrenze topiche (la studentessa fuorisede; gli amori ai tempi dell’università; il rapporto contrastato con i familiari lontani, e così via), che rischierebbero persino il trito se non fosse per l’austero, severo controllo al quale l’autrice sottopone il materiale narrativo che ha per le mani, nella sua seconda parte esso rappresenta il diagramma di uno sfacelo, progressivo e inesorabile. Uno sfacelo annunciato già nella prima parte del libro: gli studi interrotti; le conseguenze drammatiche dell’alcolismo sulla salute della madre; un generale disagio nei confronti dell’esistenza, giocato più ancora sul pedale della rassegnazione che su quello della disperazione, che nella seconda parte, in un crescendo molto ben calcolato, deflagra in crisi aperta e irrecuperabile. Con sapienza, l’autrice declina le vicende messe in scena negli ultimi capitoli, a partire dal quindicesimo, facendo baluginare, a un tratto, una luce di speranza. Dopo l’ultima crisi, la madre di Marta, dimessa dall’ospedale, raggiunge il marito, lasciando la casa di sua madre, la nonna materna di Marta, presso la quale aveva a lungo vissuto in compagnia della figlia. Padre, madre e figlia si riuniscono sotto lo stesso tetto. La condizione di separazione dei coniugi sembra trovare soluzione in un ritrovato, rinnovato accordo: un’armonia nuova, difficile ma concreta, per la quale la casa paterna, una villa a due piani non distante da Taranto e dal mare, sembra farsi quinta plausibile, ospitale. Fino alla crisi: abrupta al punto da occupare le poche pagine che dal diciannovesimo capitolo portano all’ultimo, il ventunesimo. Un crollo, più che una crisi, che coinvolge, a un tempo, il rapporto con Tobia e quello con i genitori, a loro volta incapaci, alla prova dei fatti, di recuperare quanto forse non erano mai riusciti a costruire davvero nel loro passato, ovvero un’unione stabile, forte, serena. Il colpo è a tal punto duro che Marta ne risente fisicamente, nel corpo, finendo presto in una condizione prossima al letargo:

I giorni successivi li trascorsi in un vuoto irrimediabile mentre i miei genitori riempivano la casa di insulti e lamentele. Passavo le giornate chiusa nella mia camera buia, sdraiata sul letto a guardare il soffitto e pensare versi mortiferi che neanche scrivevo. Poi, una sera, la parete della cameretta dietro il letto di mio padre si ricoprì di bolle e crepe dovute a un’infiltrazione d’acqua fuoriuscita da una tubatura rotta del bagno adiacente. Dacché la casa era silenziosa iniziai a sentire i miei genitori che litigavano animatamente [...]. Seduta sul letto li lasciai sfogare fissando lo sguardo sulla parete ingiallita di umido. Non volevo più parlare con nessuno. E anche dopo, quando quelli se ne andarono chi a chiudersi in una stanza, chi a farsi offrire da bere fuori casa, io rimasi ancora per un po’ a fissare la parete ingiallita. Poi mi alzai lentamente e mi trascinai fino al mio letto su cui mi sdraiai per non alzarmi più. Il terzo giorno mia madre venne a sedersi accanto al mio corpo in letargo.

Al terzo giorno Marta, nonostante le cure della madre, non resuscita se non quel poco che basta per nutrirsi di un’insalata e di una fettina di carne, accompagnate da una spremuta d’arancia, e poi seguire la madre in riva al mare. E con lo sguardo rivolto all’orizzonte, prendere definitiva, rassegnata contezza dell’immutabile, irreversibile fissità delle cose:

Davanti allo stesso mare di sempre e accanto al corpo di mia madre che era stato ricollocato nel luogo in cui la mia famiglia aveva avuto origine mi rassegnai nuovamente all’idea che ognuno rimane al suo posto e l’essere umano non è un’energia rinnovabile.

