Recensioni / Attraverso una speranza

«I nostri avi, gli Sciti, prendevano ogni loro deliberazione due volte, la prima da ubriachi, la seconda da sobri» (Fortini 2022, p. 11). Questa parabola, citata da uno dei più grandi poeti marxisti del Novecento italiano, Franco Fortini, fornisce una prima chiave di lettura della ripubblicazione, ad opera di Quodlibet, del volume Attraverso Pasolini, pubblicato da Fortini nel 1993, pochi mesi prima della morte. Rileggere oggi questo lavoro poderoso inaugura un ri-attraversamento in grado di mostrare, negli scarti, nei movimenti, nei sussulti della scrittura (delle scritture), le ragioni di una contraddizione e, insieme, le “ragioni”, fuori-cardine, di un’amicizia.
Il fitto montaggio di articoli, lettere, appunti, scritti polemici e critici, composti da Fortini su, con e contro Pier Paolo Pasolini tra il 1952 e il 1992, riconsegna infatti una tensione inaggirabile: Attraverso Pasolini non si configura come un corpo a corpo con il fantasma biografico dell’amico-nemico; neppure come un percorso iniziatico o esoterico; esso dice piuttosto di un’eredità o di un deposito ricevuti e modulati dal significato secondario del verbo “attraversare”. “Attraverso” è, come Fortini stesso annuncia, il nome di un intoppo, di una contraddizione, di un «di-traverso» che reciprocamente si incarna nei due poeti, impedendo qualunque conciliazione critica, qualunque pacificante riconoscimento narcisistico nell’altro. Il lavoro archeologico, come l’operazione critica, risulta animato da un’inconciliabilità che introduce nella scrittura un eccesso, più precisamente, un pathos della distanza che trascina i segni oltre sé stessi, verso una lingua quasi-straniera, che reclama a questo punto la propria decifrazione.
Con la recensione all’antologia La poesia dialettale del Novecento, redatta da Fortini per la rivista “Comunità”, s’inaugura una relazione – pubblica, letteraria, epistolare – che dal 1955, con la scelta fortiniana di collaborare alla «povera ed eroica» rivista “Officina” (fondata da Pasolini, Leonetti e Roversi), diverrà sempre più intensa, fino a giungere a una definitiva rottura nel 1968, in occasione delle diverse posizioni assunte dai due intellettuali sul movimento operaio e studentesco. I nodi storici di un’epoca – primo fra tutti il 1956, che, con la relazione di Chruščëv al XX Congresso del Partito, sembra avviare una nuova fase per il comunismo internazionale – risultano indissolubili dall’interrogazione incessante sulla forma poetica e su quel mandato dello scrittore di cui Fortini, nel 1964, riconoscerà la fine (Fortini 1989).
«L’impostazione morale in funzione politica (e viceversa)» (Pasolini 1999, p. 1212) che guida la tentazione poetica di Fortini e, insieme, ne reclama il superamento nel dato extra-poetico, collide e penetra nella scrittura pasoliniana, nella «tensione ambigua, non interamente affrontata» (Fortini 2022, p. 89) che la anima. La relazione tra la storia, l’ideologia e la pura astanza della poesia (il suo configurarsi come materiale linguistico o sistema di segni resistente alle “categorie del giudizio”) si dissolve e si coagula continuamente nell’incontro/scontro tra le due scritture che, in occasione della pubblicazione del componimento Una polemica in versi (1956) – confluito ne Le ceneri di Gramsci – lascia emergere la posta in gioco dell’intero testo.
«Sotto la griglia delle false terzine» (ivi, p. 43), il racconto epico-lirico di Pasolini dà corpo ai «muti attestati di un popolo oppresso/e non conscio, diviso in scantinati/tuguri, lotti» (Pasolini 2003, p. 852), e al brivido umano di già vecchi piani di lotta. All’invito di Pasolini al «religioso errore» (ivi, p. 855) per chi, «leva della speranza», serve il popolo solo nella sua bandiera e non nel cuore, Fortini, in un testo intitolato Al di là della speranza, risponde con l’accusa di «pietà impietosa» per il popolo (Fortini 2022, p. 78) – un popolo sempre arcaico, meridionale, mitico – condannato dal poeta-Pasolini, unico vedente, al non-sapere.
