Nel 1984 Luigi Ghirri fotografa il Teatrino di
Varano, appena costruito da Paolo Zermani. Pochi giorni dopo
Attlio Bertolucci lo visita e lo commenta. Nasce, intorno a
quest'opera, un intreccio di amicizie
e consuetudini che coinvolge e lega
tre generazioni e tre arti: poesia, fotografia e architettura in una singolare
manifestazione di intenti che si dipanerà per anni e fino ad oggi.
È quello sopra delineato l'incipit
del libro di Edoardo Cresci «Bertolucci, Ghirri, Zermani. Un'officina italiana», edito da Quodlibet, da poco in libreria, che analizza e testimonia la vicenda artistica dei tre protagonisti
sullo sfondo della comune appartenenza alla identità culturale dell'Emilia occidentale, nella consapevolezza
di una radice condivisa con figure che,
da Wiligelmo e Benedetto Antelami fino a Giorgio Morandi, lungo i secoli,
hanno plasmato questo paesaggio
d'anima in un disegno riconoscibile.
Non a caso il racconto ha inizio dal
riferimento al grande critico d'arte Roberto Longhi che, per primo, nel 1934,
aveva identificato una traccia secolare, dal Romanico fino al Novecento,
nel lavoro degli artisti emiliani.
Longhi, come noto, è maestro a Bologna del giovane Attilio Bertolucci,
oltre che di Bassani e Pasolini, nonché
amico ed esegeta di Morandi.
Su questa traccia tutta emiliana il racconto del lavoro di Bertolucci, Ghirri e
Zermani ha inizio dall'incontro tra il fotografo, all'epoca già internazionalmente conosciuto, e l'architetto, allora
giovanissimo, un sabato mezzogiorno
del 1984, in cui Ghirri scatta alcuni magici fotogrammi al Teatrino di Varano
mentre il sole sta lasciando il posto alla
nebbia, scatti che diventeranno celebri
e saranno pubblicati dalle più importanti riviste di architettura del mondo.
«Sembra un Lem, ma è attaccato alla
terra» osserva quel giorno Ghirri a
proposito del Teatrino, riferendosi al
Lunar Excursion Module usato dagli
americani per la missione Apollo sulla
Luna.
Cielo e terra costituiranno anche le
parole chiave della immediata condivisione. Saranno quei fotogrammi ad
attrarre l'interesse del grande poeta
Bertolucci, che vorrà vedere personalmente la piccola opera, oggi riconosciuta come bene culturale, e ne parlerà con entusiasmo riconoscendo
nella «tenda di mattoni» i tratti di una
espressione propria alla tradizione di
questi luoghi legati secolarmente al
transito delle compagnie ambulanti
sugli itinerari di pellegrinaggio e di
commercio europei verso Roma e il
Mediterraneo, qui confluiti nella cruna viaria appenninica.
Il libro, a partire da quell'episodio,
ripercorre il filo rosso di analogie che
lega, nei diversi tempi e campi, la ricerca artistica dei tre emiliani, evidenziando il rapporto costante della stessa con la propria terra d'origine e i
suoi caratteri originali.
Medium unificante di tutto ciò sono
la casa e il paesaggio, luoghi di applicazione quotidiana locale di un discorso
universale: così la casa di Bertolucci
sull'Appennino a Casarola, la casa di
Ghirri in pianura a Roncocesi, la casa di
Zermani in collina a Varano assumono
il ruolo di luoghi mitici in cui il presente
raccoglie il passato e lo proietta in un
futuro carico di significati, opposto alla
frenesia del nostro tempo.
Questo libro che, come qualcuno ha
scritto «dovrebbe essere letto da tutti
coloro che abitano nella Pianura Padana», è un consolante testimone della possibilità, suggerita dall'arte, che
la modernità dei nostri atti trovi nella
continuità della tradizione le ragioni
dell'appartenenza.
Le opere forgiate nell'«officina» di
Bertolucci, Ghirri, Zermani sono viva
dimostrazione di tale assunto, offerta
dalla nostra regione alla cultura italiana.