Ed ecco le ultime righe del libro:

Durante i giorni in cui avevo fatto morire il mio corpo nel letto della mia camera, mio padre aveva sradicato il ceppo della vite. Trovai un grosso buco nel terreno e mio padre disse che ormai i vermi se la stavano mangiando da dentro o forse le avevo dato troppa acqua sulle radici. Affondati i piedi nel buco, tastando la terra umida con le dita, li sentii irrigidirsi in un blocco, l’una contro l’altra le cosce aderenti si unirono, si allungarono le braccia verso direzioni opposte e in un corpo compatto furono fasciati l’inguine, il ventre, il petto, le mani, infine la bocca.

Come si diceva, il capoverso finale del libro dipende da un episodio narrato da Ovidio nel libro secondo delle Metamorfosi: la trasformazione in alberi delle Eliadi, le figlie del Sole, sorelle di Fetonte. L’episodio, che giunge al culmine del racconto del rovinoso destino di Fetonte, si snoda nei versi che seguono (Ov. Met. 2, 340-366):

Nec minus Heliades lugent et inania morti
munera dant lacrimas et caesae pectora palmis
non auditurum miseras Phaethonta querelas
nocte dieque vocant adsternunturque sepulcro.
Luna quater iunctis implerat cornibus orbem;
illae more suo (nam morem fecerat usus)
plangorem dederant. E quis Phaethusa, sororum
maxima, cum vellet terra procumbere, questa est
deriguisse pedes; ad quam conata venire
candida Lampetie subita radice retenta est;
tertia, cum crinem manibus laniare pararet,
avellit frondes; haec stipite crura teneri,
illa dolet fieri longos sua bracchia ramos.
Dumque ea mirantur, complectitur inguina cortex
perque gradus uterum pectusque umerosque manusque
ambit et exstabant tantum ora vocantia matrem.
Quid faciat mater, nisi quo trahit impetus illam
huc eat atque illuc et, dum licet, oscula iungat?
Non satis est: truncis avellere corpora temptat
et teneros manibus ramos abrumpit; at inde
sanguineae manant tamquam de vulnere guttae.
«Parce, precor, mater» quaecumque est saucia clamat,
«parce, precor; nostrum laceratur in arbore corpus.
Iamque vale» – cortex in verba novissima venit.
Inde fluunt lacrimae stillataque sole rigescunt
de ramis electra novis, quae lucidus amnis
excipit et nuribus mittit spectanda Latinis.

La riscrittura operata da Venneri investe, come si vede, una porzione molto circoscritta del lungo e dettagliato resoconto ovidiano, ovvero il momento culminante della trasformazione in alberi delle tre sorelle, corrispondente ai vv. 345b-355. Ed è riscrittura sapiente, fin dal fatto che la ripartizione in tre tempi diversi del prodigioso trasformarsi delle Eliadi collassa, nell’ipertesto, in una scansione unitaria, sola e isolata trovandosi a essere, nel finale del libro, la protagonista del processo metamorfico. L’irrigidimento dei piedi di Phaethusa (e quis Phaethusa [...] questa est / deriguisse pedes) è il primo dettaglio a essere ripreso, nell’ordine scelto da Ovidio: «Affondati i piedi nel buco, tastando la terra umida con le dita, li sentii irrigidirsi in un blocco». E forse anche il frustrato istinto che spinge Phaethusa a cercare, prostrata, la terra in segno di disperazione e di lutto (cum vellet terra procumbere) trova corrispondenza nell’ipertesto, per quanto in accorta variatio, nell’affondare dei piedi di Marta nel buco apertosi nella terra dopo lo sradicamento del ceppo della vite, nel suo tastare con le dita la terra umida del fosso: un movimento analogo, verso il basso, che però, nel libro, acquista una tinta del tutto diversa. Già questo primo dettaglio comunica la misura e il senso dell’operazione intertestuale condotta da Venneri: la narrazione ovidiana, pervasa da un patetismo acuto e teso al quale non è estranea una tinta specificamente elegiaca, è sottoposta a un processo di disseccamento che, semplificando e sfrondando l’ipotesto fino a preservarne non più che una traccia ossificata e brulla, eppure perfettamente riconoscibile, perché resa con la massima fedeltà possibile al dettato originario, lo trasporta dal regno dell’illusione, della fantasmagoria, dello spettacolo, persino, a un reame di stupefazione immota, inesorabile, tombale. Da qui, direi, l’esigenza di chiudere il processo di metamorfosi nell’arco di quattro righi, senza più nulla aggiungere al suo compiersi («infine la bocca»): un’esigenza, ben comprensibile, che taluno, tra i recensori del libro, ha scambiato per fretta, mentre è spia, invece, di un istinto narrativo lucidissimo, infallibile, che, nel luogo esposto, sensibile, nudo, della clausola assoluta, trova il suo culmine.
Torniamo, adesso, alle righe finali del libro. Il destino che tocca, in Ovidio, alla candida Lampezia, che nel tentativo di raggiungere la sorella avverte il suo movimento bloccato dall’improvviso farsi radice dei piedi (subita radice retenta est), replica il tema di Phaethusa. Venneri elide la reduplicazione, recuperando però dall’inserto di Lampezia, se vedo bene, il motivo delle radici: anche qui variando, però, ché nel libro la parola ‘radici’ ricorre appena prima che il processo metamorfico a carico di Marta si metta in moto, in relazione al ceppo di vite sradicato dal padre. Segue, in Ovidio, la trasformazione della terza Eliade, che nell’atto di levare le mani a svellersi i capelli, scopre di essersi strappata via dal capo, al posto dei capelli, fronde d’albero. Se il dettaglio del fogliame è anch’esso trascurato, Venneri recupera invece in termini di resa quasi letterale tutto ciò che compare nei versi immediatamente seguenti, che varrà la pena di tornare a citare (Ov. Met. 2, 351b-355):