Sulle accuse di decadente latitudinarismo narcisistico e regressivo (che inchioderebbe il popolo ad un eterno ritorno e il poeta al miele e al vischio della colpa pseudo-cattolica) e di astratto moralismo (che legherebbe Fortini a larga parte dei comunisti ortodossi), nell’epoca della fine delle speranze post-resistenziali, si innesta il movimento tra mitizzazione economico-politica e mitizzazione poetica del popolo, tra speranza e non-speranza, in cui le due scritture si scindono e si contaminano reciprocamente, abitandosi l’un l’altra come alterità irriducibili. «Come potrò con pura passione operare/ se so che la nostra storia è finita?» (Pasolini 2003, p. 823); «Non ti dico speranza. Ma è speranza» (Fortini 2022, p. 81). Nell’intervallo che separa e unisce i due versi, si produce una zona di indistinzione e, insieme, di impossibile identificazione, tra la storia e la sua fine, che nei testi dei due autori si fa traccia. In Al di là della speranza, Fortini, adottando gli stilemi poetici (la mania dell’aggettivazione, la tensione tra oscillazione ritmica e schematismo metrico) che invalidano, nella versificazione pasoliniana, il proposito di ricondurre la poesia assoluta al moto ragionativo e storico di una prosaicità ideale, compie una doppia operazione: se da un lato adotta la posizione poetico-politica di Pasolini per contraddirla, dall’altro lascia che le «parole sorde dell’economia politica» (ivi, p. 76), i dati decisivi da cui la struttura e il senso del verso risultano inscindibili, cedano al tentativo di provarsi ad un “discorso non suo”, all’introduzione, nella propria scrittura, di un dissidio, che diviene grafia nella scrittura dell’altro.
Tra l’urgenza pasoliniana – vitale fin nell’estrema esperienza poetica di Trasumanar e organizzar, nel nichilismo radicale de La Nuova Gioventù – di uno sperimentalismo che, adottando schemi stilistici collaudati, ne muti la posta in gioco rinunciando alla libertà stilistica novecentesca, e la necessità, teorizzata da Fortini, di forme ritmiche in grado di farsi durata in nuove istituzioni metriche; tra l’insistenza sul momento negativo, ossimorico d’uno sforzo all’altezza di una realtà «non posseduta ideologicamente» (Pasolini 1999, p. 1237) e l’istituzione di un nuovo patto sociale-linguistico per un avvenire poetico liberato dal lirismo decadente e avanguardista di cui, nonostante le dichiarazioni, Pasolini rimarrebbe illustre erede, prende forma – una forma incerta e appassionata – il doloroso ripensamento del comunismo in una fase di liquidazione.
L’intero Attraverso Pasolini appare, d’altro canto, insieme come documento – di una fase storica, dell’immaginario politico di due intellettuali-poeti marxisti di fronte ai mutamenti della realtà/società – e come «diario di riscritture», «paragrafo di un’autobiografia qualsiasi» (Fortini 2022, p. 11). Un’autobiografia che si rivela, tuttavia, sempre scritta, intessuta attraverso le parole dell’altro. Il volontario «doppio gioco» di vita e opera, il «regime di doppia verità» che rimuove ciò che supera le lacerazioni del soggetto rifuggendo nell’irresponsabilità del nume poetico ogni dialogo, l’assolutizzazione a-dialettica dell’antitesi e il rifiuto della maturità politica che farebbero di Pasolini un grande “nemico del popolo”, conducono Fortini di fronte a uno stallo. La prossimità e l’estraneità che impediscono di collocare Pasolini nella schiera dei fratelli o nella risma dei nemici è segno di un’amicizia che, tentata di definire o catturare l’altro, è ogni volta risospinta sulla soglia del “noi”, verso l’impossibilità di fondare sulla poesia alcun legame riconosciuto, riconoscibile.
