Pochi come Giani Stuparich hanno evocato l'incanto della giovinezza, nonostante
i drammi vissuti, le tragiche
perdite. La sua scrittura ha
sempre avuto un timbro votato allo struggimento, uno
stile nostalgico e (anche) fortemente
simbolico, non
senza il
fiancheggiamento
di un percorso psicoanalitico. Basti un titolo: "L'isola", dove la memoria è rivolta all'isola del padre, Lussino, ma lì ci troviamo di
fronte a un protagonista già
adulto, un trentenne che visiterà la terra paterna con l'inquietudine di uno smarrimento. In fondo la storia racconta la nostalgia di qualcuno a cui resta poco da vivere
e da qui gli abbandoni e i turbamenti del figlio.
C'è un'altra Istria però in
Giani Stuparich, più solare,
benché legata alla felicità di
un ricordo lontano. Lo scrittore ha sempre guardato al
passato e ha sempre utilizzato il passato con un qualche
intento morale. Come in
"Guerra del 15" (1931) o
"Nuovi racconti" (1935), dove proprio le narrazioni
dell'atroce esperienza del
primo conflitto mondiale
avevano il preciso obiettivo
di calmare gli animi: quelli
di chi era troppo infervorato
dalla politica espansionistica fascista.
C'è un "prima" di tutto questo, nella sua vita e nella sua
opera. Prima della guerra,
appunto, prima della perdita di un terra e delle persone
più care, prima dello smarrimento causato dal conflitto
del '18. Quel "prima" è raccolto in "Ricordi istriani"
(Quodlibet, pagg. 144, euro 14), l'ultimo libro di Giani Stuparich, pubblicato
nel 1961 nella collana Lo Zibaldone di Anita Pittoni.
Quello stesso anno alcuni di
quei racconti saranno inclusi anche nell'antologica "Il ritorno del padre", curata da
Pier Antonio Quarantotti
Gambini per Einaudi, in
omaggio ai settant'anni
dell'autore. Giani Stuparich
morirà pochi giorni dopo la
pubblicazione. "Ricordi
istriani" ci restituisce una terra prima conosciuta tramite
il padre e le zie, poi attraverso escursioni precise, le tante villeggiature che tutta la
famiglia Stuparich compiva
nella penisola, spingendosi
sempre più all'interno.
Sono fotogrammi di intensa armonia paesaggistica,
ma sempre proposti con precise azioni, la pesca, i contadini, il folclore, le abitudini,
soprattutto attraverso le relazioni più intense, quelle
con il padre e con il fratello.
Non c'è una briciola di smarrimento in "Ricordi istriani",
a differenza di molte altre
opere, è una sorta di decalogo di ciò che è stata la felicità, quando la felicità è rappresentata da una mattinata
spesa a pescare sgombri o a
rubare frutta dagli alberi dei
contadini apparentemente
burberi. O ancora dall'allegria giovanile che disturba
sempre chi non lo è più. Insomma non ci sono quelle
ombre pesanti a cui ci aveva
abituati con capolavori come "L'isola", "Colloqui con
mio fratello" o con la «disperata umiliazione» di quel
ventennio raccontato in
"Trieste nei miei ricordi".
D'altra parte lo stesso autore lo scrive in "Umago", l'ultimo titolo dei "Ricordi": «Nella memoria della mia vita c'è
una netta divisione fra gli anni che furono prima della
guerra del '15 e gli anni che a
questa seguirono». Due epoche opposte: i giorni sereni
dell'infanzia e della prima
giovinezza e poi la guerra come spartiacque di molteplici
perdite e di una esistenza minata dall'angoscia.
Va detto però che anche
questi ricordi non sono totalmente scevri da alcune oscurità (il dolore dei profughi
istriani incontrati molti anni
dopo a Trieste. O il ricordo
indelebile del fratello, il presagio della guerra), ma sono
spettri che non superano la
gioia dei quadri felici. La memoria si impone come un
vincolo, non tanto identitario, Giani Stuparich aveva le
idee chiare in proposito, anche se poi disilluse. La memoria appare piuttosto come l'unica condizione di letizia. Stuparich, forse con Slataper, è l'autore triestino
che riesce a ergere dei monumenti di assoluta beatitudine alla giovinezza, se pur nella complessità di un'epoca,
basti pensare a "Un anno di
scuola".
E qui, nei "Ricordi istriani", lo struggimento è doppio perché come scrive il curatore Giuseppe Sandrini:
«Il mondo della sua infanzia
è doppiamente perduto, perché alla naturale corsa del
tempo si sono aggiunti i traumi della Storia». Capodistria, Pola, Umago, Parenzo,
Montona, Grisignana, partendo da Punta Sottile, sono
tutti lampi di delizia inconsapevoli del futuro, più vicini
ai "Colori" di Giotti che alle
inquietudini di Svevo.
L'Istria, rivisitata anche
dall'alto nell'occasione di un
volo, rimane il paesaggio
più coinvolgente «bella come la faccia di mia madre»,
scrive. Così questi racconti
ne raccolgono i doni, anche
attraverso mitologie famigliari come quella del nonno
capitano. O di un prozio celebre nella musica lirica, Giuseppe Kaschmann. Le calme
o effervescenti architetture
dei panorami, la salute dei
protagonisti, la semplicità
del folclore evocano un mondo arcaico e vergine, una sorta di paradiso incontaminato e perciò con naturalezza
l'opera mette in luce anche
la pena della perdita: «Stuparich — scrive Sandrini nella incisiva postfazione — l'intellettuale di frontiera che si è
formato a Praga e a Firenze e
che non è mai stato né un fascista né un fanatico nazionalista, è uno dei pochi ad
aver titolo per levare il lamento sulla perduta Venezia Giulia».