haec stipite crura teneri,
illa dolet fieri longos sua bracchia ramos.
Dumque ea mirantur, complectitur inguina cortex
perque gradus uterum pectusque umerosque manusque
ambit et exstabant tantum ora vocantia matrem.
Nella riscrittura, i particolari anatomici della trasmutazione sono riprodotti, come si diceva, con fedeltà estrema: «l’una contro l’altra le cosce aderenti si unirono» adatta haec stipite crura teneri; «si allungarono le braccia verso direzioni opposte» riscrive illa dolet fieri longos sua bracchia ramos; infine, il martellante accumulo finale, «e in un corpo compatto furono fasciati l’inguine, il ventre, il petto, le mani, infine la bocca», che traduce, quasi, la sequenza contenuta nei due versi e mezzo che chiudono la pericope citata. Ma con un’importante variazione: se in Ovidio la bocca delle Eliadi rimane libera ancora dal prepotente abbraccio della scorza, alla bocca di Marta tocca da subito la medesima sorte che investe il resto delle membra interessate dal processo di metamorfosi. Anche in Ovidio la bocca delle Eliadi finirà presto per serrarsi nella morsa della corteccia: accade poco oltre, a v. 363 (cortex in verba novissima venit). Nel frattempo, però, le Eliadi hanno avuto il tempo di interloquire con la madre, nel culmine patetico della scena. Climene corre da una parte all’altra, disperata; bacia le figlie fino a che le è consentito (dum licet); cerca, persino, di liberarne i corpi dalla morsa fatale del legno, spezzando i rami, dai quali però escono stille di sangue, come da ferite. E le figlie, prima di accomiatarsi e tacere per sempre, pregano la madre di fermarsi, a evitare il protrarsi dello strazio: nostrum laceratur in arbore corpus (362).
Marta subisce invece la sua metamorfosi, come si è già detto, in uno scenario di solitudine assoluta, nel più totale silenzio. Con la madre, Marta ha parlato nella scena immediatamente precedente, davanti all’orizzonte e al mare. E la madre non ha saputo fare altro che mostrarsi fiera del suo resistere alla «richiesta di amore a domicilio» avanzata nei suoi confronti da Tobia: «Neanche un biglietto del treno ti ha pagato se non potevi raggiungerlo mi disse con soddisfazione». E il tragico equivoco, che risiede tanto nella mal riposta fierezza con la quale la madre di Marta accoglie quello che crede essere il rifiuto opposto dalla figlia a seguire il suo uomo lontano da casa quanto nella soddisfatta grettezza dell’osservazione relativa al biglietto del treno, rende impensabile ogni ulteriore interlocuzione. Così, il finale del libro rinuncia per pura forza di cose non solo al patetico dialogo delle Eliadi con Climene, ma anche, a maggior ragione, all’apertura profetica dell’àition che chiude, in Ovidio, l’episodio: il rapprendersi delle lacrime delle sorelle nell’ambra destinata in futuro a pervenire alle spose del Lazio. Un’apertura al futuro, entro certi limiti rassicurante, se non proprio confortante, per il suo carattere prospetticamente risarcitorio, che nel repentino, stecchito finale del libro non si saprebbe come immaginare recuperabile.
Ora, per quanto sia lecito chiedersi se a un esito di riscrittura tanto sapiente l’autrice sia pervenuta per pura forza d’istinto narrativo e intertestuale o, invece, in virtù di un lavoro minuzioso sull’ipotesto, come a me sembra assai più probabile, resta, intanto, il fatto che, considerato il suo valore, il finale di Corpomatto dovrà di necessità essere preso in seria considerazione da chi, d’ora in poi, si occuperà della fortuna delle Metamorfosi. Resterebbe poi, certo, da riflettere a lungo sui termini in cui questo straordinario finale può aiutare a intendere, retrospettivamente, il senso del libro nel suo complesso: delle vicende che vi si trovano narrate, dei personaggi che vi si muovono. Ma se cedessi alla tentazione di riflettere in questa prospettiva, il rischio di perdermi nel pur fascinoso bosco narrativo allestito da Venneri sarebbe così alto che forse giova che io desista prima di cominciare. Mi limiterò dunque a osservare, per rimanere al finale, che non è cosa che possa sorprendere la circostanza che un libro che ha al suo centro la dimensione del corpo si chiuda con una metamorfosi. E questo è un libro nel quale le ragioni del corpo sono pervasive fin dal titolo. Per intendere il quale è utile fare riferimento a ciò che ne dice l’autrice in un’intervista concessa a Elisabetta Bucciarelli, apparsa col titolo Tre generazioni in «Cooperazione» del 16 agosto 2022: ‘corpomatto’, così Venneri, «è un’espressione che ho modellato da una citazione di Gianni Celati, autore che ha influenzato la mia scrittura dal punto di vista dell’ironia. Si tratta di un sintagma di cui non ho colto immediatamente il senso, ci ho riflettuto parecchio fino ad attribuirne uno mio: un ‘corpo matto’ è un corpo che non assolve la sua funzione di stare al mondo, per incapacità. È l’erede, l’evoluzione dell’inetto novecentesco». Quanto a Celati, un elemento ulteriore lo devo all’amichevole cortesia dell’autrice, la quale mi scrive che l’ispirazione per il titolo del libro le è provenuta dal testo della quarta di copertina della prima edizione della Banda dei sospiri, edita da Einaudi, nei ‘Coralli’, nel 1976. La iunctura ‘corpo matto’ (non univerbato, come si presenta invece nel titolo del libro) ricorre in chiusa del testo, la cui sezione finale corre come segue:

