La vicenda di Dolores
Prato conserva i crismi dell'eccezionalità: il suo romanzo
Giù l a piazza non c'è nessuno uscì infatti nel
1980 nei «Coralli» einaudiani in una versione ridotta da Natalia Ginzburg, suscitando un notevole
interesse da parte del pubblico
e della critica ma anche un certo malumore nell'autrice, quasi novantenne, che non si riconosceva nelle «manomissioni»
operate dalla sua mentore. La
Prato morirà a distanza di tre
anni e il romanzo sarà riproposto in forma integrale nel '97 da
Mondadori a cura di Giorgio
Zampa che precedentemente
dette alle stampe anche i due volumetti di Le ore
per Scheiwiller, poi ripresi nel libro eponimo di Adelphi. Oltre a Campane
a Sangiocondo
(Avagliano, 2009),
che rappresenta il suo primo romanzo, apparso con il titolo
Sangiocondo
in edizione autofinanziata nel 1963, la Quodlibet
ha provveduto a rilanciare la figura della narratrice, pubblicando Scottature
(1996) e Sogni
(2010) nonché la ristampa del
suo capolavoro, Giù la piazza non
c'è nessuno
(2009). In questo libro-monstre, di chiaro taglio
autobiografico, di oltre 700 pagine, arricchito in calce da un
opportuno glossario, si narrano le vicissitudini della protagonista, nata a Roma da una relazione clandestina e cresciuta a
Treia, piccola città del maceratese, da uno zio prete e dalla sorella di quest'ultimo, prima di
essere ospitata in un istituto di
suore di clausura e tornare nella capitale. Qui la scrittrice si
laureò presso la Facoltà di Magistero nel 1918 e continuò a operare fino alla morte.
Tra gli anni cinquanta e settanta appare un certo numero
di elzeviri su quotidiani e periodici, soprattutto su Paese Sera,
di cui è direttore l'amico Fausto Coen, ora raccolti, insieme
a qualche inedito, in Roma,
non altro (Quodlibet «Storie»,
pp. 208, € 15,00). Il volume
esce a cura di Valentina Polci
che aveva già proposto la trascrizione commentata dei
frammenti autografi su Roma
in «Voce fuori coro» di Dolores Prato
(Quodlibet 2016). Si tratta di
eleganti digressioni intorno alla città eterna, sempre pervase
di sottile ironia, che passano
dalle Divagazioni tiberine
alle
considerazioni sulla sacralità
del gatto importato dall'Egitto,
dall'universo cifrato delle catacombe (deliziosi Il mondo sottoterra
e Resistenza di Roma ) al sarcofago di Augusto, da una moderna Trastevere, che rimanda
per contrasto alle immagini color seppia di vecchie fotografie,
al Pantheon, definito «il più enigmatico monumento romano».
In Il santo bisestile
la scrittrice
elenca, un po' irriverentemente, i nomi di chiese dedicate a
santi mai esistiti come Caio, Portogallo, Zotico, Anigro, Passera,
Macuto, Simmetrio, Stratonico,
addirittura San Siluro, che ricordano il calendario allestito da
Jarry per l'anno 1901 nell'Almanach illustré du Père Ubu : da S.
Asparago a S. Stranonzo, da S.
Crauto a S.ta Soppressata, da S.
Puré a S.ta Varice.
Ma lo stile di Dolores Prato è
agli antipodi rispetto a quello
delle rutilanti sperimentazioni linguistiche di Jarry, mai
esenti da intenti trasgressivi dichiarati, basandosi piuttosto
su scritti che sembrano ricamati in aria, tratteggiati in punta
di penna con una levità e una sapienza compositiva derivanti
da un trasporto atavico per strade e monumenti, per giardini e
ipogei, per case e chiese che si
sgretolano o vengono abbattute per far posto a ciò che risulta
utile e funzionale. Non si indulge mai alla trivialità, le parole
hanno perduto il loro senso originario diventando «idropiche». Eppure, saranno queste
parole «così spesso gonfie e vuote», che «ci hanno fatto male», a
rivendicare il diritto all'insubordinazione di fronte allo
scempio architettonico, alla
Roma che scompare per sfumare gradualmente nei contorni
di «una città qualunque».
La polemica non riguarda solo lo snaturamento del paesaggio, ma investe anche elementi
apparentemente meno importanti come le sigle degli autobus sostituite da combinazioni
anonime di cifre o l'adeguamento internazionale delle tinte dei taxi. Il giallo squillante
dei taxi non è consono a Roma,
in quanto «è il colore dell'allontanamento», inviso a quello della «crosta di pane cotto al forno; di travertino vecchio, di
oro brunito dal tempo». La scrittrice reclama l'unicità dell'Urbe, i colori che devono intonarsi a quinte e fondali facendo affiorare dal verde digradante di
orti e giardini il «rossiccio dei
mattoni cotti da secoli di sole»,
al Tevere che ha assunto quelle
screziature paglierine a causa
del «grande oro che si trovava
nel suo fondo: statue, monete,
diademi, monili, tutte le ricchezze che i Romani gettavano
(...) all'avvicinarsi dei Barbari».
Il recupero quasi puerile di miti e leggende che sfumano nel
paradosso si coniuga a uno stile sorvegliato, misurato, che
sembra rifarsi a un'urbanistica
in parte sfuggita al degrado avvenuto dopo la proclamazione
di Roma capitale.
A tratti questi elzeviri ricordano, per l'empatia con gli argomenti trattati, la prosa baroccheggiante di Vigolo che sembra imitare le volute del Bernini, presaga di un disfacimento
che la scuote dall'interno e l'attraversa come il zig-zag di una
folgore sputata da un cielo venato di cobalto. Ma le prose della Prato rinviano soprattutto
alle volumetrie di chiese paleocristiane e romaniche (il Pantheon divenuto S. Maria ad
Martyres, il portico della Basilica di S. Vitale, S. Maria in Trastevere), sempre alla ricerca di
vestigia che connotino il profilo frastagliato di una città che
ha la consistenza fragile e imperitura del tufo.
In tale contesto spiccano i ritratti di amici come l'insigne latinista Concetto Marchesi, che
desiderava un funerale modesto come quello a cui assistette
casualmente con la scrittrice
nei pressi di Prima Porta o il pubblicista Mario Vinciguerra, presidente della Siae, ricco di consigli e di un'umanità non comune. Il giornalismo sui generis della Prato, contaminato di elementi autobiografici, diventa così
una critica implicita al malcostu