Non è difficile immaginare Giani Stuparich affacciato sul porto di Trieste mentre guarda verso un orizzonte preciso in cerca di quel vaporetto
che non esiste più, il vaporetto per l'Istria: «E
un movimento impulsivo di nostalgia verso
qualche cosa che si è perduto e non ci si è rassegnati ad aver perduto». Lo scrive in uno dei
racconti che compongono Ricordi istriani, l'ultimo suo libro riedito ora da Quodlibet. Il bello è che non risulta neppure difficile guardare
a quella frase come a una formidabile sintesi
della sua poetica. Nel 1913, giovanissimo e
ancora impegnato con la tesi di laurea, scrive l'articolo Quand'ero scolaro. Molti anni dopo, in Trieste nei miei ricordi (1948), Stuparich riconoscerà in quello scritto «il primo segno della mia inclinazione a riflettere su
ogni mia esperienza passata». Forse azzardando non è difficile neppure riconoscere
che il movimento della sua scrittura ha sempre dovuto fare i conti con qualcosa di irrimediabilmente perduto: l'Istria prima e l'Italia
poi, nella cocente delusione del fascismo. Così come tante sue opere sono state alimentate da altre mancanze, più drammatiche, tra
tutte la morte del fratello Carlo, suicida prima di essere catturato dagli austriaci e fucilato come traditore sul monte Cengio nel
1916. E la stessa sorte toccò al suo migliore
amico, lo scrittore Scipio Slataper, caduto
combattendo sul monte Podgora, nel 1915.
Il passato è il primo motore dell'opera di
Stuparich. Come potrebbe non esserlo? D'altra parte egli era stato tra i protagonisti dell'epoca d'oro di Trieste, quando i migliori si riunivano intorno al salotto di Anita Pittoni, che
fu anche la sua ultima compagna. Ma certo
Stuparich rivela la sua grandezza anche in
una singolare forza in espansione, rivolta pure all'esterno, cantando liricamente l'Istria
avendo però in mente anche l'Europa, come
testimoniano i primi scritti su La Voce. E amava visceralmente Trieste senza che ciò gli impedisse di amare Firenze, o Torino. Anzi, Torino dopo Firenze è la città che sentirà più legata alla sua formazione. Collaborò infatti per
molti anni con La Stampa, dove ha pubblicato
i suoi primi Racconti: Torino «m'aveva tenuto
a battesimo come narratore», oltre a evidenziare le curiose analogie di due città agli estremi, caratterialmente opposte ma unite da
una sorta di legame spirituale. Il grande centro piemontese lo aveva ammaliato soprattutto per quella sua «aria romantica, che mi
piace, quest'aria di Risorgimento che spira,
come in nessun'altra città, dai suoi monumenti, dalle sue piazze, dalla sua vita». Ed è
questo un altro elemento di quella tempra ossimorica che sa rivolgersi a forze opposte:
certo, Stuparich coltivava senz'altro una sensibilità urbana, mai però scollegata dalla natura, che fossero i fiumi di Torino o il mare di
Trieste. E poi c'è l'Istria, evocata e rievocata
in molteplici racconti a partire da L'isola, da
molti considerato il suo capolavoro, ambientato a Lussino, terra natia del padre. L'isola
infatti è simbolica, è l'abbandono fiducioso
al padre e il distacco, è la responsabilità del
passaggio generazionale, dove si racconta il
turbamento della perdita. Mentre sul versante della poetica dello «smarrimento» sono
forse i Colloqui con mio fratello il vero tempio
della sua scrittura, come ebbe a dire Italo
Svevo in una lettera del 1927.
Nella sua opera troviamo però un netto
spartiacque, ed è rappresentato proprio dai
Ricordi istriani. E lo stesso autore a tracciare
una linea di rottura tra gli anni sereni dell'infanzia e le tragiche vicende che seguirono allo scoppio del secondo conflitto mondiale.
Così, se a Trieste nei miei ricordi è affidata
un'epoca che si spinge fino al 1947, i Ricordi
istriani custodiranno il timbro più lirico e
fanciullesco, nella narrazione del rapimento, della bellezza dell'Istria e dell'infanzia a
partire dalla sua storia famigliare, quella
che parte dal padre e dalle zie, tutti di origine istriana. Tramite i loro profili e le loro case, l'autore ci restituisce quel territorio ormai
perduto ma limpidissimo nella memoria. Fu,
come si diceva, il suo ultimo libro, pubblicato
nelle edizioni de Lo Zibaldone di Anita Pittoni
all'inizio del 1961. Buona parte degli stessi testi uscirono alcuni mesi dopo ne Il ritorno del
padre, omaggio per i settant'anni di Stuparich, che morì pochi giorni dopo la pubblicazione, curata da un altro istriano, Pier Antonio
Quarantotti Gambini.
Si tratta di un grande affresco dell'infanzia
e dell'adolescenza, reso più assoluto da ciò
che seguì quel periodo aureo. Trionfa l'incanto del paesaggio, indispensabile complemento della sua scrittura per interpretare le relazioni umane. I ricordi seguono un preciso percorso cronologico che va di pari passo con le
villeggiature che si inoltrano sempre più all'interno della penisola altoadriatica. Natura, folclore, lingua, tutto è ricordato con la dovizia
di un chirurgo, molto riporta alla figura del padre, degli amici; eppure non tutto ha il sapore
dell'idillio. Ce lo dice già il primo racconto,
L'agnello di Pola, tenerissimo e crudele nel
suo schianto evocativo. E ce lo dice soprattutto l'ultima sezione, lì dove compare più di frequente l'amatissimo fratello Carlo, tra l'altro
magnifico poeta, come conferma la sua unica
raccolta inversi, Cose e ombre di uno, pubblicata postuma. Ma qui, nei Ricordi istriani, le poesie del fratello si coniugano con la narrativa di
Giani, con quella conciliazione degli opposti
che è anche la sua cifra più alta. Così, la commozione di un ricordo si fonde con i fossati
delle trincee, con i silenzi paurosi dei bombardamenti: «le teste vicine sotto lo stesso riparo, rievocavamo sommessamente la nostra
barca a vela, le estati passate a Umago». Quella vela aveva un significato preciso, la libertà
che gli irredenti fratelli avevano sempre perseguito, a rischio della vita.
E, a proposito di memoria, un'intuizione felice del curatore Giuseppe Sandrini, inpostfazione, mette in contrappunto le infinite associazioni di Proust e i brevissimi lampi di Stuparich. Da cui, azzardando, un bizzarro e inconsapevole sodalizio: anche Proust, nella suaRecherche, si era affidato proprio allo stesso mare - quello triestino, quello istriano - per simboleggiare perdita e libertà di orizzonti.