Georges Perec ha scritto alcuni romanzi
che chi li legge non li scorda più: Le cose
(Les choses, 1965), storia tremenda di
una normale coppia anni ’60; Un uomo
che dorme (1967), storia di come si può diventare a
poco a poco solitari barboni. E poi La vita istruzioni
per l’uso (1978), anche questo indimenticabile intreccio di vite diverse che si incrociano in uno stabile parigino, via Simon-Crubellier. E tanti piccoli
scritti geniali che Perec aveva il gusto maligno di
spargere anche nelle riviste più marginali e sconosciute, in modo da rendere difficile il reperimento.
L’infra-ordinario, uscito in Francia nel 1989, sette
anni dopo la morte di Georges Perec, raccoglie una
piccola serie di questi scritti sparsi degli anni ’70, che
parlano di ciò che è talmente ordinario e scontato, e
sotto gli occhi di tutti, che neppure lo si nota durante
la nostra vita corrente, né lo si pensa possibile oggetto di letteratura. E tutto ciò che va perso nel corso del
tempo, cioè la vita quotidiana con il relativo arredo.
Un esempio è La rue Vilin, una via di Parigi che Perec
descrive in sei date diverse a distanza circa di un anno, in ciò che ha di più transitorio, tutto quello che
dura un attimo (un passero morto per terra, un passante, un piccione) o un giorno (un foglietto appiccicato di un gatto smarrito, il telefono per traslochi e
sgombri, un avviso di chiusura), un mese (un menù
esposto, un’impalcatura, una pubblicità, un manifesto elettorale), un anno (una vetrina, gli orari d’ufficio, le scrostature di un muro o un portone malmesso), dieci o vent’anni (una targa, scritte sbiadite di
precedenti negozi, i negozi attuali con le loro insegne, i numeri civici, porte e finestre murate, la segnaletica stradale).
È il transeunte a cui non si presta attenzione, e
che però è la veste che si mette il tempo, che genera
poi nel ricordo la malinconia. Perec ne era calamitato da ciò che passa ed è già perduto, è una costante
di tanti suoi scritti, fermare l’attimo, congelarlo e
osservarlo; con le parole si può essere molto più minuziosi che con una fotografia, che ingiallisce col
tempo ed essa pure si perde. Dello stesso genere è
quel libretto delizioso e doloroso che si chiama Je
me souviens, mi ricordo, fatto di frasi brevi, mi ricordo questo, mi ricordo quello, e sono sempre fatti o
notizie o pettegolezzi già svaporati o in via di esserlo per sempre, di area francese o contigua, cose da
poco, che vivono per un momento su un rotocalco:
un play-boy e la sua conquista, il disco e la cantante
di una stagione, un nome che rimbalza in TV e poi
svanisce, una moda, mi ricordo lo yo-yo, mi ricordo
Lumumba, mi ricordo qualcuno dei sette nani,
Brontolo, Mammolo, Dotto, mi ricordo la Nouvelle
Vague, mi ricordo la fatica per capire cosa volesse
dire l’espressione «senza soluzione di continuità»,
mi ricordo Xavier Cugat, e poi certe filastrocche,
certe pubblicità, certe attrici. E poiché sono tutte cose fugaci e il libro è del 1978, la maggior parte non
se le ricorda ormai più nessuno. Ognuno di noi potrebbe fare un Je me souviens differente, leggermente differente, a seconda di ciò cui è stato esposto in
una parte trascorsa della sua vita, con finestre temporali e nazionali comuni ai suoi coetanei.