La lacuna nella comunicazione – il mutare sistolico delle firme, le lettere perdute o mai giunte a destinazione –, la scrittura e perfino l’intraducibilità – «In quale linguaggio sarà possibile parlare, quando fosse necessario, con te? Temo e suppongo che tu non parli realmente più, che tu scriva soltanto» (ivi, p. 124) –, divengono allora convocazione di fronte all’estraneità della propria scrittura, anche quando in scrittura sembra tradursi l’intera esistenza, secondo un destino – quello pasoliniano – insieme «mirabile e tragico» (ibidem).
La metabolica furia ragionativa tesa a «cancellare ad ogni pagina la pagina precedente» (ivi, p. 182) fa della poesia una massa linguistica che resiste e supera la soggettività dell’autore, le sue pubbliche asserzioni ideologiche. È nella poesia infatti, scandalo e pietra d’inciampo (Fortini 2006, p. 60), che gli elementi radioattivi dell’opera di Pasolini continuano a riattivarsi, a consegnare, a chi si inoltri criticamente nel suo materiale vulcanico, una «preziosa parcella» di verità. I rapporti temporali che essa inaugura, l’evento sempre «incombente ed imminente» (Fortini 2022, p. 191) che sembra abitarla, ne costituiscono il nucleo incandescente, magmatico, veramente politico.
L’errore storico – che trasforma il sottoproletariato in «cristallo fuori dalla storia» (ivi, p. 124) e l’Italia in un fossile di caste alessandrine, fino a condurre il poeta all’enunciazione letteraria di un identico esaurimento personale e nazionale; l’errore filosofico-politico – l’idea mitico-retorica della lotta e del popolo, l’entusiastico dilettantismo politico che caratterizza la seconda serie di “Officina” e gli articoli pubblicati sul “Corriere della Sera” a partire dal 1973; l’errore morale e letterario –l’esasperata contraddizione che trasforma storia e politica in pretesto poetico ed erotico e la prassi in scrittura – imputati da Fortini all’amico-nemico, non sono riscattati e redenti dall’opera poetica. Tuttavia in essa appaiono frammenti abbaglianti di una verità – parziale, provvisoria – che si impone e si attesta con una «forza di errore» (Fortini 2022, p. 49) che si sottrae, nonostante tutto, alla “forza di legge” che pure la assedia come un «inconscio politico» con cui Pasolini, per timore di essere «messo a morte da un’altra verità» (ivi, p. 58), non avrebbe saputo fino in fondo confrontarsi.
Ciò che resta dell’opera, in morte di ogni autore, è dunque l’errore – «L’errore/che fu mio, e il mio vero, resterà» (Fortini 2022, p. 81) –, che la disgregazione tra opera e vita, tra enunciati ideologici e astanza poetica condotta dal critico-entomologo si propone di mostrare. Oltre il tentativo di scindere una contraddizione dalla sua recitazione drammatica, una verità dalla verità di una finzione, l’errore si configura come lo scarto che lavora in e tra le scritture dei due poeti come “spostamento” su cui si misura il possibile e l’impossibile di un’epoca, nel luogo incollocabile di un’amicizia al di là della speranza.
La poesia – dono dato in sovrappiù a chi ponga la propria fede nel Regno dell’Uomo (Fortini) o grazia immanente oltre qualunque garanzia (Pasolini) – potrebbe così rivelare la via d’uscita di una salvezza paradossale; un esercizio dell’errore poetico che rinnovi un’antica, disperata promessa: «Alla fine la serie delle esperimentazioni risulterà una strada d’amore – amore fisico e sentimentale per i fenomeni del mondo, e amore intellettuale per il loro spirito, la storia: che ci farà sempre essere “col sentimento, al punto in cui il mondo si rinnova”» (Pasolini 1999, p. 1237).