Quello della famiglia è un romanzo che sappiamo tutti perché ce l’abbiamo scritto nel corpo, nei nostri atteggiamenti, deliri, infantilismi. Ma è proprio il racconto comune che conta, quello che potrebbero fare tutti, avendone voglia: le avventure del disadattamento sociale, l’esperienza nei luoghi concentrazionari ecc. C’è una grossa differenza rispetto ai romanzi monumentali che i grandi scrittori continuano a proporci, con le loro trame prestabilite, le loro acute interpretazioni della Storia. È che il racconto comune nasce dalla casualità e dalla ripetitività quotidiana, perciò non può essere portatore di grandi visioni tragiche o consolatorie. È un’indiscrezione locale, una violazione d’omertà, un modo di far parlare il corpo matto.

Credo che combinare ciò che Venneri dichiara alla sua intervistatrice e il contenuto del testo pensato da Celati per la quarta di copertina della sua Banda dei sospiri sia operazione che possa portare lontano in funzione dell’interpretazione complessiva del libro. Ecco, dal testo di Celati, alcuni lemmi o nessi chiave sui quali varrebbe la pena di lavorare: ‘famiglia’, ‘corpo’, ‘deliri’, ‘racconto comune’, ‘disadattamento sociale’, ‘romanzi monumentali’, ‘casualità’, ‘ripetitività quotidiana’, ‘indiscrezione locale’, ‘violazione d’omertà’. E ovviamente ‘corpo matto’. E poi l’idea che un ‘racconto comune’ non possa essere «portatore di grandi visioni tragiche o consolatorie»: un’idea nella quale si potrebbe ragionevolmente ravvisare, credo, il senso complessivo del libro, che mette in scena una vicenda di fallimento e di scacco spogliandola di ogni possibile connotazione tragica e rinunciando però, a un tempo, anche solo al sospetto della speranza, della consolazione (questo, ripeto, il senso della raggelata trasmutazione finale). Nell’intervista, Venneri, lo si è visto, afferma che «un ‘corpo matto’ è un corpo che non assolve la sua funzione di stare al mondo, per incapacità. È l’erede, l’evoluzione dell’inetto novecentesco». Ma ecco, diversamente da quanto si dà, nel libro, in relazione al corpo della madre, devastato dall’alcool e presentato al lettore nel suo sfacelo con dovizia di particolari anatomici a tratti persino ripugnanti, eppure caparbiamente aggrappato alla vita, resistente, tenace, il corpo di Marta è il terreno fisico, carnale, a spese del quale la dinamica di progressivo annullamento che l’autrice inscena nel libro celebra, letteralmente, il suo compiersi. Così, Ovidio è sì ripreso e ripensato, nel finale, ma all’interno di uno spazio che nega, una per una, le meccaniche più tipiche dei processi metamorfici in letteratura. Uno spazio nel quale il movimento trasmutativo, senza una volontà divina che lo determini; senza che la sua origine sia ricondotta a una colpa specifica, esplicitamente dichiarata; senza che nulla controbilanci o risarcisca la trasmutazione; senza che ad essa segua altro che il ligneo rapprendersi di radici e corteccia intorno alle membra affrante della trasmutata, assomiglia, assai più che alle vicende delle mutatae formae e dei nova corpora delle quali è annuncio nel celebre proemio ovidiano, a una sorta di implosione.
Forse, più che nei termini di una metamorfosi in senso ovidiano, sarà allora da inquadrare come un’anamorfosi, il procedimento di trasmutazione che Venneri riserva alle membra di Marta nel finale del suo libro? Forse, ma in un senso molto particolare: al negativo, per così dire. Giova, a questo proposito, rileggere una breve sezione delle pagine premesse da Jurgis Baltrušaitis al suo gran libro, Anamorphoses:

L’anamorfosi [...] dilata e proietta le forme fuori di se stesse invece di ridurle progressivamente ai loro limiti visibili, e le disgrega perché si ricompongano in un secondo tempo, quando siano viste da un punto determinato. Si tratta di una distruzione che prelude a un ripristino, di un’evasione che implica però un ritorno. [...] L’anamorfosi è un rebus, un mostro, un prodigio.

Alla spaurita, solitaria Eliade nella quale Marta si tramuta prima di metamorfosarsi in tronco tocca in sorte una vicenda di collasso, di subitanea implosione, che con i procedimenti di anamorfosi condivide sì il moto di trasformazione in direzione di altro, ma in una direzione polarmente opposta e relativamente al solo tragitto di andata, per così dire. Non dilatazione e proiezione verso l’esterno, dunque, ma blocco, chiusura, solidificazione. E poi: disgregazione, distruzione, evasione, che non prevedono però né ricomposizione, né ripristino, né ritorno. Un’anamorfosi, dunque: ma incompiuta, e anzi, amputata, dimidiata, tanto per ciò che attiene alla relazione intertestuale istituita con il racconto ovidiano quanto in relazione al concreto darsi dell’evento metamorfico. Quello di Marta è un viaggio di sola andata: il tronco che la inghiotte, simbolo postremo del suo destino complessivo, che è progressiva negazione del corpo e della vita, è certo un rebus, un prodigio. Ma è, soprattutto, la sua bara, che, nel suo immoto, irreversibile persistere, ci interroga.

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