In questo tentativo di cogliere il provvisorio c’è
in L’infra-ordinario la descrizione minuziosissima
del suo tavolo da lavoro, come fosse una natura
morta, Still life è il titolo, con tutti gli oggetti sopra
deposti, a loro volta descritti, una gomma con una
scritta in nero, un tagliaunghie, una calcolatrice tascabile Casio, un accendino, un pennarello verde,
un posacenere con sei mozziconi, una pila di fogli
40 x 30 ecc. ecc.; il tavolo diventa il luogo dove questi vari oggetti si sono depositati a una data, a un’ora, a quel minuto secondo, come si depositano sul
terreno le foglie (Style leaf è il secondo titolo) che al
primo soffio di una nuova stagione, al primo mutamento d’umore, volano via, in un cassetto, tra la roba in disuso, se non nel pattume. Ma quel minuto
però è già sempre passato, perché sul tavolo c’è anche il foglio su cui sta scrivendo cosa c’è sul tavolo;
dovrebbe a rigore anche dirci cosa c’è scritto sul foglio, entrando però in un circuito che non si chiude
più e si avvolge su di sé. Sono i paradossi di Perec,
che si ritrovano anche in La vita istruzioni per l’uso,
il palazzo parigino contiene anche la raffigurazione del palazzo.
Questa idea di ritagliare una fetta di tempo c’è anche in un buffo e stomachevole scritto, che è l’elenco dei cibi solidi e liquidi ingeriti durante tutto il
1974; che verosimilmente viene dall’accumulo delle ricevute delle trattorie dove pranzava, col tipico
lessico da lista dei piatti; per cui risulta che nel ’74
ha mangiato: «nove brodo di manzo, una minestra
di cetrioli ghiacciata ... un salumi italiani ... quattro testina di vitello», e via via sei scaloppina, sei cotoletta alla milanese, sette gallina bollita con riso,
settantacinque formaggi, poi frutta, dolci, sorbetti,
vini in bottiglia e in calice, liquori, tisane e innumerabili caffè. E solo un elenco, ma a leggerlo fa impressione e fa ridere, per la minuzia, la quantità
che si accumula e la terminologia ristorantizia; e
l’essere umano in trattoria appare come una cloaca
che discioglie negli acidi gastrici questa varietà fugace e alla fine ridicola dei piatti con le loro singolari denominazioni. Perec è più maniacale negli elenchi, ma ricorda quei pazzeschi bilanci da orco di tutto ciò che un individuo ingurgita nel corso di una vita: 10 maiali, 10 mucche, 11 tonnellate di farina,
1000 polli, 800 litri d’olio e così via.
E poi ci sono le cartoline dalle vacanze, con le loro frasi stereotipate: saluti da, tempo bellissimo,
mare magnifico; anche questa tutta roba a perdere. Perec ne riporta 243, tutti saluti leggermente diversi, di poche righe, sembrerebbero le classiche
frasi buttate giù casualmente; ma a ben guardare il
totale equivale a tre elevato alla quinta; le cartoline
sono prodotte con un sistema meccanico, tre varianti di cinque frasi tipiche, sul luogo, il paesaggio, l’impiego del tempo, lo stato fisico e gli arrivederci finali. Le si potrebbe produrre con una macchinetta automatica. E un gioco combinatorio che contrasta con
le espressioni d’affetto e di contentezza estiva. Il
meccanismo si potrebbe applicare a tanti campi verbali, anche alle dichiarazioni d’amore, se per caso esistono ancora. In un altro scritto (raccolto in Manger, 1980) Perec aveva applicato lo stesso sistema alle ricette di cucina, ne scrive 81, cioè tre alla quarta,
3 ingredienti su 4 fasi di lavorazione. Sono gli esercizi tipici di quel circolo, fondato da Perec e alcuni altri, che è l’Ouvroire de litérature potentielle, «Oulipo»; dalle cui regole è nato anche il maggiore libro di
Perec La vita istruzioni per l’uso, romanzo meraviglioso e anomalo, del quale purtroppo circola in Italia una traduzione fatta nel 1984, prima che si sapessero le regole usate, note solo dopo la morte di Perec, 1982, con la pubblicazione del quaderno preparatorio, il Cahier des charges, 1993, che specifica le
parole obbligate da far comparire nel testo. Che perciò andrebbe ritradotto.