Recensioni / Ich bin ein Sputacchiera

La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera , esordio letterario di Alberto Ravasio, è un romanzo importante, e lo è per almeno due motivi: perché fa molto ridere, senza essere mai banale o sbracato; e perché ritrae fedelmente una generazione, senza scivolare nell’ansia del sociologo o nel puntiglio del filosofo – duplice merito, visto che l’autore è filosofo di formazione.
Forse è un tarlo mio, ma mi sembra che ancora oggi, in Italia, viga la convinzione secondo cui, per scrivere o dire qualcosa di significativo, sia necessario ammantarsi di serietà. Pensate – non senza un brivido di orrore sulla schiena – ai monologhi retorici di Saviano da Fazio o a quelli di Stefano Massini a Propaganda Live, il cui tono si ritrova identico in quei romanzi incentrati sulle grandi questioni sociali del nostro tempo: dai migranti alle minoranze di vario tipo.
Come diceva Walter Siti nel suo Contro l’impegno «sembra quasi che alcuni temi siano ‘buoni’ per definizione, e che individuati quelli la forma abbia il solo incarico di essere la più trasparente e comunicativa possibile». Non solo – aggiungo io – sembra quasi che quando questi temi vengono trattati, sia necessario farlo con la minore dose possibile di ironia, perché chi mai si permetterebbe di scherzarci sopra? Un pagliaccio o un cafone.
Alberto Ravasio va contro ad entrambe queste tendenze: da una parte fa della comicità una delle cifre distintive della sua scrittura; dall’altra ha bene a mente quanto la forma sia sostanza, e lungo tutto l’arco del romanzo sfoggia una prosa brillante, in cui i neologismi e le trovate metaforiche animano una lingua che alterna registro colloquiale e aulico – il risultato è quella prosa alticcia di cui parla Ermanno Cavazzoni, scrittore e direttore della collana “Compagnia Extra” per Quodlibet.
Eppure, nonostante l’apparente scanzonatezza, Ravasio tocca nel suo breve romanzo alcuni dei nodi cruciali del nostro tempo, e di una generazione in particolare.

Ma se avete letto fin qua, forse vorrete almeno sapere di cosa parla ‘sto libro. In breve: Guglielmo Sputacchiera, trentenne inadatto alla vita (sociale, sessuale, lavorativa), si risveglia una mattina d’agosto nel corpo di una donna. Pornodipendente incallito, Guglielmo può toccare per la prima volta con mano ciò che ha sempre visto brillare dall’altra parte dello schermo: un bel paio di tette. Le sue tette.
Da questo incipit farsesco e patentemente kafkiano – come già detto da tutti ma volevo dire «kafkiano» anch’io – prende l’avvio una serie di disavventure e di flashback che raccontano passato e presente di Sputacchiera, costretto a vivere disoccupato a casa dei suoi genitori in un generico paesino della provincia bergamasca.
Si diceva che questo romanzo racconta molto bene una generazione, e forse in questo sta uno dei suoi maggiori limiti: chi non è un Millennials, chi non ha toccato con mano la mediocrità della formazione universitaria italiana, chi non ha vissuto in provincia o in lontana periferia e chi non ha passato più ore di quante vorrebbe ammettere davanti alla pornografia on-line, non parteciperà forse con lo stesso trasporto alle vicende di Sputacchiera; ma se rientrate in almeno un paio di queste categorie, non potrete rimanere indifferenti di fronte alle sfighe del protagonista.
Ravasio prende in giro, ma non lo fa mai col piglio del censore: quando ad esempio afferma che «La laurea di oggi era diventata la quinta elementare del popolo primonovecentesco» – formula felicissima che sembra sintetizzare alcuni capitoli della Teoria della classe disagiata di Raffaele Ventura – l’autore non si smarca dall’accusa, e mentre ironizza sulla sfortunata formazione umanistica del protagonista (eterno fuoricorso, che ha scelto la facoltà di lettere e poi di filosofia soprattutto per avere molte colleghe di sesso femminile) sta evidentemente tirando in ballo anche se stesso.
Sia chiaro: questo libro non è un manifesto politico e non è nemmeno un romanzo a tesi. Non si sofferma in maniera analitica sul perché e il percome dell’odierna situazione socio-economica, ma tutti gli aspetti accennati qui sopra – la svalutazione dell’educazione superiore, il grigiore della provincia, il porno come surrogato di una reale vita sessuale – emergono en passant nel corso delle peregrinazioni di Sputacchiera, offrendo al lettore frammenti di realtà vista o vissuta.
Con poche righe di stralunato espressionismo Ravasio riesce a restituirci fedelmente il contesto sociale in cui il suo protagonista si muove, in cui molti di noi si sono mossi.

