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Los Angeles, Hillcrest Club, fine anni Cinquanta: "Una sera Billy [Higgins] disse che un suo amico trombettista avrebbe voluto suonare con noi assieme a un sassofonista che si era portato dietro. Malgrado la nostra politica, dato che nessun altro del gruppo aveva mai invitato qualcuno, dissi che non c'erano problemi. Mi presentò Omette Coleman e Don Cherry, e senza averli sentiti suonare una sola volta iniziammo col primo brano in formazione da quintetto [con Charlie Haden al contrabbasso]. Quasi istantaneamente [...] il pubblico si alzò in massa e si diresse verso l'uscita del locale, lasciando quel che stava bevendo sul tavolo o sul bancone del bar. La band aveva appena iniziato a suonare che il club si svuotò completamente". Di simili storie Paul Bley (1932-2016) ne racconta non poche in questo suo rivelatore libro di memorie, limato con pazienza da David Lee nel corso di un decennio e apparso in origine nel 1999. La narrazione, talvolta leggera, più spesso distaccata e insieme ricca di significati sottesi, unisce puri momenti biografici a profonde riflessioni musicali, configurandosi in un chiaroscuro che è metafora dello stile pianistico atemporale e unico del canadese. Da Charlie Parker a Jaco Pastorius la galleria degli incontri sul palco e in studio è un Louvre del jazz: considerato quanto Bley ha saputo dare all'improvvisazione non deve stupire che in tanti gli volessero bene.

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