«Se dio era assente ingiustificato, le sorprese dell’uovo di Pasqua tutte doppie e il cioccolato era diabetico e cariante, quel pertugio doveva essere l’unica via rimasta per il tanto reclamizzato paradiso»

Grazie a questo rapido giro di parole, nascosto sotto l’ironia e l’iperbole, Ravasio ci sta raccontando tantissimo: la gioventù di chi ha vissuto la religione come vuota imposizione, e che dunque ora vive una vita tutta nell’immanenza, il consumismo ipertrofico a cui siamo stati esposti fin da giovani e infine la divinizzazione del sesso (e perché no, dell’amore), a cui in mancanza d’altre prospettiva viene affidata ogni speranza per la felicità futura – essere amato e «posseduto sentimentalmente» è «il desiderio più perverso, elaborato e sconveniente in assoluto», dirà l’autore nelle fasi finali del romanzo.

Insomma, lo possiamo dire? Ravasio fa ridere ma fa anche riflettere, solo che le prospettive che il mondo di Sputacchiera ci offre allo sguardo sono tutt’altro che consolatorie.
Innanzitutto Sputacchiera appartiene a quella generazioni di maschi schiacciati tra due poli opposti: il machismo dei padri, apparentemente inscalfibile grazie al solido binomio fatto di cultura del lavoro e impermeabilità alle emozioni; e una nuova sensibilità che non si riesce mai davvero ad abbracciare – complici anche i fallimenti amorosi, come quello tragicomico vissuto dal protagonista ai tempi dell’università, raccontato nel capitolo Il primo amore e altre sciagure . Non dirò nulla di originale, perché è l’autore stesso ad aver offerto una chiave di lettura per la transessualizzazione del suo personaggio: in un’intervista Ravasio ha affermato che questa metamorfosi è da intendere in senso metaforico. Sputacchiera non è laureato, non ha lavoro e vive con i suoi, è socialmente una nullità e non ha un patrimonio; dunque non è un “uomo” (inteso anche – credo io – come soggetto sessualmente desiderabile, il che è fondamentale in un mondo sessocentrato come il nostro). La sua trasformazione non è altro che una manifestazione esteriore di questo fatto, e proprio grazie al suo nuovo corpo femminile Sputacchiera troverà il coraggio di rifarsi una vita, abbandonando il suo paesello e cercando fortuna nella grande città («grazie alle sue nuove bisacce di tessuto lipidico su sedere e seni, prima di morire di fame avrebbe avuto un po’ di tempo per occuparsi della sua disoccupazione, procedendo per tentativi ed errori»).
Il giovane maschio del ventunesimo secolo è comunque in buona compagnia, perché non è il solo ad essere in crisi: la chiusa del romanzo assume infatti toni a tratti catastrofisti. Sputacchiera nelle battute finali descrive una società in cui per operare la rivoluzione non dovrebbero più esserci padri. Solo così, ossia senza avere nessuno a cui dare in eredità il nostro patrimonio privato – dunque mettendo fine al patrimonio stesso – potremmo fare qualcosa per migliorare la nostra condizione.
Ma vistò che ciò non accadrà – perché (s)fortunatamente abbiamo «mangime economico a sufficienza per preferire la disoccupazione volontaria alla nobiltà di un mestiere spazzino» -, forse la nostra generazione vivrà, prima nella storia recente, un’inversione di tendenza: nati col sedere nel burro, in case calde col frigo sempre pieno, invecchieremo poveri, costretti a creare nuove reti di solidarietà tra coetanei, vivendo tra amici in case strette ed aiutandoci a vicenda, più o meno come accadeva nelle vecchie società contadine.
Queste ultime riflessioni sono contenute nella lettera al padre, che con il secondo riferimento a Kafka chiude il cerchio aperto dalla metamorfosi. Era rischioso concludere il romanzo in questo modo, perché poche cose sono più malamente retoriche di una lettera del genere, ma Ravasio è riuscito ad evitare il tono del rant fine a se stesso (quello che troviamo sui post lunghi di Facebook), e con schiettezza ha lasciato che il suo personaggio facesse un’amara confessione: quella della generazione di Sputacchiera, che come la nostra vive più di ogni altra cosa il dramma di una vita senza futuro.

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